venerdì 29 dicembre 2017

"E' buffo come ogni anno brindiamo al passato, guardando al futuro!"

Ci siamo, è quel momento dell'anno, il momento in cui l'anno finisce e tutti noi - quelli che credono nel potere rigenerante dei nuovi inizi così come quelli che, sfiancati dalle aspettative deluse, si ripetono che dei nuovi numeri sul calendario non faranno alcuna differenza - cadiamo inevitabilmente in tunnel di riflessioni. Ci guardiamo indietro e pensiamo ai trecentosessantacinque giorni andati, soppesiamo i pregi ed i difetti di questa nuova fetta di vita da prendere, spolverare e riporre nella scatola dei ricordi; facciamo bilanci, decidendo se possiamo permetterci di sentirci soddisfatti di noi stessi o ancora una volta delusi da personali insuccessi e mancanze. Poi guardiamo avanti, ai trecentosessantacinque giorni a venire, nuovi di zecca, pagine bianche tutte da scrivere per le quali è difficile - anche per i più disincantati, i più cinici e disillusi - non nutrire aspettative, speranze, o come nel mio caso un fievole senso di positività che mi brilla dentro come il fievole lume di una candela: basta poco per spegnerla però, anche tremula com'è, è lì che rompe il buio e promette un po' di calore.

Credo che il mio Capodanno ci sia già stato ed è stato ieri. Il 28 Dicembre ricorre l'anniversario della mia unione con la persona che da sette anni a questa parte ho avuto al mio fianco. Sette anni cominciano ad essere tanti, il che mi porta a riflettere ben più di quanto potrà mai fare il volgere della mezzanotte del 31 Dicembre. La fine e l'inizio per me c'è stata ieri, quando dopo aver fatto l'amore sono scoppiata in un breve quanto intenso pianto sulla sua spalla: una riconciliazione, un'ammissione di stanchezza, uno sfogo, una resa, una dichiarazione d'amore, una promessa, un disfarsi e ricomporsi, un chiudere delle parentesi, un nuovo inizio senza dimenticare nulla. C'era tutto questo nelle poche lacrime che ho versato, probabilmente anche molto altro. Annetto tosto, eh... ha detto lui accarezzandomi i capelli. Però siamo qui, questo è l'importante.
Già, questo è l'importante. 

Da quel che sento per strada e che leggo su internet il 2017 non è stato un anno di grandi gioie per molti, ed io non faccio eccezione. Ho avuto un brutto incidente che mi ha lasciata a terra con una gamba rotta in più punti, il che mi ha costretta ad affrontare alcune delle mie più grandi fobie: ancora non mi sembra possibile di aver affrontato più analisi del sangue di quante ne avessi mai fatte nella vita, di esser stata quotidianamente attaccata a delle flebo, di esser stata stesa su un tavolo operatorio, di esser stata aperta e suturata come una bambola di pezza. Non sembra proprio possibile che io abbia vissuto ed affrontato tutto ciò, tra un attacco di panico e l'altro prima, durante e dopo. Eppure è successo, ne porto i segni in tre cicatrici e nei dolori e nelle difficoltà che ancora mi accompagnano. Non so tutt'ora dire se questa esperienza mi abbia resa più forte, perché penso che se mi ritrovassi in una situazione simile non avrei affatto meno paura di allora; se c'è qualcosa che questi lunghi e difficilissimi mesi mi hanno dato, beh, è proprio l'avermi stesa immobile, costringendomi a stare ferma e pensare. Senza le mie lunghe camminate con le mie bimbe pelose, le mie giornate frenetiche senza motivo, indaffarata in piccole cose senza senso tanto per illudermi di avere uno scopo... boom, in una frazione di secondo non ho più potuto nascondermi dietro niente e le riflessioni necessarie che ero solita soltanto sfiorare - o rimuginare in loop, facendole diventare stantie e senza mai trarne qualcosa di utile - mi si son parate davanti senza possibilità di fuga. Che cosa sto facendo della mia vita? Non ho un obiettivo, non ho un lavoro, ho ventisei anni, che devo farmene di me? Da dove inizio? Come sono arrivata qui e come ne esco? Ho sofferto molto e più di prima, sentendo di aver sprecato ogni opportunità che mi è stata data, sentendomi un peso per la mia famiglia ed una delusione per chiunque avesse creduto in me. Poi una sera è bastato parlare, con i miei genitori ed il mio fidanzato, e pian piano è nata un'idea che si è trasformata in un progetto serio. Nel 2018 io, il mio fidanzato e le nostre due figlie pelose cambieremo vita. Ci metteremo in una macchina che ancora non abbiamo, carica di valigie qualche scatolone e due pesantissimi sacchi di cibo per cani ed in qualche modo oltrepasseremo i confini di quest'Italia che tanto ci ha dato ma tanto ci ha tolto, e consumeremo chilometri su chilometri diretti all'estremo nord. Verso un appartamento che è denso di bei ricordi ed un catalogo di nuove possibilità inesplorate. Da allora ho passato innumerevoli momenti ad immaginare il nostro viaggio, che sarà sicuramente lungo e complicato, ma inevitabilmente denso di felicità. Solo noi quattro. Un posto nuovo. Nulla da perdere e tutto da costruire. Un po' fa paura ed a certe cose e persone che si lasciano è meglio non pensare. Ma è ora di crescere, e questo è senz'altro il miglior modo.

