domenica 25 agosto 2019

The danish girl, David Ebershoff

Pasadena, Copenhagen, Parigi, Dresda. Città che non hanno quasi niente l'una in comune con l'altra e che nella mia mente non si erano mai incrociate dentro lo stesso pensiero o lo stesso nucleo di parole - che motivo avrei avuto, del resto, per collegarle l'una all'altra? 
Da qualche settimana, invece, sono luoghi inscindibili. Lo sono diventati un po' per volta, all'improvviso, intanto che il tintinnio dei braccialetti di Greta si sommava ai paesaggi dipinti da Einar e nell'aria si diffondeva il profumo di latte e menta emanato da Lili. Questi suoni, queste immagini, questi odori sono accaduti uno per volta, e poi hanno cominciato a coesistere nei corridoi di certe case, nelle strade di molti posti, simultaneamente e per sempre. Quella fragranza di latte e menta è stata sentita per la prima volta in un appartamento di Copenhagen, anche se era nata parecchi anni prima in una palude in un posto sperduto della Danimarca. E' diventata sempre più preziosa frizzando nelle romantiche sere parigine ed a Dresda c'era un uomo con delle bacchette magiche che avrebbero fatto in modo che quel profumo così delicato e riconoscibile non sarebbe svanito più. Lili, non sarebbe svanita più. Il tintinnio dei braccialetti invece veniva da Pasadena, ma aveva scoperto un'acustica migliore nella capitale danese, dove divenne inseparabile prima da Einar e dai suoi paesaggi, poi da Lili e dal suo profumo di latte e menta.
Lasciate che vi racconti una storia.



C'era una volta Einar Wegener, che viveva a Copenhagen e dipingeva solo paesaggi. L'Europa li apprezzava, concedendo al suo autore una discreta fama ed un ottimo stipendio. Benché fosse piuttosto giovane e la sua carriera da poco decollata, Einar insegnava già all'Accademia d'arte, dove un giorno arrivò tra i suoi studenti Greta Waud. Era giovane, determinata, veniva dall'America ed aveva una spina dorsale da cowboy. Greta dipingeva solo ritratti, era brava ma non eccellente e un giorno prese tra le mani il viso di Einar - che era il suo professore - e lo baciò. Non ci fu molto tempo per soppesare i pro ed i contro di un'eventuale relazione, perché la prima guerra mondiale stava per sconvolgere l'Europa ed i genitori di Greta la costrinsero a tornare in America con loro. Greta odiava l'America, o per lo meno odiava Pasadena, dove il cognome che portava pesava di aspettative e destini prestabiliti cui lei era decisa a non piegarsi. Campi di aranceti, da lì venivano i soldi ed il prestigio dei Waud, terre e alberi che producevano arance grosse e succose. Da Greta ci si aspettava quello che facevano le altre ragazze della sua età: un marito di buona famiglia, una bella casa ed un adeguato numero di figli, cui dedicare il resto della vita tra conversazioni sterili, svaghi inutili e i pomeriggi di pioggia passati a fare l'uncinetto. Su Greta gravava ancora lo scandalo di essersene andata a zonzo sul carretto del giovane salumiere quando era una ragazzina, ecco quanto era stupido e piccolo quel posto, ecco perché era stato così salutare per lei muoversi nell'aria fredda di Copenhagen, dove nessuno la conosceva e tutti erano pronti a perdonare ogni stravaganza in virtù del fatto che era un'americana. Inchiodata di nuovo a Pasadena, Greta si aggrappò a quel bacio lasciato tra le labbra di Einar, sicura che la distanza e la guerra non potessero impedire ad un destino che era già scritto di compiersi. Lui però era molto più passivo e timoroso di lei ed in uno dei pochi pezzi di carta che riuscirono a travalicare l'oceano le scrisse che date le circostanze, probabilmente non si sarebbero visti mai più. Greta costrinse il boccone amaro a scenderle nello stomaco, e poi si diede da fare per trarre il meglio da quella che ormai era la sua vita. Conobbe un ceramista, all'inizio solo per svago, ma poi se ne innamorò perdutamente - perché Greta sapeva amare solo a quel modo, perdutamente - si sposarono sotto gli sguardi perplessi di tutti, ebbero un figlio che nacque morto e più tardi morì anche il ceramista a causa della tubercolosi, esalando l'ultimo faticoso respiro tra le braccia di Greta. Lei allora non perse un minuto, fece le valigie e salpò alla volta della sua casa scelta, la Danimarca. Quando si trovarono di nuovo faccia a faccia, lei ed Einar - che nel frattempo aveva condotto la stessa vita di prima, solitario, insegnando e dipingendo - non ebbero altra scelta che sposarsi. E così trovarono l'appartamento che faceva al caso loro, a due passi da Nyhavn, dove lui dipingeva solo paesaggi, lei dipingeva solo ritratti.

Landscape with Poplars
Einar Wegener, 1908
Ritratti di noiosi burocrati, delle loro mogli boriose, che finivano ignorati nei freddi corridoi degli uffici o a dare un tono nei salotti delle loro ville, mentre i quadri di Einar - anche se lei non riusciva a spiegarsi come potesse non annoiarsi dipingendo incessantemente lo stesso soggetto - venivano esposti alle mostre e ricevevano trafiletti entusiasti sui quotidiani. Non c'era invidia da parte di Greta, così come non c'era accondiscendenza da parte di Einar. Poi, un giorno, arrivò il giorno che cambiò qualunque cosa. Greta stava lavorando al ritratto di Anna, una cantante lirica di mezza età che ritardava sempre alle sedute di posa per via delle prove in teatro. Forse fu davvero perché si sentiva indietro col lavoro, forse colse questa scusa per portare alla luce qualcosa che, in qualche modo, aveva già intravisto. Greta chiese ad Einar di indossare le scarpe, le calze, infine anche il vestito di Anna - lui oppose qualche resistenza, ma fu costretto a cedere in nome dell'arte e dell'insistenza di sua moglie. Così indossò i panni di Anna, dicendosi che se anche lei fosse entrata in quel momento e lo avesse trovato conciato a quel modo non sarebbe stato troppo imbarazzante, in fondo Anna era un'artista ed in teatro gli uomini travestiti da donne erano una cosa più che normale. Greta lo osservava attentamente, intanto che dipingeva, mentre lui si ricordò di quella volta, quando era ancora un ragazzino e viveva nella palude, che Hans gli aveva chiesto di cucinare qualcosa e lui aveva indossato il grembiule della nonna e Hans... Anna entrò all'improvviso, restò stupita ma subito si allargò tutta in un sorriso lanciandogli addosso complimenti come coriandoli. In mano aveva un gran mazzo di fiori, forse per scusarsi del ritardo. Greta li accolse, e poi guardando Einar disse: ti chiameremo Lili.

Lili with Feather Duster
Gerda Wegener, 1920
Da quel momento, il mondo di Einar e di Greta pian piano si capovolse, o forse si dispose finalmente per come sin dall'inizio avrebbe dovuto essere. Lili tornò sempre più spesso a trovarli, Einar dipingeva sempre meno perché non ce n'era più bisogno, Greta iniziò a ritrarre Lili e la società dell'arte impazzì per lei. Le pieghe di questa storia incredibile e verissima sono infinite, e non posso credere di aver aspettato tanto prima di leggerlo: David Ebershoff, autore americano di cui questo romanzo rappresenta l'esordio, avvenuto nel 2000, ha riportato alla luce la vita di Lili Elbe, la prima persona nella storia ad essersi sottoposta ad un intervento di riassegnazione sessuale, e di sua moglie che in realtà si chiamava Gerda, che gli fu accanto fino alla fine. L'autore ci assicura, a fine romanzo, che tutto quanto concerne la biografia di Lili è basato sulla realtà - interviste che rilasciò lei all'epoca, i suoi diari, un testo intitolato Man Into Woman che racconta la sua storia e che lei collaborò a scrivere. Per quanto riguarda gli altri personaggi ed i rapporti che li legavano, l'autore precisa di essere partito da fatti e persone reali e di averli poi romanzati. Parlando strettamente del romanzo, dunque, la cosa che mi ha sorpresa di più è stata che mi aspettavo di maturare un'empatia ed un trasporto emotivo soprattutto nei confronti di Einar e poi di Lili, invece mi sono innamorata soprattutto di Greta: lei, con la sua spina dorsale da cowboy, è secondo me la spina dorsale di questa storia. Ho ammirato sin dall'inizio il suo carattere forte, il suo spirito indipendente, l'onestà e la schiettezza con cui si rapporta a se stessa e con la vita. Ma è quando da Einar esce fuori Lili che ho iniziato ad amarla veramente, perché Greta comprende istintivamente cosa sta accadendo e neanche per un secondo, neanche per un solo attimo, vede qualcosa di sbagliato in ciò che si trova sotto gli occhi. Incoraggia Einar ad indagare fino in fondo la propria identità, lo sprona ad essere Lili per capire chi vuole essere davvero, e quando per Einar rimane sempre meno spazio lei gli resta accanto da amica fedele, protettiva e solida anche se per lei significa perdere l'uomo che ha sposato, l'amore della sua vita. E quando una volta, guardando Lili che si muoveva per casa un dolore bruciante le si mosse dentro pensò mi manca mio marito, non disse niente, ricacciò indietro la tristezza ed aiutò Lili a prepararsi. Ecco come era Greta. 

