martedì 29 novembre 2016

Il postino di Neruda, Antonio Skarmeta




Perché gli uomini non hanno nulla a che vedere con la semplicità o la complessità delle cose. Secondo la tua teoria, una cosa piccola che vola non dovrebbe avere un nome lungo come farfalla. Pensa che elefante ha lo stesso numero di lettere di farfalla, ed è molto più grande e non vola.


Siamo in Cile, nel 1969. Mario Jimenez ha diciassette anni, è nato e cresciuto nella caletta di Isla Negra, i cui abitanti – compreso suo padre – sono tutti pescatori. La pesca sarebbe il naturale destino anche di Mario, che tuttavia ha ben poca voglia di lavorare ed è tanto incline ai raffreddori che spesso si esenta dall’andare in mare ad aiutare suo padre, il quale, più di una volta, gli intima di trovarsi un altro lavoro. Le giornate di Mario trascorrono tra il cinematografo, dove si infatua di un’attrice dopo l’altra, ed i pigri vagabondaggi in sella alla sua bicicletta, l’unico vero bene materiale che possiede. In una di queste giornate come tante, gli capita di leggere “cercasi postino” davanti all’ufficio postale e senza tanti indugi il giovane entra e si propone per il ruolo. La prima cosa che gli viene detta è che per fare quel lavoro ci vuole una bicicletta – ce l’ho!, risponde Mario entusiasta – e poi che la paga è una miseria – va bene lo stesso, risponde Mario. 

La paga è una miseria perché gli abitanti di Isla Negra son tutti analfabeti, a ricevere posta è uno soltanto: il poeta Pablo Neruda. Mario è emozionato all’idea d’incontrarlo, compra subito una copia delle sue Odi elementari sognando di ricevere dal poeta una dedica affettuosa, intima, tanto importante da rendere la sua copia unica e speciale; ma le cose non vanno subito così, perché durante i primi incontri la timidezza ha la meglio, e Mario non riesce a far altro che consegnare la posta e, scambiato un frettoloso saluto, vedere il poeta rientrare in casa. Quando riesce infine a farsi coraggio e consegnare a Neruda il libro, chiedendogli una dedica, il poeta si presta con la gentilezza che riservava a tutti, ma si limita ad un generico: cordialmente, Pablo Neruda.

Ciò che consentirà a Mario di tirar fuori la faccia tosta per riuscire a parlare di più col poeta sarà l’innamoramento repentino per Beatriz Gonzalez, figlia dell’ostessa di paese. Mario Jimenez ha ora bisogno di una guida che gl’insegni a cantare l’amore, a trovare il modo di dire tutte quelle cose che gli bruciano dentro, che lo aiuti a trovare la forma adatta per far capire a Beatriz l’entità dei suoi sentimenti e renderla finalmente sua. Neruda in un primo momento vuole trarsi d’impaccio, non vuole avere a che fare con storie che non lo riguardano, eppure nei modi in cui cerca di mandar via il postino s’intravede subito la gran simpatia che quel giovane energico e frizzante riesce a suscitargli. Tant’è che, nonostante tutto, insegna a Mario cosa sono le metafore, lascia che rubi i suoi versi per elogiare la bellezza di Beatriz e diventa per Mario non soltanto un mentore, ma anche un grande amico che né la distanza né il tempo allontaneranno mai.

 Sullo sfondo della vicenda uno dei momenti storici più complicati per il Cile, ovvero il golpe militare e la caduta del governo di Salvador Allende.

Il postino di Neruda è uno di quei rarissimi casi in cui un film supera di gran lunga il libro da cui è tratto. Ho visto Il postino una sola volta, diversi anni fa, ma è bastata per innamorarmene incondizionatamente, tanto che mi sembra d’averlo visto ieri, per quanto è vivo il ricordo. L’opera di Skarmeta conta appena 120 pagine, deliziose, leggere ma senza dubbio troppo poche per rendere tutta la bellezza che ha invece saputo trasmettere il film di Troisi, che mentre leggevo non riuscivo proprio a togliermi dalla testa. Non riuscivo a non vedermi davanti il viso dell’attore più straordinario che il nostro Paese possa vantare, il suo volto luminoso, quegli occhi innocenti, il sorriso radioso che hanno attribuito al personaggio di Mario la freschezza e l’ingenuità di un bambino; nel film, il percorso di Mario da giovane semi-illetterato ad amante della poesia è di una sensibilità che spacca il cuore e la costruzione della sua amicizia con Pablo Neruda è molto più lenta e, di conseguenza, più interessante e più profonda. Il postino, soprattutto grazie all’interpretazione indimenticabile di Massimo Troisi, è emozionante come poche altre storie; Il postino di Neruda, invece, è un libro carino. I suoi pregi sono l’idea e la storia, i personaggi, ed anche i particolari accostamenti di parole scelti dall’autore, che spesso spiccano in mezzo ad una generale aura di semplicità.

Per essere un gran bel libro, forse Skarmeta non doveva far altro che dedicargli più tempo e più pagine, lasciare più spazio ai suoi personaggi, dando la possibilità al lettore di godersi un nascere di rapporti e sentimenti – nonché l’evoluzione del protagonista – ben più lentamente di così.

Io ho trovato questo volumetto ad una bancarella, mi è costato due euro e a leggerlo ci ho messo un’oretta; pertanto se lo avete in casa, ed una sera non sapete cosa fare, non esitate a prenderlo in mano. Ma se ancora non avete avuto nessun contatto con questa storia, non ho dubbi: lasciate stare il libro per il momento, e correte ad estasiarvi davanti al Mario di Massimo Troisi ne Il postino.