Ho una storia in un cassetto pronta per essere scritta. Il mio fidanzato accanto, ancora, nonostante tutti i litigi, le incomprensioni ed i momenti brutti; però è il miglior compagno in assoluto per guardare le serie tv, la sera a letto leggiamo insieme - io i miei libri lui i suoi fumetti - con un piede o una gamba intrecciati tanto per sentire l'uno il calore dell'altro, ascolta sempre i miei monologhi su ciò che mi appassiona ed in generale su ciò che ho in testa. Mi appoggia sempre, non mi fa mai pesare nulla, cerca di migliorarsi per me, mi prepara il caffè la mattina, mi fa ridere e mi dice sei bella anche con le occhiaie e il pigiamone. Quindi mi sa che anche se ha qualche difetto, me lo tengo stretto. Ho le mie figlie pelose sempre intorno, che ci rubano tanto tempo e tante energie ma ci rendono felici come non mai in ogni singolo momento, e spero proprio che la nuova vita in cui verranno con noi - seppure le priverà di qualche abitudine - darà loro tutto il buono ed il bello che meritano. Noi ce la metteremo tutta per farle adattare al meglio. Le amiamo più di quanto le parole possano esprimere, in quel modo che solo chi ha lasciato che un cane si prendesse la parte migliore di sé può capire, e se c'è qualcosa di cui non posso smettere di essere grata anche quando le cose vanno malissimo, è proprio l'avere loro, la mia Daphne e la mia Daisy. 
Ho la mia Amica, anche se lontana da qualche mese. Ma passeremo il Capodanno insieme, che non potrebbe quindi essere più bello di così. La distanza non scalfisce di una virgola la forza del nostro legame che è per la vita e soprattutto il saperla finalmente felice insieme alla persona giusta mi rende l'esistenza più leggera e sicura. E poi c'è un'altra amicizia, mai finita del tutto ma rinsaldatasi poco per volta soprattutto negli ultimi mesi. A volte basta avere il coraggio di parlare un po' più a fondo, di riconoscere i propri errori ed ogni volta che è possibile riderci su. Quando ci si ritrova continuamente, anche a distanza di anni e di periodi di silenzio, un motivo c'è. Le persone su cui si può contare nella vita e quelle con le quali si lega davvero secondo me son proprio poche e quelle poche che trovi bisogna avere il buonsenso di non lasciarle andare. 
Ho la mia famiglia, imperfetta come ogni altra famiglia, ma speciale perché è la mia. Ed anche se piena di contraddizioni, problemi, sottili equilibri che forse andrebbero sconvolti ma vengono cautamente preservati, in fondo mi piace e spero che nel nuovo anno nuovi nodi si sciolgano.