Lo stile di David Ebershoff non mi ha colpita particolarmente, ma non posso dire nemmeno che mi sia del tutto dispiaciuto. A dispetto delle sue oltre 300 pagine, il libro si è fatto divorare in tre giorni scarsi, segno se non altro di grande scorrevolezza e - ovviamente - di una storia che una volta che ci sei dentro non vuoi più mollare. La vicenda di Lili mi ha preso moltissimo, l'ho seguita ovunque, da sola con la sua valigia, sotto la pioggia e in notti fredde in città sconosciute. Ho avuto paura per lei, ho avuto i brividi davanti alle diagnosi dei medici sbagliati, ho provato sollievo ascoltando quell'uomo venuto da Dresda che prometteva miracoli, ho sentito come se fosse il mio il peso che si scioglieva nel petto sentendo le parole "ne ho incontrato un altro come lei". 
The Danish Girl è un romanzo che non posso fare a meno di definire bellissimo e che merita di essere letto se non altro perché racconta una vita che ha segnato la storia, aprendo una strada, dando una possibilità a persone che fino a quel momento credevano di non averne. Sarei folle se vi svelassi l'epilogo, ma anche quello mi ha convinta pienamente, colpendomi forte e lasciandomi piena di amarezza. Perché era andato tutto bene, se solo l'essere umano avesse riconosciuto il limite, se non avesse peccato di arroganza, se non avesse commesso l'errore di Icaro. 

Terminata la lettura mi sono fiondata - finalmente! - a vedere il film, che desideravo guardare da quando era uscito e che rimandavo proprio perché prima dovevo necessariamente leggere il libro (bibliofili, siete con me?). Mi son trovata davanti ad uno di quei scomodi casi in cui bisogna convincersi a pensare che libro e film, pur raccontando la stessa storia, sono due cose diverse, ugualmente belle. La trasposizione cinematografica, con l'atmosfera degli anni Venti e Trenta e soprattutto con la bravura degli attori, tiene gli occhi incollati allo schermo. Eddie Redmayne nei panni di Einar Wegener e di Lili Elbe è una poesia umana, le sue espressioni ed i suoi movimenti sono un capolavoro e vale senz'altro la pena vedere il film solo per questo. Non posso negare però di esser rimasta piuttosto delusa da come hanno stravolto la figura di Gerda, almeno rispetto al romanzo: è vero che resta accanto ad Einar/Lili, ma lo fa ribellandosi a quanto sta accadendo, versando lacrime e lasciando straripare la sua sofferenza - tutte cose che, la Greta d'acciaio del romanzo, non si sarebbe mai sognata di fare. Vengono meno anche i suoi saldi principi, come il suo non sognarsi nemmeno di guardare un altro uomo finché era ancora sposata, nonostante suo marito non fosse più suo marito. Anche il finale è ben diverso dal libro, ne manca un'intera parte che lo rende forse più triste e molto meno amaro. Anche se avete visto il film e pensate quindi di conoscere questa storia, il mio consiglio è di leggere comunque il romanzo perché molto diverso.





Sei sempre stata più brava di me a fare ritratti.
Divento come mi vedi.
Mi hai fatta bella, e ora mi fai forte...
Quanto potere c'è in te.


mercoledì 14 agosto 2019

Tuo, Simon, Becky Albertalli

Simon ha diciassette anni, un'età in cui la vita si divide tra casa e liceo, col percorso che le unisce a fare da ponte tra due versioni di se stessi che comunque non sembrano coincidere mai con come ci si sente veramente. In autobus o a piedi, Simon compie quel percorso con le cuffie alle orecchie. Attraverso i fili scorre musica malinconica stranamente capace di far sorridere ed in quei momenti la testa piena di pensieri incondivisibili sembra l'unica cosa reale in mezzo a tanti filtri e giorni tutti uguali. Simon tutto sommato è fortunato, i diciassette anni non sono l'età peggiore di tutte, ma possono fare paura. Lui però ha dalla sua una famiglia unita, allegra ed affettuosa benché un po' impicciona, un golden retriever che deve il suo nome al momento di massima popolarità di Justin Bieber e degli amici che si porta dietro da quella che sembra un'eternità - Leah dall'aria burbera, che disegna e che è così difficile abbracciare; Nick che per gli amici mette in pausa i videogiochi ma non poserebbe mai la chitarra; Abby che piace a tutti, che è arrivata da poco e con la quale è così facile parlare. La scuola non è un incubo, perché Simon ha la fortuna di collocarsi in quella fascia di mezzo di chi non è particolarmente figo ma nemmeno tanto sfigato da esser preso di mira. Eppure.


Eppure a Simon Spier manca qualcosa, e lo scoprirà in maniera totalmente inaspettata scorrendo un social network del suo liceo. Un luogo virtuale utilizzato per lo più per fare gossip e creare scandali, che Simon apre di rado perché cose del genere non gli interessano. Ma quella volta, in mezzo a notizie di poco conto, gli occhi gli cadono su un post anonimo che per la sua diversità brilla come una gemma in mezzo a campi ricoperti di fango. Anche se anonimo, si capisce che a scrivere è un ragazzo, e quel ragazzo concentra in poche righe scritte con eleganza un particolare sapore di solitudine, che ha a che fare con muri invisibili che ti separano anche da chi sembra più vicino. Un paragrafo denso, che sembra l'acqua di un lago una sera d'inverno, e Simon ci casca dentro, per intero e tutto vestito. E' così, è esattamente così! pensa immediatamente, riconoscendo nelle parole dello sconosciuto qualcosa di sé cui non aveva mai saputo dare forma. La voglia di conoscere quella persona, chiunque egli sia, gli sboccia dentro con la forza di un sorriso e guidato da un'emozione senza nome spara il primo fuoco d'artificio dalla sponda del suo computer. Un paio di discreti commenti è quanto basta nel nuovo millennio per valicare distanze che avrebbero richiesto giorni e giorni di cammino, e così Simon diventa Jacques ed inizia un'emozionante corrispondenza via e-mail con il misterioso autore di quel folgorante post anonimo, che nelle sue lettere virtuali si firmerà semplicemente Blu.

I due ragazzi decidono di non scambiarsi particolari sulle rispettive identità, di continuare a conoscersi in quella maniera intima e onesta fatta di sole parole. Jacques e Blu parlano delle loro giornate storte, di cose stupide e di cose importantissime. Blu impara a conoscere la musica complessa che tanto ama Jacques, così come le sue bizzarre idee sulle regole che andrebbero osservate per indossare le t-shirt dei gruppi musicali e si lascia contagiare dalla sua discutibile passione per gli Oreo. Jacques, dal canto suo, si lascia ispirare dalla maturità di Blu, che un passo alla volta decide di affrontare i genitori divorziati e parlar loro della propria omosessualità. Jacques e Blu si chiedono perché il coming out è una faccenda con cui gli etero non devono fare i conti, perché soltanto per loro debba essere così faticoso ed imbarazzante. Jacques è più distratto e gli capita spesso di lasciare nelle sue e-mail degli indizi sulla sua identità. Blu invece è riservatissimo, discreto, attento ai dettagli e non si lascia sfuggire niente che possa aiutare Jacques a capire chi sia veramente. Anche se Jacques, o per meglio dire Simon, non pensa ad altro, e per i corridoi e nelle aule si guarda attorno in cerca di qualcosa, qualunque cosa, che lo possa condurre a Blu.

La trama ha in realtà un altro snodo importante, quando Martin, un compagno di scuola di Simon, scopre le e-mail che lui si scambia con Blu. Per l'impazienza di leggere l'ultima risposta di Blu, Simon entra nel suo account nel computer della scuola, dimenticando di fare il logout. Martin, che si siede allo stesso computer subito dopo di lui, non ci mette molto a capire cosa si è appena trovato davanti, e col cellulare immortala un inequivocabile scambio di parole tra Jacques e Blu. Martin in realtà non è un temibile bullo, piuttosto è un ragazzino solo ed insicuro, che viene preso in considerazione dagli altri solo per una battuta o uno scappellotto sulla nuca. Ed è per immaturità più che per cattiveria che deciderà di ricattare Simon. Martin, infatti, ha una cotta pazzesca per Abby - come del resto mezza scuola - e decide di usare le e-mail che ha visto per avere l'occasione di entrare in contatto con lei. Simon si troverà allora in una posizione scomoda: usare a sua volta una delle sue più care amiche per proteggersi, o correre il rischio di essere messo brutalmente a nudo? Più che a se stesso, fin dal principio Simon pensa a Blu, così riservato e così discreto, che forse deciderebbe di non parlargli più.

Tuo, Simon è un romanzo che ha cambiato titolo più volte. Quello originale - decisamente più intrigante - era Simon vs. the Homo Sapiens Agenda, che in italiano era diventato Non so chi sei ma io sono qui. Infine, si è adeguato al titolo che hanno deciso di dare al film che ne è stato tratto, uscito nel 2018, diventando - speriamo stabilmente - Tuo, Simon. In ogni caso, Becky Albertalli ha portato alla luce una storia che nella sua semplicità, dolcezza e leggerezza si fa portavoce di temi caldi e molto importanti, soprattutto se messa nelle mani di un adolescente. Non c'è nulla di urlato tra queste pagine, non ci sono eccessi né esagerazioni, ma soltanto i pensieri e gli ostacoli che dei diciassettenni potrebbero davvero trovarsi ad affrontare. E' una normalissima storia di crescita, di scoperta di sé e di accettazione della propria identità in cui sicuramente moltissimi ragazzi e ragazze potrebbero riconoscersi, sognando al contempo di trovare prima o poi il proprio Blu. Tra i temi messi in evidenza dalla Albertalli, quello che mi ha colpita di più perché forse meno trattato in altre storie simili, è il fatto che il coming out, in qualunque sua accezione, è una questione strettamente personale, che chiunque avrebbe il diritto di vivere secondo i propri tempi, affrontandolo con chi vuole e quando vuole senza che nessuno gli tolga la possibilità di decidere, come accade a Simon a causa del ricatto di Martin.