- Però se fossi poeta potrei dire quello che voglio.
- E che cos'è che vuoi dire?
- Be', il problema è proprio questo. Siccome non sono poeta, non lo so dire.


sabato 26 novembre 2016

Il tempo dell'attesa (La saga dei Cazalet), Elizabeth Jane Howard

Gli anni della leggerezza, il primo volume della Saga dei Cazalet dell’autrice inglese Elizabeth Jane Howard, fortunatamente riscoperta dalla Fazi negli ultimi anni, era nella mia wishlist per i regali dello scorso Natale. Ci pensò mia madre a regalarmelo, ma nonostante fossi curiosissima di scoprirne i contenuti, ci è voluto un bel po’ di tempo prima che mi dedicassi a leggerlo. Un po’, immagino, perché era uno dei romanzi più in voga del momento, in parte solo perché aspettavo l’ispirazione giusta. Quando questa è arrivata – se non ricordo male a Settembre – Gli anni della leggerezza l’ho divorato in pochissimo tempo, a dispetto delle sue seicento e passa pagine. Tuttavia non ne ho lasciato traccia qui sul blog, e nemmeno sul mio profilo di Anobii. Il motivo è semplice: mi era piaciuto tantissimo, sì, ma faticavo ad immaginare di spiegarne il perché in un commento che valesse la pena diffondere. Sentivo che se mi fossi cimentata nel tentativo di raccontare le mie impressioni il risultato sarebbe stato banale, superfluo, vuoto rispetto a ciò che in realtà il libro mi aveva trasmesso. Perciò ho preferito lasciar stare, ho preferito rifletterci su per conto mio, cercando di approfondire tramite qualche ricerca ed il ricordo ancora vicino dove si nascondesse la grandezza della scrittura della Howard.

Penso che ormai tutti abbiate sentito parlare dei Cazalet, tanto che non mi sento in dovere di raccontarvi qualcosa della trama; ma non posso commettere l’errore di dar per scontato che davvero ognuno di voi sappia di cosa sta parlando quando si nomina la famiglia nata dalla penna della Howard, perciò almeno una veloce spiegazione ve la devo. La saga dei Cazalet, che si articola in più volumi, racconta le vicissitudini di una famiglia inglese alto-borghese, proprietaria di una ditta di legname, a cavallo tra le due Grandi Guerre. Nel primo volume la paura che scoppi il secondo conflitto mondiale si sta spandendo rapidamente, ma si conclude con un momentaneo scampato pericolo; nel secondo volume invece siamo nel pieno della Seconda Guerra Mondiale.

 Tra i Cazalet troviamo anzitutto i capostipiti, affettuosamente soprannominati il Generale e la Duchessa, intramontabili baluardi dell’epoca vittoriana. Poi ci sono i loro tre figli maschi – Hugh, Edward e Rupert – tanto diversi tra di loro che si stenterebbe a crederne la parentela. Hugh, il maggiore, è un eroe della Prima Guerra, che gli ha lasciato in ricordo un moncherino al posto della mano sinistra e tanto ricorrenti quanto dolorose emicranie. Hugh è un uomo attento nel lavoro, riservato nella sua vita, premuroso con la moglie e affettuoso con i figli: un uomo buono. Edward è invece l’esatto opposto, è istintivo, famelico, vorace; il più affascinante dei tre, anche lui reduce dal primo conflitto dal quale però è tornato senza un graffio. Marito e padre superficiale, non si accontenta di un’unica donna né di un’unica amante: il classico uomo che non sa tenerlo nei pantaloni. Rupert, tra i tre, è probabilmente il mio preferito. Troppo giovane per arruolarsi ai tempi della Prima Guerra, appassionato di arte col sogno di fare della pittura il suo mestiere, anche se per mantenersi ha ripiegato al momento sull’insegnamento. Combattuto quindi tra la necessità di seguire la propria vocazione e quella di mantenere una famiglia, un uomo tutt’altro che rinunciatario ma capace di fare dei sacrifici. Spezzato dalla morte della sua prima adorata moglie, piegato dalla fatica di bastare a due figli tanto più bisognosi d’amore a causa della perdita materna e per di più intrappolato dalla bellezza della sua seconda moglie, innamoratissima di lui ma troppo giovane per comprenderlo. Infine c’è Rachel, l’unica figlia femmina rimasta nubile, spalla e bastone per la vecchiaia dei genitori. Rachel è fin troppo generosa, quel tipo di persona che non fa altro che aiutare anche quando avrebbe bisogno d’aiuto lei per prima. Uno spirito profondamente materno, che un po’ si dispiace a non esser sfruttato su un figlio suo. Rachel, a sua volta apparentemente tanto semplice, serba un segreto: un segreto importante, intimo e vissuto gelosamente.


Hugh è sposato con Sybil, che è un po’ la sua versione al femminile. Di Sybil, ad esser sincera, non mi ha colpita nulla in particolare, non quanto la natura del loro rapporto: Hugh e Sybil sono forse gli unici tra i coniugi Cazalet ad amarsi di un amore vero, ma nonostante questo sono incapaci di costruire un vero dialogo. Loro due pensano di conoscere l’altro alla perfezione, credono di sapere sempre cosa preferirebbe in ogni piccola situazione e per quest’eccesso di reciproca gentilezza danno luogo ad un’infinita serie di equivoci che creano – senza che nessuno lo ammetta – disagio ad entrambi (piccolo rapido esempio: Hugh non vuole il caffè ma crede che Sybil lo gradisca, così le propone di prenderne uno; neanche Sybil, in realtà, vuole un caffè ma dal momento che Hugh l’ha proposto pensa che a lui faccia piacere, quindi accetta). A qualsiasi spettatore esterno può sembrare un rapporto insensato, logorante, esasperante ma per loro funziona benissimo nonostante talvolta il “non detto” riguardi faccende un tantino più importanti delle piccole inezie quotidiane.