Avrei diverse cose da recensire, potrei fare le top ten come i blogger seri, ma la verità è che probabilmente questo è il mio ultimo post del 2017, trovo più giusto che quest'anno vada così, con un po' più di sentimento e rimandando l'impegno a tra qualche giorno.

Che crediate o no nel potere rigenerante del Capodanno, io vi auguro il meglio per 
un felice anno nuovo!

Julia


giovedì 14 dicembre 2017

L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Oliver Sacks

Essere dei lettori, dei collezionisti di libri, dei cultori tanto dell'oggetto-libro quanto del contenuto fa sì che - come ogni categoria di appassionati che si rispetti - tutti noi abbiamo in allegato un bagaglio di elementi caratterizzanti, di stramberie, che al tempo stesso ci accomunano e ci contraddistinguono l'uno dall'altro. Parlo di tutte quelle piccole peculiarità di cui amiamo tanto parlare, sulle quali non smetteremo mai di confrontarci col massimo gusto e divertimento. Orecchie alle pagine: abitudine vissuta con nonchalance o reato perseguibile con la legge? Sottolineare: ammissibile solo a matita, fatto con qualsiasi oggetto scrivente trovato nei paraggi al momento del bisogno, o inconcepibile perché i libri sono qualcosa di sacro che non va sfiorato 'manco con un petalo di rosa? Prestare un libro: sempre ed a chiunque o mai ed a nessun costo? Insomma, ogni lettore ha il suo personale decalogo di principi e valori rigorosamente rispettati, ma ci sono almeno due punti, due fattori che penso ci accomunino veramente tutti, mettendo sulla stessa barca persino quelli che leggono gli eBook ed i lettori che non potrebbero fare a meno dell'odore della carta. Questi due elementi sono 1) il continuare ad acquistare libri anche quando a casa la mole dei libri da leggere ha superato da un pezzo quella dei libri già letti; 2) la mole dei libri ancora da leggere.

Ecco, L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello è sicuramente tra i titoli che hanno trascorso più tempo in attesa sullo scaffale; e se andiamo a guardare anche per quanto tempo l'ho avuto in wishlist prima di acquistarlo, direi che è in generale uno dei libri che da più tempo desideravo leggere. Un signore di tutto rispetto, che può vantare un'anzianità che gli altri libri, pur attendendo il loro turno da anni, possono solo sognarsi. E com'è che proprio adesso mi sono decisa a leggerlo? Beh, semplice: agli inizi di dicembre ho osservato la mia libreria e tirato fuori tutti quei libri che assolutamente volevo aver letto entro la fine dell'anno. Ho avuto compassione per questo veterano Adelphi vestito di blu, ed ho deciso che era proprio ora di incontrarci – e di smetterla di posticipare l'incontro con la scusa che certamente sarebbe accaduto presto.

L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello è uno dei molti testi scritti da Oliver Sacks (1933-2015), neurologo di origine inglese e di fama mondiale, che durante la sua vita fu medico, scrittore e docente universitario tra l'Inghilterra e l'America. Con le sue raccolte di casi clinici Oliver Sacks contribuì a riportare in auge una tradizione molto in voga durante l'Ottocento, ma gradualmente spentasi col progredire della scienza: la narrativa medica. Secondo Sacks, infatti, in materie sì scientifiche ma che hanno pur sempre come soggetto l'essere umano la pura tecnica, la totale razionalità, l'asettico dato biologico non sarà mai sufficiente per comprendere a fondo ciò che si ha davanti. E ciò che si ha davanti in neurologia solitamente è un paziente, ed un paziente è una persona, ed una persona ha sempre una storia che non può esaurirsi nella sua malattia – nel suo deficit o nel suo eccesso neurologico. Un approccio alla scienza ed alla medicina che trovo giusto e che dovrebbe esser condiviso non solo da chi si occupa del cervello, come Sacks, ma da chiunque è preposto dal suo mestiere ad occuparsi dell'altro. Un altro uomo di scienza – da me molto amato – che condivide questa necessità di empatia, di usare sì la tecnologia ma senza escludere del tutto l'aspetto umano è Konrad Lorenz, il quale si è occupato di ogni forma di esseri viventi (tranne gli uomini) e che nei suoi stupendi testi di divulgazione scientifica ha sempre ribadito la stessa cosa: la scienza ed il suo inarrestabile (e mirabile) progresso non deve prevaricare del tutto quella sensibilità che nessun calcolo matematico può dare. Di fronte ad un problema, talvolta è la fantasia, un personalissimo intuito della persona l'unico strumento che possa portare se non sempre ad una soluzione, per lo meno ad una spiegazione.