I personaggi, soprattutto i due protagonisti, sono molto ben caratterizzati. Simon è sin troppo realistico, col suo lasciar correre le cose e non affrontare talvolta gli argomenti più importanti. E' uno pieno di difetti, che pur senza volerlo commette un sacco di errori e ferisce i propri amici, ma il bello di Simon sta nella sua capacità di chiedere scusa e di inventarsi il modo di riparare ad ogni danno, nella sua voglia di crescere e di diventare una persona migliore. E questa sua presa di coscienza è sicuramente in parte merito di Blu, così maturo ed intelligente, uno che ascolta molto più di quanto parla, che s'imbarazza sino al mutismo davanti ai ragazzi che trova carini e che col suo esempio insegna a Simon come essere se stesso. Anche se nel libro Blu compare molto meno degli altri personaggi, riesce comunque ad avere una gran presa sul lettore (io ad esempio lo considero il mio personaggio preferito). I personaggi secondari sono a loro volta ben tratteggiati, soprattutto Leah ed Abby che fanno fatica a stare insieme nella stessa stanza e che quasi si contendono l'amicizia di Simon. E poi le sorelle di Simon - una ormai al college, spigliata e carismatica, l'altra cresciuta all'improvviso, silenziosa ed enigmatica. E come non provare simpatia per i genitori di Simon? La madre che cela malissimo la sua deformazione professionale da psicologa ed il padre che affronta qualunque argomento a suon di battute non sempre ben riuscite. Una famiglia a volte soffocante con tutte le sue abitudini e tradizioni e voglia di condividere, ma con un calore che si sente fin da qui.

Becky Albertalli lavorava come psicologa clinica per bambini ed adolescenti fino alla nascita del suo primo figlio, quando ha deciso di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. E' stato allora, nel 2015, che è nato Tuo, Simon, un'opera prima che ha riscosso subito un gran successo di pubblico e critica, facendole vincere anche numerosi premi. Nel 2017 ha pubblicato un seguito della storia di Simon, non ancora tradotto in italiano, intitolato The Upside of Unrequited e l'anno successivo uno spin off dedicato a Leah, Leah on the Offbeat, tradotto da Mondadori col noiosissimo ed insignificante titolo Sempre e solo Leah.

Devo ammettere che non ho bazzicato molto il genere young adult nella mia carriera di lettrice, al punto che mi ostino a rifiutare questa definizione convinta che non si tratti di un nuovo genere affermatosi negli ultimi anni o con le ultime generazioni, ma che si tratti semplicemente di letteratura per ragazzi. Ma forse mi sbaglio, chissà. Fatto sta che non portavo a termine un libro da giugno, ed in questi giorni in cui la calura mi sbatteva al tappeto per interi pomeriggi - decidendo di non volermi solo friggere il cervello per ore davanti alle serie tv - sono andata in cerca di qualcosa di abbastanza semplice, leggero e scorrevole da farmi tornare nella mia identità di lettrice. E la storia di Simon e di Blu ha funzionato alla grande, complici anche le poco più di duecento pagine l'ho terminato in due giorni, portandomi via una sensazione dolce e tiepida, sorridendo al ricordo di emozioni simili vissute alla loro età e che so bene non si ripeteranno mai più, soprattutto non con quello stesso indimenticabile sapore. 

domenica 12 maggio 2019

Una piccola cosa che ne contiene cento

Io e le mie amiche ci diciamo spesso l'un l'altra che esiste un momento giusto per qualunque cosa. Le mie amiche non si conoscono tra di loro, non direttamente o non intimamente almeno, perciò non si tratta di una frase facile divenuta una bizzarra convinzione di massa: è qualcosa che, in certi casi, ci viene spontaneo dire, come fosse una solida costruzione semantica cui aggrapparsi in caso di disordini sismici. E proprio per questo, da qualche tempo, ho cominciato a rifletterci: esiste il momento giusto per ogni cosa - sembrava così vero ogni volta che mi è stato detto, sembrava così vero ogni volta che l'ho detto, eppure - eppure sarà vero, oppure è un'idea di cui abbiamo bisogno per giustificare tutti i ritardi, tutti gli anticipi, tutti gli anelli mancanti? Io e le mie amiche, ormai orbite di quei lontanissimi trent'anni, e nessuna che ha con sé tutto ciò che sembrava indispensabile per arrivare preparate alla soglia di questa fase di vita. C'è chi ha una relazione stabile ma neppure l'ombra di una professione, chi ancora studia e attraversa le giornate convincendosi che l'essere adulti è qualcosa di ancora distante, chi lavora sodo tutti i giorni facendosi al contempo mille domande, chi ha fatto tutto di corsa, raggiungendo tutte le tappe in tempo, per poi trovarsi a fare i conti con l'abc del saper prendersi cura di sé. Non si può avere tutto, non si è mai completi, ma se mi guardo attorno mi vien da pensare che non è giusto neanche sentirsi così tanto incompleti.

Un cantautore che mi è vicino al punto da avere un tatuaggio in omaggio alle sue canzoni sull'avambraccio sinistro dice che è un superpotere essere vulnerabili, ed oggi sto riscoprendo una scossa alla volta quanto potere mi scorre nelle vene. Continuare a scrivere su questa linea mi porterebbe a fare qualcosa che ho deciso di non fare più, non su questo blog, ovvero esporre le viscere, usare il mio superpotere e mettermi a nudo - è già sottopelle quella fatica, quel nodo allo stomaco, sono in piedi sul ciglio, frammenti di terra e di roccia già si frantumano e rotolano a valle, laggiù c'è la lava che bolle, fa già così caldo che mi metterei ad urlare, figuriamoci se mi avvicino. Non so se quella frase che ci diciamo io e le mie amiche è vera, ma se esiste un momento giusto per ogni cosa allora deve esistere anche il posto giusto per ogni cosa. E questo blog, anche se ci ho provato ed anche se in parte mi sarebbe piaciuto, non è il luogo giusto per esporre i miei detriti spaziali. Forse non è vero, forse è l'ennesimo salvagente che sto lanciando tra me stessa e quel dirupo che c'è dentro, è l'ennesimo recinto di protezione che sto costruendo tra il mio dirupo e la gente fuori, che ignara e felice potrebbe finirci dentro senza volerlo mentre si fa una corsa in uno di questi bei giorni primaverili. E va bene così, ho bisogno di salvarmi da tutto questo adesso, perché quella che ho da raccontare io è tutta un'altra storia che non va bene né per questo né per nessun altro blog. Mi sono presa il mio tempo per fare le valigie, piena di confusione, di rimorsi, di rimpianti, di ricordi scacciando un vago senso di delusione, guardandomi attorno con l'aria di una che sta lasciando un posto in cui ha vissuto così tanto eppure con la triste sensazione di non averci lasciato quasi niente. Come una bellissima odissea di cui nessuno si ricorderà, eh sì. C'erano cose da capire, ed ora che almeno questa cosa qui l'ho capita so che non devo andarmene per sempre, ma devo tornare per bermi un cappuccino e fare una chiacchierata, non per sedermi a terra e restarci quattro giorni consecutivi, dai quali riemergere con le occhiaie, i capelli scompigliati, piena di graffi ma piena dentro come non ero da un anno e mezzo. Questa, appunto, è un'altra storia. Prendo il mio superpotere, e vado ad essere vulnerabile da un'altra parte, perché non sono in grado adesso di sopportare facce appese alla finestra. Mi bastano quelle due persone contate che farò entrare io, e che vedendomi ridotta così non saranno né preoccupate né spaventate. L. mi sorriderà piena di orgoglio e nell'incrociarsi i nostri sguardi produrranno scintille tali che non ci sarà bisogno di abbracci, finalmente il coronamento delle nostre battaglie, i nostri sbagli che diventano successi; M. invece mi metterà una mano sulla spalla, delicata e salda, e mi dirà qualcosa come "so com'è stato, ed è tutto bellissimo".
Sono pronta a chiudermi in quella stanza vuota, anche se fa paura quel superpotere che potrebbe esplodermi in mano. Ma sono pronta, soprattutto perché là fuori, sedute come i parenti fuori dalle sale operatorie, ci siete voi due, forti e fiduciose, splendide ed insostituibili. 

Ad L., che senza di lei non saprei di cosa scrivere perché la mia scrittura ha la sua forma, il suo passo, il suo odore, anche se non riuscirò mai a spiegare a qualcun altro quel mistero che siamo noi due. Ci sei da sempre, e so che ci sarai per sempre perché troveremo il modo qualunque cosa accada, come quella volta in cui chiunque altro si sarebbe messo in salvo sulla prima scialuppa che trovava, mentre noi siamo rimaste strette su una zattera anche se sembrava destinata ad affondare. E' stata dura, ma avevamo ragione. 

Ad M., la mia amica specchio, che non si prende mai il merito di nulla eppure mi aiuta sempre ad uscire dai grovigli in cui rimango incastrata. Ci sei da poco, ma so che ormai ci saremo per sempre l'una per l'altra, perché due come noi che si legano tanto e così in fretta non potranno mollarsi mai più. 

D'ora in poi, su questi lidi, si torna a parlare di libri.

mercoledì 6 marzo 2019

La famiglia Aubrey, Rebecca West - ed una divagazione sulla lentezza

Rebecca West è una delle - purtroppo tante - penne femminili che almeno in Italia era finita nel dimenticatoio, o quasi. Qualche sua opera in realtà era ancora reperibile, edita da case editrici minori, di quelle conosciute solamente dai lettori più scrupolosi; ma se vi dicessi che nel 1947 fu definita dal Time la scrittrice "indiscutibilmente numero uno al mondo", ciò basterebbe a farvi rendere conto di che grave peccato fosse lasciarla nell'ombra?



Rebecca West, di origini miste scozzesi ed irlandesi, nacque a Londra nel 1892. Ad oggi si potrebbe forse sostenere che l'autrice ha pagato lo scotto di essere una contemporanea di Virginia Woolf, ma la West fu una delle intellettuali più brillanti e prolifiche dell'epoca, che mise la sua scrittura al servizio del suo tempo. La cosa che più spesso potrebbe capitarvi di sentir dire, su di lei, è che era una fervente femminista, anche se Rebecca West la pensava così:


Io stessa non sono mai riuscita a capire che cosa significhi con precisione femminismo. So soltanto che mi definiscono femminista tutte le volte che esprimo sentimenti che mi differenziano da uno zerbino o da una prostituta.