Edward e Villy sono senz’altro la coppia più finta tra i Cazalet e non soltanto per i continui tradimenti di lui. Villy forse non tradisce, e forse in qualche modo suo marito lo ama anche, è solo che non era una donna tagliata per il matrimonio. Nel primo volume, anche se non particolarmente simpatica, Villy è uno dei personaggi che ho trovato più interessanti. Per il matrimonio aveva lasciato la sua carriera di ballerina di danza classica con una compagnia russa, pensando che fosse una scelta saggia, giusta, normale che l’avrebbe condotta verso una vita altrettanto appagante; invece, il ruolo di moglie e madre si era rivelato per lei insufficiente, più stretto di un soffocante corpetto. Nonostante tanta personale insoddisfazione, nessuno sospetterebbe l’inquietudine di Villy, la quale appare impeccabile in ogni momento ed in ogni contesto, comportandosi sempre come tutti gli altri si aspettano; la frustrazione, poi, la sfoga buttandosi con tutta se stessa di volta in volta in una nuova attività – imparare una lingua straniera, a suonare uno strumento, una tecnica di cucito – fino al raggiungere la perfezione, per poi passare ad altro.

Il rapporto tra Rupert e Zoe, invece, è ancora giovane, giovane come lei che nella vita non si è preoccupata d’altro che della sua bellezza, incitata anche da una madre povera e sola che nello splendore estetico di quell’unica figlia adorata ha visto ogni singola possibilità di riscatto per entrambe. Rupert non è esattamente il riccone che la madre si auspicava per Zoe – e per se stessa – ma Zoe, nel momento in cui lo incontrò per la prima volta, non pensò a niente di tutto questo. Nonostante a primo impatto Zoe sembri infantile e capricciosa, ho colto in lei qualcosa di selvatico che subito l’ha fatta scattare in vetta tra i favoriti. Difficile per lei accontentarsi del tempo con Rupert, che quand’è libero deve dedicarsi anche a quei suoi due bambini orfani di madre; difficile per lei, nient’altro che tanto innamorata, non passare per bambina egoista; difficile per lei farsi accettare da un bambino nervoso e da una ragazzina che in pratica la odia. Zoe è una gatta, bella e indomita, dolce e ribelle, capace di arrampicarsi e di cadere in piedi.

Se dovessi poi soffermarmi su tutti i figli ci starei un’eternità né potrei dire molto su ognuno: non tutti i giovani Cazalet infatti compaiono molto sulla scena. I maschi, per esempio, per la maggior parte del tempo sono via per la scuola o altre attività. Quelle che hanno più spazio nella narrazione sono le tre cugine Polly, Clary e Louise, che fin dall’inizio – tra tutti – hanno attirato particolarmente la mia attenzione. Polly che non ha idea di cosa fare nella sua vita, Polly così buona, gentile e premurosa con tutti, che coi suoi soldi compra oggetti bizzarri da mettere da parte per realizzare l’unico desiderio che è sicura di avere: avere una casa tutta sua dove mettere tutte quelle cose e dove vivere serenamente con qualche gatto a tenerle compagnia. E Clary, il contrario di Polly, brusca e scontrosa ma soltanto bisognosa di affetto, in continua lotta per sentirsi accettata, col talento per la scrittura che sboccia fino a diventare un’ambizione insopprimibile. E Louise, di poco più grande di loro, abbastanza da non aver più nulla in comune nel giro di un’estate. Louise che conosce tutto Shakespeare a memoria, sicura soltanto di voler fare l’attrice; Louise che impara a sconfiggere la nostalgia di casa, Louise che non sente l’amore di sua madre, Louise che l’amore di suo padre tende ad essere di un tipo sbagliato, Louise che in valigia mette sofferenze e paure.

Ma la gamma dei personaggi non si limita neanche a chi porta il cognome Cazalet: la narrazione sbalza tra i componenti della famiglia e le persone al suo servizio, in quella fortunatissima forma ripresa nella serie tv Downton Abbey (che ora posso anche sospettare essere praticamente copiata – con qualche significativa modifica – dai libri della Howard); come dimenticare poi Miss Milliment, l’istitutrice delle ragazze, un personaggio capace, dignitoso e sofferente per cui ho avuto un debole dall’inizio; e poi Sid, l’amica di Rachel, musicista di talento, ebrea per metà, quasi parte della famiglia, legata ad una sorella che è una zavorra, impossibilitata dalle circostanze a viversi la vita per come la vorrebbe. Tanti sono i personaggi che passano per queste pagine, ospitati nella grande casa del Generale e della Duchessa nella campagna del Sussex.

Se mi fossi lanciata a scrivere un commento dopo aver letto il primo volume, avrei fatto un ritratto dei personaggi principali così come ho fatto ora e poi avrei aggiunto che il tratto più forte che mi rimaneva di questa grande famiglia era l’aura di serena falsità che aleggiava su tutti quanti. Trovavo straordinario come tutti sembrassero assolutamente ordinari, persone semplici, persone qualunque e di come invece sondandone pian piano l’intimità di ognuno emergesse una complessa unicità, di come tutti questi inglesi pacati, abitudinari, col tè in mano alle cinque in punto serbassero nel quotidiano tumulti così forti, conflitti interni ed esterni, ambizioni e rinunce: i Cazalet non parlano. Li immagino tutti seduti intorno al grande tavolo, ben vestiti, ben pettinati, col sorriso cordiale sulle labbra. Parlano di Hitler, di politica interna ed internazionale, parlano di musica, di arte, dei ragazzi, di cosa fare l’indomani. Nessuno, però, si sognerebbe di esprimere la preoccupazione per la possibilità di essere arruolato, o di sfogarsi per una gravidanza indesiderata, o della paura di essere malati, o della difficoltà di separarsi da un figlio che come gli altri deve andare a scuola lontano da casa. E’ un’attitudine che i più giovani hanno già notato, ogni qualvolta pongono una domanda e gli adulti si rifiutano di rispondere (che cos’è uno stupro? Nessuno me lo spiega! Mi hanno detto che devo averne paura, ma come faccio ad averne paura o ad evitarlo se non so neanche cosa sia?).

