mercoledì 27 gennaio 2021

Lasciami andare, madre / Helga Schneider

Di una stessa storia esistono più versioni - almeno una per ogni persona presente, direttamente o indirettamente coinvolta. E se questo è vero per una qualunque inezia che può accadere tra le quattro mura delle nostre case, figuriamoci quanto può esserlo per un grande evento storico. Ecco perché da quando, ancora bambina, lessi il Diario di Anne Frank - uno dei primi veri libri della mia vita - non ho mai smesso di documentarmi, cercare, ascoltare, leggere le tante testimonianze che ci sono state lasciate in eredità da chi gli eventi della Seconda Guerra Mondiale li ha vissuti sulla propria pelle. E lungi dall'aver esaurito i testi a disposizione sull'argomento, sembra al contrario che più quegli anni oscuri iniziano a scivolare nel passato, più resti ancora da sapere.

Se per molto tempo, ad esempio, ho incontrato solo le voci del popolo ebraico, negli ultimi anni ho avuto la possibilità di incontrarne altre. E' accaduto con Io non mi chiamo Miriam di Majgull Axellson, autrice svedese che nel suo bellissimo romanzo racconta la lunga vita di una donna di origine zingara, che indossando una menzogna riesce a sopravvivere al campo di concentramento nel quale viene deportata. Salvezza che pagherà però continuando a vestire quella menzogna per tutti gli anni a venire, decidendo - con non poco coraggio e paura - di togliersela di dosso solo il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno, aprendo i propri cassetti della memoria con una nipote dolce, curiosa e premurosa. E mi è capitato proprio adesso, questo mese, quando tra le letture dedicate al Giorno della Memoria ho deciso di inserire un volume abbastanza noto, acquistato tempo fa incuriosita dalla questione complessa e controversa che sapevo avrei trovato al suo interno: Lasciami andare, madre di Helga Schneider.

Helga Schneider
Quando aveva solo quattro anni Helga ed il suo fratellino Peter furono abbandonati a Berlino dalla madre, la quale - già ausiliaria delle SS - divenne guardiana ad Auschwitz-Birkenau. Fino ad allora non era certo stata una madre facile, spesso assente per dedicarsi al proprio impegno politico, e quando presente era una madre che elargiva ben poco affetto, pretendendo in cambio rigorosa obbedienza. 

Dopo il suo abbandono quella di Helga fu un'infanzia tutt'altro che facile. Una breve parentesi di serenità, trascorsa in Polonia con i nonni paterni, poi la vita che torna a farsi dura e severa, quando suo padre si risposa e la nuova matrigna dimostra sin da subito di stravedere per il piccolo Peter, ma di nutrire una crudele avversione per Helga, che alla prima occasione viene spedita in un collegio, dove trascorrerà buona parte dell'infanzia e dell'adolescenza.

In Lasciami andare, madre la Schneider racconta l'ultimo incontro con quella madre sconosciuta, incontrata prima di allora soltanto una volta, dopo ben ventisette anni di separazione. In quella prima occasione, Helga aveva sentito il bisogno di cercarla perché - divenuta madre a sua volta - desiderava farle incontrare il nipotino di cinque anni, ma anche di compiere quel tentativo in qualità di figlia. In quella prima occasione però lei aveva completamente ignorato il nipote, aveva insistito affinché Helga indossasse l'uniforme da SS ancora orgogliosamente custodita nell'armadio, le aveva messo in mano un mucchietto d'oro splendente che Helga, inorridita intuendo subito da dove potesse provenire, lascia cadere a terra. Profondamente ferita e delusa da quella donna che non mostra il minimo segno né di affetto materno né di pentimento per il proprio passato, Helga decide di non vederla mai più, di provare - per quanto possibile - a dimenticarla.

Salvo poi, molto tempo dopo, ricevere una lettera che la invita ad un ultimo incontro. A scriverla è l'unica amica di sua madre, ex vicina di casa, che la informa di come sua madre viva ormai da tempo in una casa di riposo, da quando la demenza senile che l'aveva colpita aveva cominciato a renderle pericoloso l'abitare da sola. Sta peggiorando rapidamente, la informa, e forse lei avrebbe voluto vederla almeno un'ultima volta. Così, nonostante la paura e l'incertezza, Helga compie nuovamente il viaggio alla ricerca di una madre che in fondo non ha mai avuto, accompagnata dalla cugina Eva a darle sostegno.