Probabilmente l'etichetta di fervente femminista le è rimasta addosso da quando a vent'anni era una suffragetta e si scelse quel nome con cui ancora oggi è ricordata. Rebecca West è infatti uno pseudonimo, ed è esso stesso una precisa dichiarazione d'intenti. Il vero nome della scrittrice britannica era Cicely Isabel Fairfield, mentre quello con cui ha firmato qualsiasi cosa abbia scritto, Rebecca West, è un omaggio all'eroina (o forse anti-eroina) protagonista di Rosmersholm, opera teatrale del 1886 del celebre drammaturgo danese, Henrik Ibsen, passato alla storia forse soprattutto per i suoi magistrali ritratti femminili. Le donne del suo teatro, talvolta vincenti talvolta catastroficamente perdenti, erano comunque donne forti, dalle personalità complesse e profonde, sicuramente anticonvenzionali e spesso scandalose per l'epoca in cui si muovevano (basti pensare al più celebre dei suoi drammi, Casa di bambola, che racconta la storia di una donna che ad un certo punto della sua vita abbandona il marito e la casa coniugale, dando la priorità alla ricerca di sé - un fatto inconcepibile, per la società ottocentesca).

La West fu più una giornalista che una romanziera, firmò articoli per il Times, il New York Herald Tribune, il Sunday Telegraph ed altre importanti testate, occupandosi di critica letteraria e di attualità. Viene ricordata anche per i suoi diari di viaggio, come Black Lamb and Grey Falcon (1941), considerata dalla critica la sua opera più significativa: composta da più parti, l'autrice fa un ritratto completo ed esaustivo della storia e della cultura della Jugoslavia, da lei visitata per la prima volta nel 1934. Lo scrittore britannico Geoff Dyer ne ha recentemente parlato in un articolo sul Guardian, scrivendo che si tratta di "un capolavoro supremo che parla di due cose: la Jugoslavia e tutto il resto".

Ma il suo raggio d'azione non si ferma qui, visto che una voce forte e coraggiosa come la sua non poteva certo restare muta davanti ad un evento della portata della Seconda Guerra Mondiale. E' del 1955 A Train of Powder, un reportage sui Processi di Norimberga ai quali assistette personalmente e pubblicato originariamente sul New Yorker, a cui seguirono più tardi altri testi nei quali l'autrice studia il fenomeno della Seconda Guerra Mondiale nel suo insieme, accompagnandolo con le sue riflessioni e le sue conoscenze dirette della storia.

Davanti ad una produzione così vasta e variegata, spesso incentrata su temi caldi, complessi, ancora sanguinanti nel momento in cui lei ci metteva dentro le mani, la sua produzione narrativa sembra quasi una pausa, una sosta dalla realtà cruda e complicata, anche se ciò non deve cadere - erroneamente - sotto l'etichetta di pura finzione o di evasione letteraria: al contrario, Rebecca West attinge dalla realtà anche quando inventa, perché pare che la sua saga familiare incentrata sugli Aubrey sia di matrice autobiografica, fortemente ispirata alla propria famiglia povera e molto colta.

La famiglia Aubrey (il cui titolo originale, ben più poetico, è The Fountain Overflows) è il primo volume di una trilogia a cui Rebecca West lavorò per trent'anni, e l'unico che venne pubblicato mentre lei era ancora in vita. Il titolo originale dice già ciò che di utile si potrebbe dire sul contenuto: è un flusso, un flusso abbondante e denso, che non attraversa deciso il lettore come acqua, ma gli cade dentro piuttosto come farebbe il miele da un cucchiaino nella tazza di tè. In maniera fluida, sì, ma lenta e corposa. Si parla degli Aubrey infilandoli nella dicitura "saga familiare" perché abbiamo sempre bisogno di etichette, di definizioni che ci facciano capire subito, almeno in linea di massima, di che cosa si sta parlando e cosa ci possiamo o dobbiamo aspettare; del resto, La famiglia Aubrey parla effettivamente di una famiglia - quattro figli, due genitori, una domestica - tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, in un'Inghilterra diversa da quella di tutti gli altri scrittori dell'epoca. Un po' come dice Dyer, però, La famiglia Aubrey parla di questo "e di tutto il resto" ed è molto complicato pensare di descrivere quel tutto il resto a chi non si è mai confrontato con la prosa dell'autrice.

C'è un padre che viene dipinto come geniale, brillante, irresponsabile e sfuggente; una madre che era quasi stata una pianista famosa, che viene da una famiglia che ha la musica nel sangue, che lei ha trasmesso ai suoi figli - tutti tranne una. Una madre pianista ed insegnante di musica tra le mura domestiche, dall'aspetto trasandato ai limiti del presentabile perché corrosa dalla loro situazione economica ai limiti della povertà, una madre con le guance smunte e i vestiti rotti, ma con un modo tutto suo di essere premurosa e sempre presente, e che trova sempre una risposta intelligente anche alle domande più difficili. Una domestica gentile che più che altro è un rifugio, nella cucina piccola dove il riscaldamento è sempre acceso e dove nei momenti più pericolosi si può trovare un compito, una faccenda da sbrigare, che tenga occupata la mente e tranquillizzi il cuore. E poi ci sono loro: Mary e Rose, sempre insieme, in sintonia quasi fossero una persona sola, se non fosse per i guizzi di rabbia di Rose o le parentesi solitarie e silenziose tipiche di Mary. E' Rose la voce narrante della storia, è lei che ci racconta della loro dedizione allo studio del pianoforte, con l'unica certezza che un giorno sarebbero diventate musiciste ricche e famose, dando il futuro che merita al piccolo di casa, l'effervescente Richard Quin, e sistemando le esistenze di tutti gli altri membri familiari; la stessa cosa pensa la sorella maggiore Cordelia, tenacemente aggrappata al suo violino nonostante abbiano tentato di farle capire che non possiede alcun talento. Cordelia, che forse non sa suonare ma è l'unica ad essere bellissima, che è profondamente sola: lontana dalla madre, con cui non può avere quel legame fatto di suoni perfetti; lontana dal padre che non è vicino a nessuno; lontana da Mary e da Rose, esclusa dal loro legame di sorellanza e di amicizia sia per età che per carattere; lontana da Richard Quin, che ritrova se stesso nei giochi pieni d'immaginazione di Mary e di Rose; ed infine, anche lontana dalla cugina Rosamund, ma soltanto fino al momento in cui almeno lei riuscirà ad arrivarle finalmente vicino abbastanza.

La famiglia Aubrey descrive un'Inghilterra diversa da quella che sono abituata a vedere nei romanzi della letteratura inglese; siamo lontanissimi dalle brughiere, dalle case grandi che si riempiono di personale e di invitati, dai salotti in cui si allietano le serate con i balli, la musica o la semplice conversazione; non siamo neanche immersi fino al collo nella città, tanto da sentire il rumore degli zoccoli dei cavalli, la polvere sulla pelle e il caos del fermento di Londra alla maniera di Dickens. Gli Aubrey non frequentano nessuno, tanto per dirne una, sono profondamente isolati ma non esprimono affatto un senso di solitudine o emarginazione: sembrano al contrario bastare a se stessi, tanto che questo dettaglio non viene sfiorato che da qualche preoccupazione sui ragazzi, che forse dovrebbero essere più inseriti in società (soprattutto le ragazze, ovviamente, come troveranno un marito?) o da quei commenti razionali delle ragazze sul fatto che a scuola nessuno le avvicina. A parte Cordelia, certo, lei è diversa, non appartiene veramente a quella famiglia, e riesce sempre a piacere molto agli insegnanti e persino talvolta a farsi qualche amica. 
E così come Rebecca West ci racconta dei luoghi diversi - fisicamente marginali, fatti di singole strade abitate, di abitazioni con giardino i cui paletti limitano l'esistenza di chi vi abita, di piccole botteghe dentro cui contare gli spiccioli, e talvolta un treno, una Chiesa a Natale, persino un'automobile una volta - la sua penna ci racconta anche personaggi estremamente diversi, dei veri e propri outsider, che vivono e pensano e crescono con regole tutte loro, che col tempo si fanno proprie anche del lettore. Infatti è come se anch'io avessi partecipato alla tradizione settimanale del lavaggio dei capelli, seduta poi con loro davanti al camino acceso per farli asciugare, ed intanto arrostire le castagne da mettere in bocca ancora bollenti ed insieme bere latte fresco. Sembra anche a me di aver giocato con gli animali immaginari nei lunghi pomeriggi - i cavalli nelle stalle vuote, i cani addormentati in salotto e poi quella lepre simpatica e saggia. Ancor di più, ho sentito di essere presente in ogni singolo momento ad alta tensione, quelli in cui ora un personaggio ora l'altro non ne può più degli ordini familiari prestabiliti e deve, a modo suo, far qualcosa per distruggerli. Il personaggio di Cordelia, in particolare, mi ha attratta e incuriosita fin dall'inizio, proprio per quel suo essere qualcosa di diverso all'interno di un nucleo così compatto: fin dai primi capitoli mi son fatta l'idea che se fosse stata lei, la voce narrante, avrei avuto tra le mani una storia molto diversa, gli stessi fatti ma condensati in un gusto di tutt'altro tipo - malinconia, frustrazione, solitudine, rabbia. Cordelia ed i suoi tratti egocentrici, Cordelia grandi occhi e boccoli ramati, Cordelia troppo grande per essere bambina e troppo bambina per essere grande, che pure con i grandi condivide obiettivi pragmatici piuttosto che sogni appassionati.