Ho capito quanto la saga dei Cazalet mi avesse coinvolta quando, a metà del mese in corso, di punto in bianco ho sentito un bisogno quasi fisico di tornare tra loro, al punto da fare una cosa che ormai faccio raramente (più per possibilità che altro) ovvero uscire, dirigermi a passo svelto in libreria, e sborsare i diciotto euro necessari a portarmi a casa il secondo episodio, Il tempo dell’attesa. L’attesa è quella della fine di una guerra che sembra durare da sempre e non finire mai, una guerra che mette in pausa tutto il resto, che rende difficile condurre un’esistenza normale. Non si sta combattendo in prima persona, eppure non si può neanche portare avanti i propri sogni e progetti. Gli adulti riescono anche a cavarsela, con tutte le loro cose da fare, ma crescere in quest’atmosfera di stand-by è ben più difficile: non a caso, ne Il tempo dell’attesa interi capitoli sono affidati alle voci di Polly, Louise e Clary, ormai in piena adolescenza.

Se possibile, Il tempo dell’attesa mi è piaciuto ancora di più de Gli anni della leggerezza. Sono davvero tanti gli avvenimenti che scandiscono la vita degli ancor più numerosi personaggi, tante le storie dentro le storie, tanti i cambiamenti, le evoluzioni tanto nei rapporti quanto nell’interiorità di ognuno. Ma non ha senso svelarvele, il bello sta tutto nello scoprirle pagina dopo pagina. Ma più di tutto, Il tempo dell’attesa mi ha svelato dov’è che sta la grandezza della scrittura di Jane Howard – come preferiva essere chiamata – che giustamente la sua amica e scrittrice Hilary Mantel ha paragonato a Jane Austen, per quella predilezione degli ambienti domestici e provinciali come materiale narrativo. Ecco, ad essere incredibile è la capacità della Howard di modificare il tono ed il peso delle sue parole a seconda del personaggio trattato: lei sa rendere più che credibili tanto gli uomini quanto le donne, tanto le difficoltà di una tredicenne quanto i moti interiori di una diciottenne; sa rendere reali tanto i problemi di un anziano che perde autonomia a causa degli acciacchi della vecchiaia, quanto quelli di un bambino. Sono stati proprio i paragrafi in cui protagonisti sono i bambini a farmi saltare all’occhio questo particolare: Lydia e Neville sono spassosi, leggendo i loro battibecchi e le loro serie disquisizioni è difficilissimo non farsi una risata e al contempo sono realistici. I loro dubbi non sembrano quelli di un adulto che ha tentato di farsi bambino, ma sembrano proprio quelli che potrebbe venire a porci – spiazzandoci – il settenne di turno. Questa grande capacità denota che, prima che come scrittrice, Jane Howard aveva un grande talento come osservatrice e che doveva essere molto brava a mettersi nei panni degli altri.

In quest’opera gigante che è la saga dei Cazalet la scrittrice ha messo molto di sé, del suo vissuto, della sua famiglia. In particolare, nella figura di Louise: anche la Howard, infatti, aveva intrapreso la strada della recitazione e purtroppo Villy ed Edward, i genitori di Louise, sono il ritratto dei genitori della Howard. La madre di Jane Howard aveva abbandonato la carriera da ballerina esattamente come Villy e proprio come lei era stata una madre anaffettiva e rancorosa per sua figlia; anche il padre dell’autrice, come Edward, era un reduce della Prima Guerra ed un marito fedifrago che era arrivato al punto di molestare la figlia. La vita amorosa di Jane Howard fu anch’essa tutt’altro che tranquilla, costellata di relazioni diverse, molte delle quali problematiche, ma trovo lo stesso ridicolo che una scrittrice del suo calibro fosse ricordata più per la sua “turbolenta vita sentimentale” che per la sua imponente opera letteraria.

Il tempo dell’attesa si conclude con l’attacco di Pearl Harbor. Con la paura che il conflitto non finisca più, con un membro della famiglia che chissà dov’è, con un amore che forse sta nascendo, con uno che forse è finito, con più di un dubbio e nessuna risposta.
Digerirò lentamente anche questo capitolo, poi aspetterò che mi risalga la febbre Cazalet per correre di nuovo in libreria in disperata ricerca del terzo volume. So già che non ci vorrà molto, perché non vedo l’ora di tornare a indagare tra le pieghe delle loro normalissime vite.

giovedì 24 novembre 2016

Confessioni di una lettrice: Dio di illusioni, Donna Tartt

Ognuno di noi, in quanto lettore con alle spalle una più o meno lunga vita passata tra i libri, ha i suoi scheletri nell'armadio, o per meglio dire nella libreria, ne sono più che convinta. Ognuno di noi si sarà appassionato ed emozionato ad almeno un romanzo di cui vergognarsi, ognuno di noi avrà odiato a morte un libro che invece sembra esser piaciuto unanimemente al mondo intero, ad ognuno di noi sarà capitato di non sentirsi neanche lontanamente attratti dal più grande successo letterario degli ultimi decenni. Non c'è nulla di sbagliato in questo, anzi, è uno degli aspetti più interessanti quando si ha la possibilità di condividere le proprie opinioni, perché è proprio dalle divergenze più forti che nasce il vero dibattito.
Io non sono da meno in tutto ciò, forse di scheletri nella libreria non ne ho moltissimi ma quelli che ho mi paiono piuttosto eclatanti, ed ho pensato che potesse essere divertente, ogni tanto, svelarne apertamente qualcuno. Eccomi qui, quindi, per raccontarvi uno dei più recenti casi in cui mi son sentita molto lontana dal sentire comune della maggior parte dei lettori che avevano affrontato Dio di illusioni di Donna Tartt.