Lasciami andare, madre racconta quest'ultimo, difficilissimo incontro, intervallato dai dolorosi ricordi d'infanzia di Helga. Sua madre è ormai una vecchietta piccola che fa capricci come una bambina, che veste solo di verde militare - il colore più bello, dice - e che però si infiamma se appena appena si accenna alla sua carriera. Ed Helga, nonostante il proposito di evitarlo, non riesce a trattenersi dal fare domande, talvolta brutalmente dirette, sui suoi giorni da guardiana a Birkenau, là dove mandavano solo le più coriacee.

Quel che Helga cerca è un barlume di rimorso, di coscienza del male che quella donna aveva attivamente contribuito a perpetrare. Ma questa luce è qualcosa che negli occhi di sua madre non è dato ritrovare: ho fatto un percorso di desensibilizzazione, è tutto ciò che ha da dire sulle azioni disumane che la figlia le ricorda. E come convivere allora con questo conflitto lacerante, quello di avere davanti agli occhi una persona che racchiude in sé un mostro, ed al contempo anche il proprio stesso sangue.

Al momento di andar via Helga è letteralmente distrutta dall'immagine di quell'anziana donna, ora all'apparenza così indifesa, che nei tanti sbalzi d'umore avuti durante il loro colloquio privato ha preteso di essere chiamata Mutti - mamma, una parola che Helga ha pronunciato così poco nella sua vita, e che le resta sullo stomaco - ha preteso baci ed ha accettato di essere portata a pranzo con gli altri ospiti della casa solo strappando la promessa che la figlia sarebbe tornata a trovarla già nel pomeriggio. Una bugia concessa per tranquillizzarla, confidando nel tradimento di quella memoria precaria che avrebbe cancellato la promessa di lì a poco. Eppure, quella stessa donna non aveva avuto pietà, né per madri disperate, né per bambini innocenti, né per vittime già prostrate che lei con le proprie mani aveva legato a tavoli di legno, consapevole che lo scopo era quello di condurre mostruosi esperimenti.

Eventi come quelli che si sono verificati durante la Shoa, che si verificano con ogni guerra o persecuzione, creano una varietà inimmaginabile di vittime. Helga Schneider non è stata in un campo di concentramento, non ha subìto discriminazione o persecuzione; ma è stata una bimba che ha visto città bombardate, che ha vissuto stipata con tanti altri nel buio di un bunker, che è stata abbandonata e molto sola e che, una volta grande abbastanza per capire, ha portato il peso di essere la figlia di una guardia delle SS

Lasciami andare, madre è un testo di sole 132 pagine, che nonostante il peso del contenuto ho divorato in due giorni, grazie ad una scrittura fluida che si percepisce tanto onesta da essere disarmata. Helga Schneider racconta quel che doveva raccontare, mettendo nelle nostre mani un conflitto irrisolto e forse irrisolvibile: dovrei amarla, ma non posso per quel che ha fatto e perché non c'è mai stata; dovrei odiarla per quel che ha fatto, ma non posso perché mi ha messa al mondo. E poi, anche se mai esplicitato, si percepisce talvolta un senso di colpa, forse proprio quello che sua madre non è mai stata capace di provare e che forse Helga sente di dover provare al posto suo.

Una storia forte, complicata, raccontata con coraggio e con dolore. Lasciami andare, madre è un libro necessario, che fa comprendere una volta di più quante storie ci sono da conoscere su quella fetta di Storia che, più scivola nel passato, più diventa importante ricordare.

Quante donne, invece, aveva sentito la Helga bambina, nella Berlino bruciante e impregnata del fetore dei cadaveri, imprecare contro il loro Fuhrer. Avevano lottato con le unghie e con i denti, le donne berlinesi, per difendere i loro figli, spesso partoriti nei rifugi o sotto le volte della metropolitana. (...) Nel dopoguerra, vedove e senza apparente futuro, avevano stretto i denti e intrecciato relazioni con gli uomini delle potenze vincitrici, preferendo l'epiteto di puttane al pensiero insopportabile di vedere le proprie creature morire di fame. (...) Consumata la catastrofe, poi, furono ancora le donne berlinesi - soprattutto di loro posso testimoniare - a sgomberare le strade dalle macerie e a consolare e rinfrancare i reduci che a poco a poco tornavano, esausti e svuotati, dalla guerra di Hitler.

Helga Schneider

- E voi, avete fatto qualcosa per onorare, nel vostro piccolo, questo 27 Gennaio?
Quali sono libri, film o documentari sull'argomento che, secondo voi, ognuno dovrebbe conoscere? 
 


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