 La storia mi ha affascinata sin dalla prima riga, ed andando avanti mi ha coinvolta sempre di più fino ad un finale che, dopo un vorticoso climax ascendente, mi ha mollata con un violento schiaffo emotivo in piena faccia; ma è la scrittura della West, soprattutto, ad avermi avvolta tutta, come un morbidissimo plaid dal quale, in un freddo pomeriggio invernale, non vorresti più uscire. Il commento dei lettori che ho visto più spesso accompagnare questo romanzo è "lento", ed è un aggettivo che negli ultimi tempi sento usare sempre più spesso. Lenti molti libri fotografati su Instagram, quando parlo con gli amici e chiedo allora, com'è questa serie tv? "Eh, è lenta..." e non capisco mai cos'è che effettivamente le persone vogliono dire, quando commentano qualcosa esaurendo un opinione nell'aggettivo lento. Ogni volta ho l'impressione che in quei momenti il concetto di lentezza riassuma in sé diverse sfumature, ma tutte con un'accezione tendenzialmente negativa, come un modo più gentile o più nobile per dire in realtà noioso. Mi sto facendo l'idea che, anche tra i lettori - persone che proprio in virtù di questa passione in teoria ricercano bolle di tempo in cui la vita non bussa incessantemente alla porta, e ci si può lasciar galleggiare senza fretta sulla carta - si stia diffondendo, come edera urticante, il virus dell'impazienza. Nessuna epoca è andata di fretta come la nostra, e non in un senso positivo: è come se l'obiettivo generale fosse vedere vedere fare vedere il maggior numero di cose possibili nel minor lasso di tempo possibile. E qualsiasi cosa imponga invece un tempo diverso, un ritmo che non può essere riassunto né tradito, viene percepito come troppo lento. Forse però non sono certe cose ad essere lente, ma noi che andiamo sempre troppo di fretta.

La scrittura di Rebecca West è stata, a ragione, paragonata da Alessandro Baricco allo scorrere di un fiume. Un fluire continuo, sostenuto, al quale all'inizio bisogna adeguarsi, ma una volta che ci si entra ci si lascia trasportare magnificamente. Dopo averlo letto ho anche capito come mai lo scrittore torinese avesse affermato che se avesse dovuto scegliere un libro da portarsi su un'isola deserta, quel libro sarebbe stato La famiglia Aubrey: io non rileggo mai i libri già letti, eppure ho la sensazione che se ricominciassi oggi questo romanzo, che pure ho affrontato solo il mese scorso, mi troverei davanti una storia completamente nuova, quasi mai sentita prima. C'è dentro una forza, una corposità, una stratificazione di elementi e così tanta violenta bellezza che fanno de La famiglia Aubrey un libro che non potrà mai esaurirsi, che continuerà a rinnovarsi attingendo alla sua stessa forza. Ci sono dei momenti - ne ricordo nello specifico un paio - in cui la scrittura smette di esser fatta di parole e si fa pittura, dipingendo ritratti brillanti e immagini nitide, dai quali ci si riprende poi come appena svegliati da un sogno ad occhi aperti.

Insomma, io non posso concludere dicendo altro se non che La famiglia Aubrey è un capolavoro supremo che parla di due cose: di una famiglia inglese, e di tutto il resto.

domenica 3 marzo 2019

Wildflowers

Like wildflowers
you must allow yourself
to grow
E' una domenica di sole, fuori fa quasi caldo, tra le mura di casa invece è ancora inverno pieno. Dopo pranzo, dopo il caffè, avrei voluto prendere la monografia su Frida Kahlo che sto leggendo e sedermi sul balcone, quello più esposto alla luce e di conseguenza il più caldo di tutti. Penso che sarei stata bene, che mi sarei goduta il momento e che avrei letto un bel po'; ma non ho potuto, perché oggi non si scappa, oggi qualcosa di sensato lo devo scrivere. E' la terza o forse anche la quarta volta che ricomincio da zero. Arrivo a metà pagina e cancello tutto, insoddisfatta e frustrata come ho iniziato a sentirmi da ieri sera. Sono andata alla presentazione di un libro, ieri. Un libro che non conoscevo, scritto da un autore che non conoscevo, e ci sono andata quasi per inerzia. La verità è che ormai ho imparato a porre una distanza di sicurezza tra me e questo genere di cose, perché quelle rare volte in cui partecipo ad un incontro con autori o autrici, o in cui si parla di temi caldi come letteratura e scrittura, finisco sempre col sentirmi come se stessi ricevendo in una volta soltanto troppi stimoli tutti insieme, e mi si riempie il corpo di un disgustoso senso di amarezza perché sento che quelli sono i luoghi che dovrei frequentare sempre, che dovrei esserci immersa dentro e che avrei dovuto in qualche modo guadagnarmi il diritto di dialogare con quella categoria di persone, perché soltanto chi già fa quel che sentiamo di voler fare anche noi può guidarci attraverso i tortuosi sentieri del divenire. Ma in realtà sono soltanto una tra tanti, ieri ero una ragazza con la coda spettinata che - come sempre in ritardo - si era buttata addosso i jeans ed il maglione di fiducia, con giusto un tocco di mascara sulle ciglia e una passata di rossetto scuro a darle un tono, seduta in seconda fila su una seggiola di plastica e due occhi come due bracieri ardenti fissati con insistenza sull'autore - un uomo alto, dall'aspetto ordinato e con uno sguardo ed un sorriso davvero gentili - come se volessi carpire anche ciò che non diceva, i sottintesi ed i sotto testi della parabola corrosiva che era stata portare alla luce quel romanzo, esposto come un dipinto su piccola tela sul tavolino di fronte a lui, accanto a due bottigliette di acqua Clivia che non c'è stato bisogno di aprire. E' arrivato il consueto momento, per i presenti che ne avevano, di porre delle domande. Io non ne avevo, non ho mai delle domande, ho dei punti di vista, ho un miliardo di cose che vorrei dire per portare avanti un dialogo di cui ho disperato bisogno, ma come farlo davanti ad un gruppo di sconosciuti? Come avere la faccia tosta di parlare delle ferite inferte dalla scrittura ad uno che scrittore lo è veramente, col suo nome che figura nel catalogo Einaudi? Così, come tutte le altre volte, il mio miliardo e mezzo di cose da dire è rimasto nella testa, mi sono alzata e sono rimasta ad aspettare che una signora esponesse i suoi entusiasmi e si facesse firmare la copia del libro, e quando l'uomo alto dagli occhi gentili ha spostato la sua attenzione su di me gli ho detto: volevo soltanto ringraziarla, è stato bellissimo ascoltarla con la voce incerta, le gambe tremanti, una stretta di mano fugace - perché parlare con gli estranei non è mai stato il mio forte, anzi, faccio una fatica bestiale, tanto più quando è stato bellissimo ascoltarla era una stupidaggine qualunque, un contentino per me stessa, per sapere di non essermene andata senza aver lasciato proprio niente di niente. Lui mi ha risposto grazie con quel sorriso gentile, con i modi di chi dedica piena attenzione a chi ha di fronte, anche se io ero troppo agitata per riceverla o anche solo per incrociare davvero il suo sguardo adesso che non c'era più una fila di sedie e di persone a porre una distanza di sicurezza. Quasi non ricordo la nostra stretta di mano, la mia amica ansia mi fa temere sempre un sacco di cose, come rubare troppo tempo, essere invadente, inopportuna, di troppo; c'era qualcun altro dietro di me, e pensavo che dovevo lasciar spazio al prossimo, così non appena ho pronunciato quella frasetta sciocca che mi ero preparata sono scappata via. Fuori era buio, faceva freddo, e non era stato bellissimo ascoltarlo: era stato interessante, stimolante ma anche incredibilmente difficile, per me. Non appena mi sono incamminata al fianco dell'amica con cui ero entrata nella libreria ho capito che, nonostante avessi cercato di impedirlo, mentre l'autore parlava - del suo romanzo, della sua vita, della scrittura - dentro mi si erano smosse delle cose.

Siamo andate a fare un aperitivo, sorseggiando un drink parlavamo un po' di quanto avevamo ascoltato un po' dei soliti argomenti di tutti i giorni, ed intanto cresceva in me l'impazienza. All'improvviso non mi importava di trovarmi lì, di mangiare o di bere, di cenare fuori come il mio compagno mi aveva proposto, di chiacchierare del più e del mondo. Avevo cose ben più grandi nella testa, circondate dalla paura di perderle perché la memoria avrebbe potuto tradirmi, o perché quella era come una febbre che presto mi sarebbe passata. Impazienza, trascinata da un pub ad un ristorante, mischiata ad un lacerante senso di frustrazione, e poi prendere freddo sotto la luna - intorno le macchine, i gruppi di ragazzi e di ragazze che passano a voce alta - mentre si affidano ad un messaggio vocale su whatsapp tutti quei pensieri disordinati, destinandoli all'unica persona che conosco a cui, anche di sabato sera, potrebbero interessare discorsi sbronzi sulla depressione, sul male che fa scrivere e sul perché lo si faccia lo stesso.