Nel 2014 Donna Tartt vinceva il Premio Pulitzer con il suo terzo romanzo, l'osannatissimo Il cardellino. Io, sono sincera, prima di quel momento non avevo mai sentito nominare questa scrittrice, la cui carriera era cominciata da giovanissima e subito col botto. Dopo la vittoria del prestigioso premio, il suo nome ed i titoli dei suoi romanzi mi saltavano agli occhi ovunque: sul web, sui giornali, nelle librerie; alla fine non ho potuto far altro che cedere ed incuriosirmi, ma mai mi sarei avvicinata a lei proprio dal romanzo più chiacchierato del momento: ho cominciato informandomi un po' su chi fosse la misteriosa (almeno per me) autrice. E voglio iniziare col dire che la trovo una donna affascinante ed interessante come poche: con quel suo stile mascolino (indossa quasi sempre completi tipo smoking, con tanto di cravatta) e al tempo stesso così femminile ed elegante, il suo stile di vita volutamente indipendente, il suo modo di parlare così colto e raffinato, e poi questa storia che ad ogni libro ha dedicato dieci anni esatti. Potrei dire senza esitazioni che Donna Tartt come persona m'incuriosisce più dei suoi romanzi.

Donna Tartt
Il primo libro letto nel 2015, quindi, fu il primo romanzo scritto dalla Tartt, Dio di illusioni, che iniziò quand'era ancora all'università e terminò, come di consueto, dopo dieci anni di stesura. Si tratta di un romanzo dalle tinte fosche, cupe, che devono ammaliare ed al tempo stesso inquietare il lettore. Il protagonista è uno squattrinato ragazzo californiano - se non sbaglio - di cui non sono mai riuscita a ricordare il nome (forse era Robert?), il che la dice lunga su quanto mi sia rimasto impresso. Questo ragazzo decide di trasferirsi in un piccolo e prestigioso college del Vermont, dove ben presto nota un gruppo di ragazzi che sembrano non aver nulla in comune col resto del mondo. Sono ricchissimi, belli di una bellezza fredda e distante, sembrano eterei come antiche divinità greche; e proprio dell'antica Grecia essi si occupano: fanno infatti parte di un'élite, sono i pochissimi studenti scelti da un particolare professore di greco che ammette solo una manciata di studenti al suo corso, che si svolge in un salottino privato in un'atmosfera un po' surreale. Il nostro protagonista - Robert? - decide di provare ad entrare nell'élite e non arrendendosi ai primi rifiuti, riesce a farsi accettare dal professore. A questo punto si trova coinvolto in ben più che delle semplici lezioni di greco, perché il gruppo di studenti vive in maniera strettamente connessa. Con l'aria annoiata e superficiale di chi ha sempre avuto troppo, sono ragazzi che non sanno fare a meno degli eccessi; sperperano a dismisura i soldi delle loro famiglie profondamente sbagliate, trascorrono giorni e notti nei fumi dell'alcol e delle droghe, spingono l'acceleratore molto più di quanto sarebbe normale. Robert (?) si trova coinvolto in una serie di vicende - compreso un delitto, che sarebbe il fulcro dell'opera - che inevitabilmente segneranno la sua vita e quella dei suoi compagni per sempre.

Ho letto tante recensioni e visto tanti video in cui la gente esprime pareri a dir poco entusiastici su Dio di illusioni. Ecco, a me invece non è piaciuto per niente. Perché? Provo a spiegarlo.
La scrittura è quasi troppo perfetta. Levigata ad arte, ossessivamente precisa, chirurgica. Il che, se da una parte mi pare elegante e sapiente, dall'altra fa sì che difficilmente io provi vere emozioni, mi senta coinvolta da ciò che provano i personaggi, provi empatia nei loro confronti, ossia mi nega la parte più importante del rapporto tra libro e lettore. In secondo luogo, l'ho trovato un romanzo fin troppo pretenzioso: come ho detto prima, l'intenzione delle atmosfere è palesemente quella di creare un misto di fascinazione ed inquietudine, ma proprio l'intenzione così palese mi ha fatto sembrare tutto molto finto. Potrei paragonarlo ad una donna che vuole fare la sexy a tutti i costi e proprio per questo non ci riuscirà mai, al contrario di una che non ci pensa affatto e trasuda invece sensualità dai suoi modi spontanei e naturali. Ho reso l'idea? Poi viene la trama, che sostanzialmente è un giallo, ma i meccanismi del delitto li ho trovati abbastanza idioti, prevedibili e noiosi; ricordo distintamente che a pagina 400 non ne potevo più, ma non essendo mia abitudine abbandonare un libro ho tirato avanti con fatica ed ostinazione e solo nelle ultime cento pagine sono riuscita a proseguire più spedita. Insomma, ciò che doveva costituire il fulcro della storia, la parte più carica di pathos e suspence, è stata invece proprio quella che mi ha interessato meno. Infine, veniamo ai personaggi.
Innanzi tutto il protagonista - Robert? Di lui ricordo solo che era in perenne disagio perché lui era povero e gli altri ricchi, che tutto sommato era bravo negli studi, che a casa non aveva praticamente niente se non due genitori mediocri e superficiali. E che mi stava profondamente antipatico. L'ho trovato un protagonista indefinito, che sembrava più una telecamera attraverso la quale raccontare la storia piuttosto che parte della storia stessa. Mi era sembrato privo di tratti che lo definissero davvero, privo di carattere e di spina dorsale, sempre in balìa degli eventi e trascinato dagli altri. Una palla. Quanto al gruppetto degli studenti di greco... Mamma mia. Surreali, noiosi, fastidiosi, immaturi. Si tratta di ragazzi che vivono completamente nel mondo antico e che del mondo moderno non sapevano praticamente nulla; nonostante questo, di cultura classica all'interno del romanzo si parla davvero pochissimo, il che mi ha delusa ed anche un po' infastidita. Mentre leggevo, più che raffinati studenti di un élite di grecisti di un piccolo college sperduto nel nord America, mi sembrava di avere davanti dei ginnasiali dei Parioli (per chi non lo conoscesse, è un quartiere bene di Roma).
A distanza di quasi due anni, ricordo davvero poco di Dio di illusioni e ciò che ricordo, come vedete, non è poi così gradevole.