Non ho la presunzione di essermi fatta un'idea del pensiero di Sacks dalla lettura di un solo suo testo; tuttavia traspare con chiarezza dalle sue parole quanto questo medico-scrittore abbia dato spazio all'umanità, utilizzando la sua per arrivare a quella dei suoi pazienti. Più volte Sacks ci dimostra come i test clinici appositamente studiati e preparati non rivelassero nulla sull'uomo o sulla donna che aveva davanti, e di come invece osservando quegli stessi individui quand'erano in un ambiente naturale, liberi e spontanei, egli abbia potuto assistere ad episodi straordinari, che si rivelavano poi essere la chiave per raggiungere il mondo apparentemente incomprensibile ed inaccessibile di queste persone difettose. Gli articoli sui casi clinici scritti da Sacks son spesso stati rifiutati dalle riviste scientifiche, perché ritenuti troppo 'narrativi', letterari, troppo poco scientifici: mancavano i grafici e le tabelle, dice ironicamente Sacks. Eppure la storia della narrativa medica del passato è ricca ed interessante, e Sacks cita e ricorda in continuazione i suoi maestri: primo fra tutti il russo A.R. Lurija, il padre della moderna neurologia. Ed è sulla scia di opere di quest'ultimo, come Viaggio nella mente dell'uomo che non dimenticava nulla o Un mondo perduto e ritrovato, che Sacks si arma di carta e penna e racconta alcuni dei tanti ed incredibili casi – non meno umani che clinici – incontrati nel corso della sua vita professionale.

L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello è diviso in parti, ognuna dedicata ad un preciso difetto (o eccesso) del cervello. Ogni parte ha una breve introduzione, nella quale Sacks spiega quale parte del cervello è interessata da tali danni, in cosa consistono, cosa comportano, ci offre insomma un quadro generico su cosa affronteremo nelle storie contenute in quella sezione. Abbiamo quindi Perdite – dove oltre allo stranissimo caso dell'uomo che dà il titolo alla raccolta, sono inseriti casi di perdita della memoria e di altre capacità umane che quasi diamo per scontate, ma che quando vengono meno rivelano in modo sconvolgente quanto fossero fondamentali; segue Eccessi, dove sono collezionati tic, manie, l'improvviso manifestarsi di esuberanze e stranezze in persone fino al giorno prima sobrie, meste e tranquille; in Trasporti si parla del comparire, in modo improvviso ed inspiegabile di ricordi consci o inconsci, voluti o indesiderati, sotto forma di visioni o suoni: ci sono qui i casi di due anziane signore che d'improvviso udivano canzoni dimenticate con la stessa chiarezza che se fosse stata una radio a trasmetterle, col guaio però che non potevano più spegnerle, così come c'è anche il caso di uno studente che sotto effetto di droghe aveva ucciso la fidanzata, ma non ricordava assolutamente nulla della violenta azione compiuta finché non ebbe un danno cerebrale causato da un brutto incidente. Si conclude con Il mondo dei semplici, dove Sacks riporta le storie di una manciata di ragazzi ritardati.

I miei capitoli preferiti in assoluto son stati Ray dei mille tic (in Eccessi) e L'artista autistico (Il mondo dei semplici), ma in ognuno dei casi analizzati e riportati da Sacks scienza e narrativa si alternano e si allacciano, col risultato che si imparano un sacco di cose – si sbircia attraverso una minuscola fessura nel cranio, ci si affaccia su quella cosa incredibile e misteriosa e un po' spaventosa, il cervello, che tutti abbiamo nella testa senza effettivamente saperne un accidente. E' affascinante ed al tempo stesso terrificante scoprire quante cose potrebbero andare storte, quante assurdità potrebbero sopravvenire, da un giorno all'altro, a renderci impossibile la vita per come la conosciamo.