And that's where I stand
Silent in the trees
Why won't you speak
Where I happen to be?
Silent in the trees
Standing cowardly
Tra le tante questioni su cui continuerò a riflettere nei prossimi giorni, una su tutte mi ha punto sul vivo: l'autore - di cui rivelerò il nome e di cui vi parlerò quando avrò letto il libro di cui si è parlato ieri - ad un certo punto ha detto che quando si scrive bisogna avere il coraggio di essere onesti e sinceri fino in fondo, che bisogna cercare di far venire a galla la verità, e che se lo scrittore si scontra invece col proprio pudore (nella maggior parte dei casi, per paura di fare i conti con se stesso) il lettore finirà inevitabilmente con l'accorgersene. 
Da qualche tempo ho ripreso in mano una cosa che avevo scritto qualche anno fa, l'unica che io sia mai riuscita a terminare. Ho cominciato a farne una seconda stesura e, fidatevi, quella sì che è una storia che mi porta a fare i conti con me stessa, che mi mette faccia a faccia con questioni che avevo rinchiuso in uno sgabuzzino e che non avevo più avuto il coraggio di tirar fuori. Ma, vedete, io mi vergogno persino a scrivere che sto scrivendo, mi vergogno a dirlo ad alta voce, faccio fatica a ritagliarmi il mio tempo per farlo perché mi alita sul collo la sensazione di star sprecando del tempo, che anche fare le faccende domestiche sarebbe più utile. Ho paura di sembrare soltanto una delle tante che, sapendo mettere insieme qualche frase leggibile, pensa di essere una grande scrittrice. Più di tutto, ho paura che nonostante le idee, nonostante ventisette anni di guerra e di armistizi con la parola scritta, ho paura che persino questo finirà col rivelarsi del tutto inutile. Lo scrittore, ieri, ha detto anche che scrivere è un'ossessione e che se gli proponessero una pillola che fa passare l'ossessione di scrivere lui la prenderebbe subito, sicuro che starebbe molto meglio. Io penso la stessa cosa. Ricorre spessissimo nei miei diari, ma persino su queste pagine, la metafora dello scrivere come un infierire su ferite già aperte. Ma questi discorsi sono credibili soltanto in bocca a chi ha già fatto del proprio dolore e delle proprie lotte un mestiere. E' credibile Lady Gaga che racconta di come scrivere una canzone sia un'esperienza invasiva, è credibile Virginia Woolf con le sue crisi periodiche, è credibile lo scrittore che ieri raccontava di come la scrittura lo prendesse violentemente a schiaffi davanti a quegli schiaffi elegantemente rilegati in un libro vero. Se lo dico io, sono solo una che si dà delle arie da artistoide, o una che deve sempre esagerare i toni. Mi mordo la lingua, mi mordo le labbra, il sangue mi ribolle nelle vene insieme al mio milione e mezzo di cose da dire.

Quel coraggio necessario a scrivere qualcosa di credibile un tempo ce l'avevo, ed era per quello che scrivere era così doloroso. Quando avevo vent'anni stavo molto male, e una notte scrissi un racconto che parlava di suicidio. Ho sempre pensato che fosse stata un'esperienza catartica, e che attraverso il suicidio di Cassie - una ragazza dai capelli lunghi e piena di anelli alle dita, che non riusciva a tenersi nessun lavoro ed aveva soltanto un'amica, che aveva una voce roca e conosceva molte poesie a memoria - avessi esorcizzato i demoni che mi seguivano in quel periodo. Ricordo che mi sentii malissimo, e poi semplicemente vuota. Oltre al coraggio avevo anche una faccia tosta che adesso mi sogno, perché presi quel racconto e lo feci leggere alla docente universitaria di letteratura moderna e contemporanea il cui corso mi aveva appassionata tantissimo, e lei mi disse che era molto buono, grezzo ma interessante. Quando lo lesse la mia migliore amica non disse niente, anche se le si inumidirono gli occhi. Il mio fidanzato disse che era preoccupato per me. 

Non ero io a decidere quando e cosa scrivere. Capitava di sentirmi turbata, e questo turbamento diventava malessere, ed il malessere cresceva fino a sentirmi oppressa: soltanto allora provavo a scrivere, e mi rendo conto che era come tuffarsi in un pozzo, scendendo più in fondo frase dopo frase e che il fondo non sempre riuscivo a toccarlo. Se non ci riuscivo, quel che scrivevo mi sembrava insulso, stupido e lo cancellavo o lo lasciavo lì senza prestargli mai più attenzione. Questo tuffo però aveva un prezzo, che ad un certo punto non ho più avuto la forza di pagare. Non era facile - anzi, era impossibile - essere una figlia, una sorella, una fidanzata, un'amica e al contempo andare in cerca delle ombre necessarie a scrivere. E siccome non sono mai stata capace di credere fino in fondo che la mia scrittura fosse qualcosa di importante, tra le due cose ho sacrificato quest'ultima. Durante il periodo in cui sono stata in psicoterapia, la mia psicoterapeuta mi diceva che avrei dovuto imparare ad entrare ed uscire dal pozzo - per continuare con questa banale metafora - quando e come decidevo io, senza portarmi le conseguenze nella mia vita. Sicuramente ero troppo giovane per acquisire questa capacità, che credo si basi su un equilibrio personale che ho iniziato ad intravedere solo negli ultimi anni. Non sono pronta nemmeno adesso, lo dimostra la nuova ferita che si è aperta ieri sera, lo dimostra questo post, lo dimostrano quel paio di lacrime che mi sono scese scrivendolo. L'unica cosa che mi preme sapere, e che al tempo stesso mi spaventa, è se sarò ancora capace di raggiungere veramente il fondo e se laggiù ci saranno ancora quelle fiamme, quelle ombre, quegli organi esposti che ora più che mai dovrei portarmi via. 

Carver una volta disse: e come faccio a spiegare a mia moglie che anche quando sto guardando fuori dalla finestra, in realtà sto lavorando?

venerdì 8 febbraio 2019

Manga | La mia prima volta - My Lesbian Experience with Loneliness, Kabi Nagata

Parlare di un'opera che ci è piaciuta veramente, ma veramente tanto può essere semplice come bere un bicchiere d'acqua, o una questione incredibilmente problematica; nel primo caso, l'entusiasmo e la voglia di esprimere tale entusiasmo ci guidano, e noi ci lasciamo trainare, liberi e felici, come bambini che vedono una spiaggia per la prima volta. Nel secondo caso, radunare le idee - no, aspetta, siamo onesti: trovare il coraggio di parlare dell'opera in questione richiede un lavorio interiore che dura giorni e giorni, durante i quali si pensa a quante cose avremmo da dire, se trovassimo il coraggio, perdendoci in un labirinto di paranoie capace di farci cambiare idea ogni due per tre: dai sì, ci provo. No vabbè ma alla fine che importa, basta che lo so io. Però cavolo varrebbe proprio la pena scriverne... eh, ma che fai, scrivi pubblicamente proprio tutta la verità? No, dai, meglio lasciar perdere; se no si potrebbe tentare parlandone in maniera oggettiva, senza entrare nel personale... sì, ma così poi non ha senso, non avrò modo di spiegare nel dettaglio perché ho amato così tanto questa storia. Oh senti, basta, lo faccio. Ecco, tipo così, per giorni che diventano settimane. Anche se, onestamente, non credo di essermi mai arrovellata tanto il cervello come in questo caso.

La mia prima volta - My Lesbian Experience with Loneliness di Kabi Nagata è un volume unico, edito in Italia da J-pop (in un'edizione bicromatica davvero bella), che mi ha... no, fermi, non ce l'ho un aggettivo. Questo fumetto mi incuriosiva tantissimo da ormai un po' di anni, quando lo vedevo girare sul web nell'edizione inglese; immaginate un po' la mia gioia - condivisa da moltissimi altri, per fortuna - quando l'ho visto arrivare nelle nostre fumetterie. Nonostante questo, non sapevo di cosa parlasse, perché una cosa che amo è addentrarmi in un'opera sapendone poco o nulla, per godermi tutto il piacere della scoperta e della sorpresa. E, amici, che sorpresa stavolta! La storia non è affatto incentrata sul sesso o sull'orientamento sessuale della protagonista come potrebbe suggerire il titolo: il sesso c'entra perché la sessualità, che si faccia sesso o meno, fa parte di ogni singolo essere umano e consapevolmente o meno ne siamo tutti condizionati nella nostra vita quotidiana. E siccome questo è un fumetto che parla molto di disturbi psicologici, della fatica di trovare un proprio equilibrio, di voler mollare tutto ma non riuscire allo stesso tempo a smettere di combattere per capire chi si è veramente e che cosa si vuole per la propria esistenza... ecco, in tutto questo anche la sessualità è una componente importante. 

Questa è una storia autobiografica, la protagonista perciò è la stessa mangaka, Kabi Nagata, che con un coraggio che non smetterò mai di invidiare, con una sincerità disarmante racconta i suoi anni più oscuri e desolati, che vanno dalla fine del liceo ai ventisette anni, momento in cui inizia finalmente a scrivere questo manga che sarà la chiave di svolta per prendere in mano la sua vita. Uscita dal liceo, infatti, dove era una studentessa come molte altre - brava a scuola, con le sue passioni e tante amiche - non è più riuscita a trovare un luogo cui appartenere, come lo definisce l'autrice. Si iscrive all'università come fanno tutti gli altri, ma dopo appena sei mesi lascia perdere perché si accorge che non è il posto che fa per lei; così, com'è giusto che sia, trova un lavoro part-time che inizialmente la soddisfa, illudendosi di essere parte di qualcosa avendo un luogo dove recarsi tutti i giorni ed interagendo con i colleghi, ma quando lei non riesce ad essere puntuale, efficiente e produttiva va incontro alle ovvie conseguenze, ossia richiami ed infine il licenziamento. I motivi per cui lei non riesce a tenersi il lavoro non sono stupidaggini: il disagio che lei prova e che non elabora a parole trova altre strade per venir fuori da quella testa compressa, assumendo la forma di gravi patologie psicologiche. Nello specifico, la protagonista cade nel vortice dei disturbi alimentari, passando dall'anoressia alle abbuffate compulsive, e mettendoci nel mezzo l'autolesionismo giusto per non farsi mancare niente. E quando, da sola e con immenso impegno, metterà una pezza su questi disastri esistenziali, il dolore non estirpato troverà ancora un altro modo per farsi vedere: la tricotillomania, che non è uno scioglilingua né una supercazzola né tanto meno un incantesimo; è un altro disturbo nervoso, di tipo ossessivo-compulsivo, che porta chi ne soffre a sentire il bisogno di strapparsi i capelli. Da questo, la protagonista/autrice ricaverà una bella chiazza calva sulla testa che sarà un ulteriore fonte di imbarazzo e vergogna.