Le pochissime volte in cui mi è capitato di provare ad esprimere - ovviamente in maniera più contenuta e ridotta di quanto ho fatto adesso - questi miei pensieri, mi sono sempre trovata davanti chi difendeva a spada tratta ogni dettaglio del libro, in un modo così convinto e determinato che mi scoraggiava dal provare a spiegare le mie ragioni. Quindi posso dire di non esser mai riuscita ad avere un vero confronto con chi Dio di illusioni l'ha amato e dunque non ho mai capito cosa, di questo libro, non ho capito io. O semplicemente cosa, tra me e lui, non ha funzionato. Mi piacerebbe molto se nei commenti nascesse un sano scambio di opinioni, fatemi sapere se l'avete letto o avete intenzione di leggerlo, se l'avete apprezzato e perché oppure se concordate con quanto ho scritto io.
Ci tengo a precisare che, per quanto può sembrare strano, non ritengo chiuso qui il mio percorso con Donna Tartt, anzi: appena finito Dio di illusioni pensai che, lasciato passare abbastanza tempo, avrei provato col suo secondo romanzo, ovvero Il piccolo amico. Ho la netta sensazione che il meno conosciuto e citato dei suoi libri, sia invece quello che potrebbe piacermi di più (lo spirito del bastiancontrario, eh!). Il momento non è ancora arrivato, ma sono davvero curiosa di dare e darmi una seconda chance con la cara Donna.

A presto,
cari lettori e lettrici

domenica 6 novembre 2016

Storie di donne. Annette Kellerman ed i costumi da bagno


Annette Kellerman nasce il 6 luglio 1887 a Darlinghurst, Australia, da un violinista e da una pianista ed insegnante di musica. La storia di Annette ha inizio con dei gravi problemi alle gambe che già all'età di sei anni la costringono ad usare dei dolorosi sostegni in acciaio, qualcosa di simile a quelli che tutti abbiamo visto indossare al piccolo Forrest Gump. I genitori, per far sì che il suo corpo diventasse più forte e muscoloso e fosse in grado di sorreggerla, la iscrivono ai corsi di nuoto a Sydney: a tredici anni Annette camminava perfettamente, a quindici padroneggiava tutti gli stili, aveva vinto la sua prima gara di nuoto e conosceva anche le tecniche d'immersione.
Era il 1902 ed Annette decise che il nuoto sarebbe stato il suo destino. Fu così che iniziò a prendere parte a gare via via sempre più importanti, diventando nell'arco di breve tempo campionessa del miglio del Nuovo Galles del Sud con un record di trentatré minuti e quarantanove secondi. Nello stesso anno la famiglia si trasferì a Melbourne per seguire la carriera della madre ed Annette iniziò ad esibirsi in pubblico sia nel nuoto che nei tuffi; talvolta si presentava vestita da sirena e nuotava due volte al giorno all'Exhibition Aquarium in una grande vasca di vetro piena di pesci colorati.

Dopo aver nuotato nello Yarra, il fiume che attraversa Melbourne, ed essersi esibita in tutta l'Australia, seguì il padre in Inghilterra dove attirò l'attenzione mondiale nuotando nel Tamigi per oltre 13 miglia, circa 21 km. A diciotto anni, poi, fu la prima donna a tentare la traversata della Manica a nuoto, la prima impresa che non le riuscì e che tentò, senza successo, altre due volte.
A partire dal 1906 Annette iniziò a lasciare la carriera agonistica privilegiando quella artistica: si esibì a Londra, a Chicago, a Boston, a New York nei più grandi teatri d'Europa, America e Australia guadagnandosi i soprannomi di Australian Mermaid (sirenetta australiana) e Diving Venus (Venere tuffatrice). I suoi spettacoli non contemplavano più solo numeri d'acqua ma anche esibizioni di danza, camminate sul filo, acrobazie. Nel 1907, al New York Hippodrome, si esibì in una vasca di vetro in quello che viene considerato il primo balletto acquatico, grazie al quale ad Annette viene attribuita l'invenzione del nuoto sincronizzato.
La carriera agonistica ed artistica di Annette Kellerman non sono tuttavia le uniche ragioni per cui è passata alla storia: la Kellerman, proprio durante quell'esibizione del 1907, si rese anche protagonista di quello che oggi ci appare come un singolare fatto di cronaca. Ma facciamo un passo indietro.

Com'erano i costumi da bagno agli inizi del Novecento? Be', diciamo che non differivano molto dagli abiti normali, nel senso che - soprattutto quelli da donna - non lasciavano scoperta una gran porzione di pelle, anzi: di pelle nuda in spiaggia se ne vedeva quanta in città. Mostrare parti di corpo scoperte sarebbe stata un'indecenza imperdonabile, e poi i canoni di bellezza volevano donne dalla pelle candida, pallida, senza imperfezioni, sicché l'abbronzatura veniva rifuggita come una malattia.
Il costume da donna era costituito da due parti, un vestito che copriva dalle spalle alle ginocchia ed un pantalone che scendeva fino alle caviglie con tanto di tipici sbuffi e svolazzi di stoffa da indossare con le calze ed immancabili accessori quali scarpette e voluminosi cappelli con visiera.
E cosa c'entra, vi chiederete voi, Annette Kellerman con tutto questo?