Sono sempre stata interessata alla mente umana, ma più per quanto riguarda l'aspetto psicologico (ed al massimo psichiatrico) della faccenda; sinceramente non immaginavo di poter essere così coinvolta anche dalla neurologia, ma probabilmente perché facevo l'errore – come i medici poco graditi a Sacks – di pensarla sotto un aspetto solamente scientifico, freddo e sterile. Dimenticavo il lato umano, dimenticavo la storia dietro una terminologia complicata che definisce un problema.

Con L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello Sacks mi ha aperto un mondo e mi ha accompagnata, tenendomi per mano, durante i primi passi in un nuovo percorso che sarà sicuramente fonte di grandi soddisfazioni. Un percorso che proseguirà sicuramente con gli altri libri di Oliver Sacks, primi fra tutti Risvegli (ampiamente citato dall'autore) e Musicofilia.

E voi, avete mai letto qualcosa di Oliver Sacks?

mercoledì 6 dicembre 2017

Il mulino sulla Floss, George Eliot

Solitamente, quando si vuole parlare di un libro, si comincia col raccontare la trama. E' raccontando il che cosa succede che poi ci vien facile spiegare anche quali riflessioni e sentimenti quelle pagine hanno suscitato in noi e, spesso, la trama costituisce anche il nucleo fondante del romanzo. Esistono poi dei capolavori, come Il mulino sulla Floss, nei quali la trama è niente più che un pretesto per dire ciò che intendevano dire. Il fatto che parli della famiglia Tulliver e della loro disfatta economica a causa dell'avventatezza paterna, non è poi così importante; il classico evento scatenante che fa partire una storia poteva essere questo come qualunque altro, perché ciò che veramente è importante all'interno del romanzo di Geroge Eliot - pseudonimo di Mary Ann Evans - è il personaggio di Maggie. Tutta l'opera ruota attorno a lei, si concentra su ciò che lei significa, all'epoca in cui fu scritto così come ancora oggi. Maggie è il centro assoluto anche quando a stento compare nelle pagine, perché il lettore attento - il lettore che ha voluto comprendere cosa l'autrice stesse cercando di raccontarci - non fa altro che cercarla, sia anche soltanto in uno sguardo che qualcuno le rivolge, in un commento fatto alle sue spalle, nel suo stare in piedi in disparte e persino nelle sue assenze. E sempre, sempre, si continua a sperare che nonostante i venti contrari e la mancanza di cure, ella riesca infine a sbocciare. 

Ma ovviamente non è così, e state tranquilli, non è uno spoiler, anzi trovo che sia piuttosto qualcosa che dovreste sapere prima di approcciarvi alla lettura. Anch'io sapevo che Maggie non ce l'avrebbe fatta, anche se mi restava da scoprire in che senso non aveva speranza di riuscita; il destino d'infelicità di Maggie è qualcosa che si presagisce sin dalle prime pagine, fin da quando lei è soltanto una bimbetta dalla pelle, dagli occhi, dai capelli troppo scuri, contrari al vittoriano canone di bellezza che vuole le figure femminili - piccole o grandi che siano - delicate, angeliche (un termine che ho imparato quasi a detestare), fatte dalla testa ai piedi di colori tenui, bionde e bianche e soavi e leggere, fuori come dentro. Perciò poco importa che Maggie abbia due occhi grandi che si spalancano sulla luce della sua intelligenza, sulla sua fame di conoscere e d'imparare: non ha l'aspetto giusto e per di più i suoi capelli non ne vogliono neanche sapere di farsi arricciare come si deve - né la piccola accetta con pazienza di lasciarsi aggiustare - e l'aspetto - il continuo sottolineare l'erroneità dei suoi tratti scuri - è il primo, banale segnale di come Maggie sia collocata nel posto sbagliato.