Se ora state immaginando un dramma, pieno di lacrime e tragedie, non potreste sbagliarvi di più. L'autrice ha saputo raccontare la propria sofferenza con una calma, una sobrietà ed una razionalità che non hanno eguali: pane al pane, vino al vino. Non ha cercato di abbellirsi in alcun modo, né ha calcato la mano su quei tanti tratti in cui molti altri sarebbero scivolati nell'esasperazione dei toni o, ancor peggio, nell'autocommiserazione. Kabi Nagata non fa niente di tutto questo, non fa altro che raccontare il suo vissuto ed analizzarlo con una lucidità che fa capire quanta realtà ci sia dentro queste pagine, perché chi non ha visitato davvero certi luoghi non li può descrivere in questo modo. 

I disturbi psicologici non sono neanche il fulcro dell'opera, pensate un po'. Si parla di talmente tante cose qui dentro che è difficile spiegarvele tutte. La Nagata analizza il suo rapporto coi genitori, e lo spiega da una parte con la consapevolezza di una che l'ha compreso e risolto, ma al tempo stesso con tutte le difficoltà della se stessa che ancora ci stava incagliata dentro. Parla di solitudine, perché lei non aveva uno straccio di amico né tanto meno - figuriamoci - aveva mai avuto una relazione sentimentale. Parla del bisogno di ricevere un abbraccio vero da un altro essere umano. Parla di come il sesso possa talvolta costituire un taboo e di quanto sia importante rompere questo taboo ed imparare a riconoscersi anche come una persona sessuata e con dei bisogni sessuali fino a quel momento repressi. Parla, in poche parole, del lungo, lento, faticoso percorso che la protagonista/autrice ha dovuto compiere non per trovare la sua strada, ma soltanto per arrivare al passo ancora prima di questo: capire da che parte iniziare per cercarla, quella strada


 Questo manga, che ho divorato in un giorno solo ed al quale a distanza di settimane non ho ancora smesso di pensare, credo sia diventato il mio preferito di sempre. Mi piace il tratto semplice e schietto dell'autrice, e la bicromia bianco/varie sfumature di rosa funziona alla grande. Ho già espresso la mia totale ammirazione per il coraggio e la sincerità, proprio senza veli, con cui ha raccontato questi aspetti così difficili di se stessa, perché ci sono dentro anche elementi di cui non vi ho parlato e che sono certa molte altre persone si sarebbero vergognate di raccontare anche all'amico più fidato. Invece lei le ha prese e buttate in questo manga, forse perché in fondo aveva capito di non essere l'unica ad aver avuto certi pensieri, o provato certi sentimenti, ed ha pensato di restituire quel favore che altri le avevano già fatto: raccontarsi, nella speranza che quell'atto pruriginoso sarebbe potuto essere utile per coloro che avrebbero letto.

E lo è stato, cara Kabi Nagata, lo è stato eccome. Lei aveva appunto ventisette anni, quando ha radunato forze ed esperienze per mettere al mondo questo manga, l'età che ho io ora che ne scrivo. Siamo la generazione dei più o meno quasi all'incirca trentenni, e da questa generazione stanno fioccando opere che raccontano questo profondo disagio esistenziale, questa lotta estenuante per trovare un proprio posto, o qualcosa che ci faccia sentire definiti. Siamo liquidi, e vorremmo diventare solidi come le altre persone che sembrano funzionare, che si ammaccano ed ogni tanto si rompono, ma per lo meno hanno una forma e non si disperdono così disordinatamente, a macchia d'olio, sprecando ogni goccia di potenziale e facendo sempre più fatica a ricomporsi.

My Lesbian Experience with Loneliness è uno dei fiori all'occhiello di quella che per me ormai è una nuova corrente letteraria/fumettistica, lo è per la sua completezza, per la sua profondità, per la sua enorme capacità di comunicare col lettore. L'ho amata perché io ho vissuto o vivo tutt'ora davvero un'ottima percentuale delle cose narrate dalla Nagata (ed ecco svelata la mia nota dolente), ma l'ho amata anche perché ho capito subito che è un'opera che potrebbe essere più facilmente compresa anche da una persona che non ha mai vissuto niente di tutto questo, e che fatica a capire cosa possa esserci che non va in una persona che in fin dei conti sembra solo pigra e svogliata e depressa senza motivo. Ha fatto uno schemino strepitoso sul meccanismo mentale che porta un autolesionista a farsi del male fisico, più di così non si poteva fare (-> tono sarcastico rivolto ai chiusi di mente, agli scettici, ai superficiali, a quelli che davanti a certi problemi sanno dire solo "è matto/a" oppure "dai, non farlo più!" di cui ahimè è ancora pieno il mondo).

Vi ho detto tutto, eppure vi ho detto troppo poco. Questo manga merita moltissimo, a maggior ragione se vi sentite in stallo, se c'è una parte di voi che vive in gabbia dimenandosi nel tentativo di liberarsi, se state cercando di spiccare il volo ma non riuscite a fare altro che ridicoli saltelli. Mi sono rivista talmente tanto nella protagonista, che come una bambina sciocca ho iniziato ad aggrapparmi a lei pregandola tra me e me di offrirmi una soluzione. Ad ogni pagina che voltavo, speravo con tutta me stessa che la conclusione della sua vicenda personale mi offrisse una chiave per risolvere anche la mia. Com'è ovvio in una storia autobiografica, il finale non è altro che l'inizio di una nuova storia, eppure qualcosa di importante l'ho visto comunque. E se l'ho visto io, potrebbero trovarlo anche molti altri lettori e lettrici che si sentono come me. Ma questo manga non va letto soltanto se si sente la possibilità di immedesimarsi, anzi, lo dovrebbero leggere anche le persone solide per capire un po' come ci si sente tutti i santi giorni ad essere persone liquide. 

Leggere La mia prima volta - lo ammetto - mi ha fatta sentire meno sola.
E di conseguenza, meno in colpa per l'infinità di cose di cui invece mi incolpo.
Colmare vuoti e alleggerire di qualche peso, anche se soltanto per un po', è una delle cose più belle che la lettura possa fare.
Grazie, Kabi.



domenica 3 febbraio 2019

La donna in bianco, Wilkie Collins

Walter Hartright cammina indisturbato, perso nei suoi pensieri. Sono tanti in quella tiepida notte londinese, proprio per questo ha scelto un tragitto più lungo del necessario per tornare al suo appartamento dopo la consueta visita al villino di sua madre e sua sorella. Ha scelto una strada più lunga, un isolato tratto dall'aspetto campestre, proprio per poter camminare e macinare assieme ai passi quei pensieri sull'immediato futuro che gli frullano confusi nella testa. Quella sera, a casa della madre era presente anche un amico di vecchia data, il professor Pesca, un italiano piccolo e pittoresco che nella capitale inglese insegna la sua lingua madre. Pesca, coi suoi modi sopra le righe, non stava nella pelle dalla felicità: aveva finalmente trovato un modo per ricambiare un antico favore ricevuto dal buon Walter, e per il quale non aveva mai smesso di sentirsi fortemente in debito. La risoluzione di tale debito morale, da parte di Pesca, consisteva in un'allettante offerta di lavoro. Walter Hartright, infatti, come il proprio defunto padre, è un insegnante di disegno, e Pesca gli ha trovato un ottimo ingaggio presso Limmeridge House, dove dovrà curare una certa collezione del proprietario di casa, ed insegnare l'arte dell'acquerello a due giovani signorine.

La durata dell'impiego e la paga prevista sono talmente buone che la madre e la sorella di Walter, ascoltando il profluvio di parole di Pesca che mostra con orgoglio cosa è riuscito a fare, si lasciano andare ad applausi, esclamazioni di gioia e quasi alla commozione, con estrema soddisfazione del professore d'italiano; Walter, invece, pur rendendosi conto di quanto sia sciocco da parte sua, sente subito una punta di repulsione, come se il suo istinto gli dicesse di non accettare. Tuttavia, una proposta di lavoro come quella non capita tutti i giorni ad un giovane e modesto maestro di disegno e, visto anche l'entusiasmo dei suoi cari, non può proprio permettersi di rifiutare; così accetta, e deve già fare i preparativi per l'imminente partenza. Si concede però quella passeggiata solitaria, guidato dalla luce di una luna lontana, per interrogarsi sulle proprie sensazioni e cercare di scendere a patti con se stesso ed il proprio dovere.

Le sue meditazioni vengono improvvisamente interrotte da un tocco, breve e deciso, sulla sua spalla. Nonostante Walter non avesse udito dei passi dietro di sé, né avesse percepito in alcun altro modo la presenza di qualcun altro lungo la strada buia e deserta, voltandosi sorpreso e spaventato scopre una donna sola e visibilmente agitata. Se non fosse proprio che ella appare impaurita e spaesata, Walter si lascerebbe probabilmente prendere dall'inquietudine - per la stranezza della situazione, per esser stato colto così di sorpresa, per l'aspetto della sconosciuta che un po' scarmigliata ed interamente vestita di bianco sembra quasi un fantasma; ma, da gentiluomo quale egli è, torna subito in sé e cautamente cerca di capire che cosa sta succedendo. La donna, che non gli dirà mai il suo nome, non vuole altro che un'indicazione per raggiungere Londra e la carrozza più vicina, che la condurrà presso la casa di una cara amica che la attende. Leggermente rassicurato, Walter si offre di accompagnarla, e così compiono l'ultimo tratto di strada l'uno affianco all'altra, chiacchierando - quasi - del più e del meno. La donna talvolta fa domande strane, ad esempio ci tiene a sapere se Walter conosce molti baronetti, e diventa chiaro dall'apprensione con cui attende le risposte che sta fuggendo da qualcosa o da qualcuno. Tra quelle chiacchiere casuali, esce dalle labbra della donna anche Limmeridge House, proprio il luogo dove Walter dovrà recarsi il giorno dopo; la misteriosa donna in bianco ricorda giorni felici della sua infanzia presso quel luogo, e l'affetto che ancora oggi nutre per la defunta signora, che era la maestra della scuola e che l'aveva presa sotto la sua ala durante il breve periodo che aveva potuto trascorrervi. L'assurda coincidenza desta tutta la curiosità di Hartright, che tuttavia non riesce a scoprire nulla di più, ed aiutando la donna a salire sulla prima carrozza che trovano una volta arrivati in città è convinto che non la vedrà mai più.