C'entra, perché Annette Kellerman si fece promotrice del diritto delle donne di indossare una tenuta da spiaggia se non più scoperta, quanto meno più attillata, così da favorire il movimento in acqua. Il suo costume destò com'era prevedibile grande scalpore e le cose degenerarono quando, poco tempo dopo, Annette si mostrò in una spiaggia di Boston con un costume in due pezzi che lasciava scoperti collo, braccia e gambe.

Il pezzo unico di Annette

Annette Kellerman fu arrestata con l'accusa di atti osceni.
L'arresto, tuttavia, ebbe il solo effetto di scatenare un dibattito pubblico che portò infine all'approvazione dell'innovativa mise della Kellerman, che portò addirittura alla creazione di una linea di costumi da bagno per signore intitolate al suo nome.
A segnare la definitiva vittoria del modello furono le Olimpiadi del 1912, le prime in cui le donne furono ammesse alle gare di nuoto ed alle quali le atlete indossarono costumi ispirati a quello di Annette, un modello che nonostante questo continuò a dividere l'opinione pubblica per molto tempo: se nel 1920 la prestigiosa rivista Harper's Bazaar lodava la nuotatrice, attribuendo al suo costume caratteri eleganti e raffinati, nel 1943 negli Stati Uniti erano ancora considerati una prova d'indecenza.

Il costume che costò ad Annette
l'accusa di "atti osceni"

Quante storie per un costume da bagno, eh?
Il processo di accettazione di una mise da spiaggia più comoda, più pratica, e forse anche più carina esteticamente fu lento e faticoso, un processo al quale senza dubbio Annette Kellerman diede una spinta decisiva. Nel corso degli anni '20 anche molte donne comuni iniziarono, dov'era almeno permesso, ad indossare lo scandaloso due pezzi Kellerman ma, che ci crediate o no, la lunghezza dei costumi veniva misurata all'arrivo in spiaggia; qualora una signora si fosse presentata con una tenuta più corta di quanto fosse considerato accettabile, era obbligata a pagare una multa.


Doveva sembrare impossibile, a quei tempi, che un giorno le donne si sarebbero presentate al mare coperte soltanto da due pezzetti di stoffa. Eppure già negli anni '40 ci pensò il sarto francese Louis Réard, che riprendendo un'idea di Jacques Heim, inventò il bikini per come lo conosciamo oggi.
Micheline Bernardini
e il primo bikini
Réard doveva essere ben consapevole dell'impatto che la sua idea avrebbe avuto sulla società, dal momento che lo chiamò come l'atollo di Bikini nelle isole Marshall, dove all'epoca gli americani conducevano test nucleari: il suo bikini avrebbe avuto lo stesso effetto di una bomba atomica, pensava Réard, e non si sbagliava. All'inizio non trovò neppure una modella disposta ad indossarlo e dovette ripiegare sulla spogliarellista del Casino de Paris, Micheline Bernardini.
Fu proprio la Francia, patria della libertée, l'unico luogo in cui il bikini ebbe successo, le francesi le uniche donne abbastanza coraggiose e smaliziate da indossarlo. L'immagine e l'idea stessa di bikini furono infine sdoganate da un film, E Dio creò la donna, dove una giovanissima e - neanche a dirlo - bellissima Brigitte Bardot indossava un grazioso bikini a fiori che fece ricredere milioni di donne. Dopo di lei molte altre dive iniziarono a sfoggiarlo, ed il bikini divenne finalmente un capo estivo immancabile nell'armadio di ogni donna. Forse non vi stupirà scoprire che, anche in questa occasione, l'Italia arrivò tra gli ultimi Paesi ad accettarne liberamente l'utilizzo in pubblico: nel 1950 l'allora Ministro degli Interni Mario Scelba ancora ordinava ai poliziotti di setacciare le spiagge per accettarsi che i pochissimi bikini presenti fossero in regola in quanto a grandezza e decenza.

Brigitte Bardot in E Dio creò la donna




sabato 5 novembre 2016

Geronimo il cieco e suo fratello, Arthur Schnitzler

Secondo incontro per me con Arthur Schnitzler, che si conferma genio assoluto.
In un racconto breve come Geronimo il cieco e suo fratello riesce a condensare non soltanto la storia di un complesso rapporto tra fratelli, ma anche molti dei temi a lui cari: il tema del dubbio, dell'incertezza, dell'ambiguità, il tema della diffidenza in particolare verso le persone a noi più prossime – marito o moglie (Doppio sogno), i familiari come in questo caso, verso gli amici o coloro che andrebbero considerati tali.

Impossibile parlare dell'autore viennese senza almeno un breve accenno a Sigmund Freud.
Il medico-scrittore (prima di dedicarsi a tempo pieno alle lettere, Schnitzler aveva seguito le orme paterne praticando la professione medica fino alla morte del genitore) ed il padre della psicoanalisi infatti erano coetanei ed operavano entrambi nella capitale austriaca agli inizi del Novecento. Mentre Freud stava ancora elaborando le sue teorie, Schnitzler nelle sue opere metteva in scena vicende torbide e complesse capaci di smascherare, mettendo a nudo, i lati più oscuri della psicologia umana.
Schnitzler e Freud seguirono a distanza il lavoro dell'altro, evitando accuratamente d'incontrarsi: nonostante la reciproca stima e gli interessi comuni, i due intellettuali si riconoscevano come troppo simili e, assieme al sentimento di simpatia, provavano anche un vago senso di sospetto. E' lo stesso Freud ad ammettere, in una lettera indirizzata a Schnitzler, di non averlo mai invitato per un incontro vis à vis per quella che gli pare quasi una paura del sosia.
Chiunque sia interessato o affascinato dalla psicologia, dunque, non può proprio esimersi dal dare una chance alle opere schnitzleriane.