Nella parte prima del libro, che racconta l'infanzia di Maggie e di suo fratello maggiore Tom presso il mulino di Dorlcote - appartenente ai Tulliver da generazioni - oltre agli occhi di Maggie, alla sua voglia di leggere pur possedendo ben pochi libri, all'amore ed all'ammirazione per il fratello che gonfiano il suo petto di bimba, ciò che più mi ha colpita è il dualismo di Mr. Tulliver, il padre di Tom e Maggie, il quale da un lato si entusiasma per l'intelligenza di sua figlia e l'orgoglio paterno non può far a meno di irrompere nelle sue parole quando parla di lei - o di ridere per qualcosa di sconveniente che la piccola ha fatto per difendersi dalle critiche della madre e delle zie, che mai smettono di perseguitarla; Mr. Tulliver ammira Maggie con l'interesse e la soddisfazione con la quale ci si gusta un'opera ben riuscita, eppure è un uomo che non supera neanche di un passo la mentalità dei suoi tempi, e dice spesso cose come questa:
"Mi sembra un po' peccato, però" disse Mr. Tulliver "che sia il ragazzo ad aver preso dalla parte di sua madre, invece che la piccina. E' questo il peggior guaio dell'incrocio di razze: non si può mai calcolar giusto cosa verrà fuori. La bambinetta tiene da me, intanto: è il doppio più sveglia che Tom. Troppo sveglia per una donna, ho paura" continuò Mr. Tulliver, scotendo dubbiosamente il capo prima da una parte poi dall'altra. "Non è un gran male fintanto ch'è piccolina, ma una donna troppo sveglia non val più che una pecora dalla coda lunga: non crescerà di prezzo per questo"
Oppure questa:
"Capisce tutto quello che si dice, che l'eguale non s'è mai vista. E la sentiste leggere: correntemente, come se sapesse già tutto prima. E' sempre sui libri! Ma questo è un male... un male" soggiunse con tristezza, reprimendo quel suo biasimevole entusiasmo; "è inutile che una donna sia tanto intelligente; non può portarle che dei fastidi, ho paura. Ma, Dio la benedica!" e qui l'entusiasmo stava evidentemente riprendendo il sopravvento "lei può leggere i libri e capirli meglio che quasi tutte le persone grandi".
 Ecco il quadro entro il quale s'inserisce la figura di Maggie, figura unica, fragile, a mio avviso soffocata. Maggie è come un uccello cui sin dal momento in cui esce dall'uovo vengano legate le ali, cosicché pur avendo in sé l'inevitabile premessa (e promessa) che un giorno volerà, l'esperienza del volo non potrà neanche venirgli in mente e, chissà, forse gli sembrerà addirittura sbagliata. Non a caso Anna Luisa Zazo nell'introduzione riporta un'espressione di Antoine de Saint-Exupéry, il celebre padre de Il piccolo principe, il quale definì le conseguenze della miseria che impedisce agli esseri umani di sviluppare le loro potenzialità come Mozart assassinato: un bambino che avrebbe in sé la natura di Mozart ma non diventerà mai Mozart perché la miseria glielo impedirà, e dunque in quel bambino Mozart viene assassinato.

Questo è esattamente ciò che accade a Maggie, sebbene il suo assassino non sia la miseria (nonostante anche lei, così come il fratello ed i genitori, dovrà affrontare un grave rovescio di fortuna) quanto invece la società in cui vive: Maggie è una donna in una società di uomini e la sua autenticità femminile è al tempo stesso la sua forza e la sua condanna. Maggie è dotata di un animo grande, sensibile alla bellezza dell'arte e della cultura, ma anche immensamente bisognoso di affetto, di amore, un bisogno che per tutta la vita verrà solamente frustrato.

A dimostrazione che Maggie è una donna in un mondo di uomini, la sua esistenza sembra essere scandita dalle figure maschili: il padre, il fratello Tom, Philip, Stephen. Uomini per i quali Maggie proverà forme diverse ma altrettanto importanti di amore, e che a loro volta la ameranno senza però mai saperla proteggere e difendere davvero.

