domenica 23 febbraio 2020

Quanto mi è difficile scrivere. È da venerdì che sto molto male e che c'è lava dentro che preme per uscire fuori prima di corrodermi tutto, eppure faccio così fatica a trovare parole soddisfacenti che rifuggo ogni tentativo, accendo tv spazzatura e gioco sul telefono lasciando che il poco tempo libero mi scorra addosso inutilmente. Ho passato la notte quasi in bianco, perché i pensieri repressi hanno infine trovato un passaggio per arrivarmi in testa, erano perfette e avrebbero costituito un testo accettabile se solo avessi avuto la forza per alzare la testa dal cucino e renderle vere sopra un pezzo di carta. Ma come riuscirci alle 4.30 del mattino, quando infine qualche lacrima si accumula agli angoli degli occhi, e chi se ne importa, tanto a cosa servono, chi deve leggerle, che cosa dovrei mai farne. Pensavo tra le altre cose che ci provo qualche volta ad ascoltare delle canzoni nuove, nuove in assoluto o nuove per me, ma mi toccano in maniera a dir poco passeggera - mi dicono qualcosa solo di sfuggita, basta qualche ora per dimenticare cos'era che ci avevo trovato dentro. Ormai è raro che io abbia voglia di ascoltare musica, sono diventata una persona tanto grigia che nemmeno questo - da tempo - mi serve più; in quelle rare volte, però, mi servono sempre e solo quelle stesse vecchie canzoni, quelle degli ultimi anni del liceo e di tutti i miei vent'anni, che dentro hanno i lividi neri delle ossa rotte, i momenti più alti e quelli più bassi. Ieri ho trascorso circa tre ore con quello che potrei cominciare a definire una specie di amico. Uno che non solo ha un talento straordinario, ma quel talento l'ha dominato e imparato a padroneggiare, l'ha coltivato giorno dopo giorno fin da quando era un ragazzino e ne ha fatto un lavoro vero che gli permette di vivere facendo ciò che ama e sa fare meglio, di vedere tanta parte di mondo pur spiccicano a malapena qualche parola di inglese, di avere gli orari che preferisce, di mangiare quando gli pare, di dire sì solo a ciò che trova interessante e stimolante, di poter potenzialmente prendere ogni giorno una direzione nuova e di guardarsi intorno tra quattro mura che sono il suo posto e dove la libertà di esprimersi è totale. Non ci siamo visti per degli anni e poi tre lunghe volte in due mesi. Ieri lo guardavo lavorare, lo sentivo parlare e sono andata via piena di cattivi sentimenti - gli stessi che già mi stavano marcendo dentro, peggiorati da un inconscio confronto. D'istinto ho sempre sentito qualche somiglianza tra me e lui, ma per la prima volta mi ha colpita forte la netta differenza: lui sereno, in pace con se stesso e con gli altri, che può permettersi il lusso della trasparenza di chi non ha da coltivare rimpianti e frustrazioni che ogni giorno ti mangiano vivo. Se si toccano certi argomenti, io parlo col cinismo di una persona arrabbiata ed infelice, incastrata nelle conseguenze di cose andate male. Questo oggi ha la forma di una divisa bianca nella quale mi sento scomoda ed inadeguata, devo raccontarmi un sacco di balle per alzarmi ogni giorno ed adempiere a nuovi doveri che mi sono andata a cercare. Man mano che passavano i mesi continuava ad ingigantirsi l'insensatezza del fatto che l'impegno che non sono riuscita a mettere in percorsi a cui tenevo e che mi rispecchiavano di più, devo ora metterlo per forza in un percorso che con me non c'entra nulla e di cui soprattutto m'importa meno di niente. E più sono costretta ad immagazzinare nozioni, gesti, protocolli, sfidare tutti i miei limiti e le mie paure per un obiettivo che certo non ne vale la pena, più mi si agita dentro la bestia della scrittura, come fosse l'arma per sfuggire a tutto questo, come se nonostante io cerchi di adeguarmi ed adattarmi a lavori e destini