Questo è soltanto l'inizio di una lunga ed avvincente storia, all'interno della quale si incontrano una moltitudine di personaggi tridimensionali ed indimenticabili. A partire dalle signorine cui Walter Hartright doveva impartire le sue lezioni di disegno, Laura Fairlie e Marian Halcombe, due giovani donne, sorelle solo per parte di madre, diversissime in tutto ma legate da un profondo amore.
Laura, delle due, è quella sinceramente interessata al disegno. Consapevole di non essere un grande artista, vuole tuttavia migliorare ed imparare quanto possibile per rendere più belli i suoi acquerelli, e trarre maggior soddisfazione da quel prediletto passatempo; Marian, invece, lo trova appunto un passatempo da signorine perbene e non ne trae alcun vero godimento. Accetta di partecipare soltanto per Laura, per farle compagnia e condividere con lei il proprio tempo ed i suoi interessi.
Delle due, Laura è quella cui la vita ha sicuramente donato di più: la bellezza, e la ricchezza. Lunghi capelli biondi, occhi celesti, una figura in ogni dettaglio femminile e delicata, Laura è la donna angelo cui gli ideali classici ci hanno abituato. E' infatti anche di gusti molto semplici, ha un cuore puro e generoso ed una bontà che traspare dal suo viso e s'intuisce da ogni gesto.
Marian, al contrario, non ha un aspetto attraente, ma compensa con un'acuta intelligenza ed una personalità a dir poco carismatica e - oh, mio Dio! - quanto ho appassionatamente adorato questo personaggio! Il suo temperamento indomito, la sua insofferenza per i limiti posti ad una donna nella sua epoca, contro cui però non si scaglia mai apertamente e con una foga forse inutile, sole piccole allusioni spesso ironiche; la sua grande capacità di osservazione e di comprendere sempre chi ha davanti o cosa la aspetta, il suo coraggio, la sua scaltrezza, e la sua capacità di combattere sino allo stremo delle forze per le persone che ama. Marian è, in una rosa di personaggi ugualmente ben caratterizzati, quella che per me brilla di più, verso la quale son sempre stata più attratta, forse per quella propensione che, da donna, mi fa amare le donne forti ed intelligenti come lei. Una menzione va però fatta anche al conte Fosco, un altro italiano che si distingue per la sua mole gigantesca, per la sua voce baritonale, per la sua infantile passione per i dolci, e per il suo atteggiamento materno verso i suoi adorati animaletti - topolini bianchi e canarini, per lo più. Ma il conte è molto di più di questo, e non c'è altro modo di descriverlo se non con le parole di Marian: si era inevitabilmente attratti da lui, ma allo stesso tempo - fin dal primo incontro - sente la certezza che non lo avrebbe mai voluto come nemico.

Sono molti altri i personaggi che il lettore incontra lungo le quasi ottocento pagine che compongono il romanzo. C'è un Sir Percival, un inutile ed irritante Mr Fairlie, un'infermiera, una governante, Madame Fosco e così via; spingersi a riferire troppo sul loro conto non è possibile, e non è possibile perché i personaggi sono in questo caso strettamente legati al ruolo che svolgono all'interno della storia. Una storia che ha a che fare con un matrimonio, con i soldi (e quando mai non c'entra il vile denaro!), con una serie di inganni e sotterfugi, con misteri appartenenti al passato il cui riverbero intacca il presente, con una vecchia matrona che abita ad Old Welmingham, e dove persino il prete s'inchina passando davanti casa sua...

La donna in bianco è veramente un bel romanzo. E' una macchina narrativa intricata e complessissima, sostenuta però da una scrittura scorrevole e di sconfinata raffinatezza. E' come un maestoso palazzo, in cui una volta entrati si continua a camminare, percorrendo lunghi corridoi, varcando porte che si aprono su scale che salgono e che scendono, in una continuità che sembra non avrà mai fine; eppure, in tutto quel salire e scendere e percorrere stanze e spazi a non finire, non si ha tempo per lamentarsi della tortuosità del percorso o per chiedersi se si arriverà mai da qualche parte: si è troppo costantemente impegnati ad ammirare i complementi d'arredo, la qualità dei tessuti e dei quadri, l'eleganza che distingue ogni singolo dettaglio di quel palazzo che è un rebus su vasta scala. Perciò non ci si annoia mai durante la lettura, anche perché nonostante man mano si scoprano molti pezzi, la figura non si completa del tutto fino all'ultimo ed una volta che ci si è dentro - chiusa alle spalle la porta del palazzo-rebus - non c'è modo né il più fioco barlume di desiderio di tornare indietro. Si desidera soltanto andare avanti e scoprire, sapere, conoscere.

Wilkie Collins è uno dei più prolifici scrittori dell'epoca vittoriana, nonostante arrivi a scoprire il proprio talento e la propria vocazione letteraria soltanto dopo un paio di false partenze professionali: dapprima prova a cimentarsi nel commercio del tè, scoprendo però di non aver alcun fiuto per gli affari; intraprende allora gli studi di Legge, diventa avvocato ma non praticherà mai il mestiere, e le sue conoscenze giuridiche verranno sfruttate solamente all'interno delle sue storie. Quando prende in mano la penna per la prima volta ha ventitré anni, e lo fa per scrivere una piccola biografia in memoria del padre da poco venuto a mancare. Collins scopre in questo modo ciò che veramente vuole fare della sua vita, ed il suo primo romanzo viene pubblicato tre anni dopo, nel 1850. Da quel momento in poi la sua produzione è inarrestabile, soprattutto dopo l'incontro, nel 1852, con Charles Dickens, che lo invita a scrivere sul suo settimanale: Households Words. Tra i due nasce un sodalizio professionale, ma anche di sincera amicizia, che non si interromperà mai. Ed è proprio da questo sodalizio che nasce La donna in bianco, il terzo romanzo di Collins: è lo stesso Dickens, infatti, che lo invita a pubblicare una sua storia a puntate sulla sua celebre rivista All the Year Round, e le vicende di Walter, Laura, Marian e gli altri tennero compagnia ai lettori dal 1859 al 1860 (compiango quei poveretti che dovevano di volta in volta attendere il numero successivo per andare avanti, mi sento male alla sola idea!). La donna in bianco fu la prima opera ad essere definita una sensation novel, un genere che ebbe poi larga fortuna durante l'epoca vittoriana. Oggi, Wilkie Collins è universalmente riconosciuto come uno dei padri del poliziesco, ma secondo me sarebbe molto riduttivo incasellare la sua opera all'interno di un preciso genere letterario. Dentro questo romanzo c'è tutto ciò che si può chiedere ad un buon libro, compresa la critica sociale: nella figura di Marian Halcombe c'è riassunto tutto ciò che Collins pensava della condizione femminile nella sua epoca.

Un'ultima cosa, che ho dimenticato di scrivere prima: il romanzo è raccontato di volta in volta dai personaggi che hanno vissuto o son stati direttamente coinvolti negli eventi. I fatti non sono arrivati in un'aula di tribunale, ma ognuno di loro racconta come se si trovasse a testimoniare davanti ad una giuria - che, di conseguenza, diventa il pubblico dei lettori. Ci si sente direttamente interpellati e coinvolti, come se proprio da noi dipendesse l'esito della storia o le possibili conseguenze. Grazie a questo escamotage narrativo, si ha come risultato anche la variazione di stile e di tono a seconda della voce narrante, che si esprime talvolta con un manoscritto appositamente redatto, attraverso un diario tenuto all'epoca dei fatti, con documenti o con colloqui narrati da altri. Insomma, c'è una varietà di strumenti e di voci veramente ricchissima e ben riuscita, tale da non poter annoiare mai, in nessuna delle tantissime righe che compongono La donna in bianco.

Se non l'avete ancora letto, vi consiglio caldamente di inserirlo tra le vostre letture di questo anno. Per me è stata una lettura avvincente, sinceramente goduta anche in mezzo alle estreme sofferenze di aver per la testa troppe domande a cui trovar risposta; è stato uno di quei libri a cui non riuscivo a smettere di pensare, di cui ad un certo punto ho dovuto macinare pagine a centinaia ignorando tutto il resto, e che quando l'ho finito mi ha fatto pensare "Oh, okay, ora posso tornare a vivermi la mia vita", con quella punta di sano dispiacere nel dover lasciar andare i personaggi cui ormai mi ero affezionata, soprattutto la mia adorata Marian.

Lo so, questo post è davvero molto lungo, perciò se siete arrivati sin qui vi meritate almeno un'ottima tazza di tè. Perdonatemi per non aver tenuto almeno un minimo i miei pensieri a freno, ma un romanzo così vasto - non solo di mole, ma soprattutto di contenuti - non può esser liquidato in fretta e furia e senza tanti complimenti. Fatemi sapere se lo avete letto (sarebbe una gioia perderci a discuterne animatamente nei commenti!) o se, nel caso siate riusciti ad arrivare alla fine di questo mio papiro, vi ho incuriosito abbastanza da prenderlo in mano.

Un abbraccio,

Julia


Anna Karénina, Lev Tolstòj

Anna Karénina , Lev Tolstòj, Russia 1875-77 – ma anche qualsiasi altro luogo e tempo dacché esistono l’uomo e la donna. Il commento al rom...