Geronimo, ce lo dice il titolo, è cieco. Non lo è però dalla nascita né lo è diventato per una malattia: la sua cecità è dovuta ad un incidente, la cui colpa – purtroppo – pesa sulle spalle del fratello maggiore Carlo, il quale a causa del rimorso cade in uno stato di disperazione tale da arrivare a pensare al suicidio; ciò che lo distoglie dal drastico proposito è la decisione di sacrificarsi totalmente al fratello minore, il desiderio di rimediare al suo errore diventando per Geronimo il braccio fidato al quale aggrapparsi nel buio eterno in cui è precipitato, un fedele servitore eternamente in debito.
La cecità di Geronimo non è neanche l'unica disgrazia che colpisce la famiglia dei due fratelli italiani, i quali per una serie di circostanze finiscono col diventare una coppia di mendicanti. Geronimo, che ha appreso i rudimenti della musica, canta accompagnandosi con la chitarra – la voce che diventa roca quand'è ubriaco; Carlo tende un cappello ai misericordiosi passanti.

All'apertura del racconto Carlo e Geronimo si trovano in una zona di passaggio, sul confine dell'alt'Italia, un luogo poco ospitale che invita soltanto ad una sosta breve. Il valico è attraversato quotidianamente da moltissimi viaggiatori e la locanda dove alloggiano e mendicano Carlo e Geronimo è l'ultimo punto di ristoro prima di un altro lungo tratto. Uno dei tanti viaggiatori che si fermano – un uomo ben vestito dall'aria distratta – deposita qualche spicciolo nel cappello di Carlo, allo stesso modo di tutti gli altri. Carlo rientra nella locanda ed il viandante, avvicinandosi a Geronimo, gli dice di stare ben attento a non farsi ingannare; come farmi ingannare?, gli domanda questi, ed il viaggiatore risponde di aver dato al suo "compare" una moneta da venti franchi.
Quando Geronimo, su di giri, chiede al fratello di fargli toccare la moneta d'oro, Carlo – spaesato – gli dice che non c'è nessuna moneta d'oro, che nessuno si è sognato di dargliene una. Ed ecco, è fatta: la crepa è aperta, il seme del dubbio gettato.
Lo strano viaggiatore rappresenta l'elemento disturbante necessario a rompere la stabilità quotidiana. Da quel momento emerge una diffidenza da parte di Geronimo nei confronti di Carlo, il quale – dal canto suo – non può darsi pace in una simile situazione, che va a riaprire la ferita profonda e mai sanata di quel senso di colpa radicato nell'infanzia, in quel momento in cui ha privato – anche se accidentalmente – il fratellino di uno dei doni più preziosi per l'uomo. Allo stesso modo, Carlo comprende progressivamente che la diffidenza di Geronimo non è esattamente cosa nuova, non è stata causata davvero dalla storia dei venti franchi: al contrario, coincide anch'essa con quello sventurato giorno di tanto tempo prima e, anche se non ne aveva mai parlato apertamente, Geronimo aveva sempre considerato il fratello un ladro che gli aveva rubato la vista.

Carlo arriverà a compromettersi pur di dimostrare a Geronimo la buona fede con cui gli è sempre stato accanto. E' straziante seguire il suo tormento, un tormento che dura da una vita intera, da quando per un gioco andato storto si è macchiato di uno sbaglio per il quale lui per primo non ha mai saputo perdonarsi. Ed è commovente la passione con cui cerca il perdono di questo fratello che pare indifferente ai suoi gesti, questo fratello che da sobrio è di ben poche parole ed il cui atteggiamento sembra voler dire: lascia stare. Il nodo è destinato a sciogliersi, in un finale assolutamente degno ed all'altezza del racconto che ho apprezzato infinitamente.

Geronimo il cieco e suo fratello conta appena una sessantina di pagine, ognuna delle quali vibra d'intensità ed intelligenza. La brevità del racconto non ha affatto impedito a Schnitzler di delineare magistralmente non soltanto i due protagonisti, ma persino l'oste e la cameriera, l'atmosfera della locanda e dei suoi ospiti, di descrivere l'ambiente in cui Carlo e Geronimo abitualmente si muovono; vivissime le descrizioni dei paesaggi, in particolare quelli che i due fratelli percorrono durante la lunga camminata quando decidono frettolosamente di spostarsi. Questo racconto, insomma, è una dimostrazione lampante di come, quando si ha una conoscenza dell'animo umano quale quella evidentemente posseduta da Schnitzler ed un puro e semplice talento nel giocare con le parole, bastano anche poche righe per fare grande letteratura.

Ho scelto di prendere Geronimo il cieco e suo fratello soltanto perché, dopo aver letto Doppio sogno, volevo leggere ancora quest'autore sorprendente, e questo volumetto della Sellerio era disponibile per pochi spiccioli: una buona occasione, dunque, ma mai mi sarei aspettata tanto da un libriccino così sottile. Per leggerlo è sufficiente un'ora di tempo, che vi consiglio vivamente di dedicare a quest'opera, tanto più se non avete ancora mai avuto il piacere di incontrare la prosa di Arthur Schnitzler.

Anna Karénina, Lev Tolstòj

Anna Karénina , Lev Tolstòj, Russia 1875-77 – ma anche qualsiasi altro luogo e tempo dacché esistono l’uomo e la donna. Il commento al rom...