qualunque lei non voglia accettarlo e faccia tutto questo casino prima che sia troppo tardi. Proprio a causa dei nuovi impegni cammino per il paese molto più di quanto avessi fatto negli ultimi anni, incontro persone che non vedevo da tempo, si scambiano quelle quattro battute di rito, mi chiedono cosa ne ho fatto di me. Le prime volte rispondevo tutta entusiasta raccontando gli estremi del corso di formazione, le prospettive che dopo tanta immobilità si delineano, provando per la prima volta l'ebbrezza di avere una risposta chiara, precisa e sensata da dare all'interlocutore che chiede: e adesso cosa fai di bello? Ma persino stavolta son stata tradita, nelle ultime settimane ho accumulato una tale sfilza di aspettative deluse formulate in tutte le varianti del caso che mi ci vorrà un po' per metterle a posto, accatastate in un angolo della stanza assieme a quelle già accumulate tra un cambio di corso universitario e l'altro, rinunce agli studi ed anni persi. Ah, non studi più? Che peccato... E come mai non hai continuato? Cosa studiavi? Peccato però, eri così brava... Incasso, con le spalle sempre un po' più curve e sorrisi cordiali, fino alla goccia che fa traboccare il vaso: mia madre che incontra la mia prof di lettere del liceo, una delle figure per me più importanti, e me lo racconta tornando a casa in macchina, alla fine di una settimana pesante. "Ha detto che peccato che Julia non sta scrivendo". Mi trema la voce mentre rispondo esasperata che non ne posso più di queste frasi, di questi commenti. Era venerdì, ed ho cominciato a stare molto male. Non ho forze per sfogarmi, sono talmente stanca, frustrata, delusa, arrabbiata con me stessa che non so come cominciare o cosa dire. Busso timidamente alla porta delle due persone più vicine e più fidate, ma non mi faccio probabilmente capire, ho bisogno di essere accolta e spronata al dialogo, ho la conferma di essere sempre più chiusa, non ce la faccio a spaccarmi in due ed espormi. Pur sapendo di essere nel torto, mi ritraggo ed alimento il mio silenzio. Lo sfogo può avere solo due forme: quella scritta o di un bel pianto. Non ho successo in nessuna delle due, passeggio ascoltando quelle vecchie canzoni piene di ossa rotte, ci trovo ancora tutto dentro, ma mi manca quell'energia che dal profondo nero a vent'anni mi faceva tirar fuori cose importanti. Ce n'erano molte di più di notti bianche, certi periodi fumavo una sigaretta alla finestra della camera, in attesa che dalle ceneri arrivassero le parole. In giornate come queste, infatti, quando ne ho il coraggio vado a rileggermi ed è come se solo in cose scritte cent'anni fa esistessi davvero. E mi sento più piccola, più vuota e più grigia, perché oggi la cenere resta soltanto cenere. La settimana scorsa ho fatto una visita medica a lungo rimandata, appena constatato ciò che doveva constatare la dottoressa ha detto: mi sa che tu sopporti un po' troppo bene il dolore. Raccontando com'era andata la visita ho riferito a qualcuno anche questa frase, dicendo che mi aveva rincuorata perché a volte mi sento o temo di essere vista come una smidollata che appena qualcosa non va non riesce più a fare niente, invece forse non è così. Ma quella frase ha continuato a rimbalzarmi nella testa, andando oltre i confini di ciò che la dottoressa poteva sapere o vedere. Forse, ho imparato a sopportare un po' troppo bene il dolore, e non do peso al fatto che ogni giorno ce ne sia. 

Hey, tu anima indifesa
Conti tutte le volte in cui ti sei arresa
Stesa al filo delle altre opinioni
Ti agiti nel vento
Di chi non ha emozioni

Levante, Tiki Bom Bom

Anna Karénina, Lev Tolstòj

Anna Karénina , Lev Tolstòj, Russia 1875-77 – ma anche qualsiasi altro luogo e tempo dacché esistono l’uomo e la donna. Il commento al rom...