Mr. Tulliver, come abbiamo visto, esalta e mortifica lo spirito di Maggie in egual misura; la ama e la protegge dalle lingue lunghe delle donne di famiglia, ma troppo presto il sostegno che poteva ricavare dalla figura paterna le vien meno, quando guai legali ed economici prenderanno il totale sopravvento sulle giornate di Mr. Tulliver e quasi non si curerà più della sua piccina: diventerà Tom, a quel punto, il figlio prediletto, perché in quanto uomo potrà farsi strada nel mondo e risanare il nome e l'onore dei Tulliver - al contrario di Maggie, che nulla può e nulla conta.
E poi abbiamo Tom che, sin da quando erano bambini, non ha mai ricambiato Maggie con la stessa tenerezza che lei gli riservava anche quando non l'avrebbe meritato. Tom si è sempre eretto e creduto un modello di rettitudine, al contrario di Maggie che non aveva mai fatto altro che sbagliare e rovinare tutto; il suo amore di fratello si dimostra con durezza, con il voler dare l'esempio a quella sorella femmina incapace di esercitare la forza di volontà sullo scellerato sentire e che, secondo lui, dovrebbe limitarsi a sottomettersi ed obbedire a chi, come lui, può fare qualcosa di concreto.

Philip è forse l'unico che ha realmente compreso la natura di Maggie, che ha scoperto la sua curiosità ed il suo smisurato desiderio di conoscere, il suo amore per i libri e la vivacità nascosta, schiacciata dai doveri; ma Philip è il figlio gobbo dell'acerrimo nemico di Mr. Tulliver, l'avvocato Wakem, un rancore di famiglia trasmesso di padre in figlio, cosicché Maggie sarà frenata dal legarsi al giovane Philip tanto dal rispetto per le volontà paterne, quanto dalla prepotenza del fratello. Tuttavia non so dire quanto il sentimento di Maggie verso Philip sia semplice affetto e riconoscenza, e quanto vero amore. Non è un caso, però, se l'autrice attribuisce all'unico uomo capace di amare Maggie per ciò che realmente è, una sensibilità femminile, dovuta all'esperienza di Philip che, a causa della sua deformità, ha trascorso una vita solitaria, decisamente più contemplativa che attiva, dedita all'arte che è al tempo stesso rifugio, salvezza ed espressione di sé. Con Philip, Maggie può tirar fuori il Mozart assassinato che ancora esiste dentro di lei, ma è un rapporto senza futuro e dunque ancora una volta - più volte, anzi - l'animo più vivo di Maggie verrà messo a tacere.
Infine c'è Stephen, che costituirà l'ultima e più ardua prova per Maggie, una lotta interiore tra la propria felicità e quella degli altri: la verità, però, è che a Maggie non viene mai data una vera e propria scelta. Stephen, come tutti gli altri uomini nella vita di Maggie, non fa altro che decidere per lei, senza pensare che Maggie abbia tutto il diritto di decidere da sola della propria vita.

Ma - mi chiederete forse voi - Maggie è proprio l'unica altra donna in questa società di uomini? Ovviamente no, nel senso che altre figure femminili s'incontrano in queste pagine; sì, o quasi, se intendiamo Donna nel vero senso del termine, donna con un carattere, una personalità, con un'interiorità complessa e tormentata. Le altre figure femminili sono donne da salotto, i cui argomenti non si spingono oltre le mura domestiche ed i pettegolezzi di paese. 
Le uniche eccezioni sono forse Mrs. Moss, unica zia paterna, che compare poco ed è una donna sovraccaricata da troppi bambini, troppo lavoro e pochi soldi, ma al di là del suo aspetto povero e stanco si percepisce una solidità molto più vicina a Maggie, e non è un caso se quest'ultima preferisce la zia Moss a tutte le fastidiose ed insulse zie materne.
Soprattutto però l'eccezione è Lucy, la cugina di Maggie a lei contrapposta sin dall'infanzia tanto per l'aspetto quanto per il temperamento: tanto Maggie è scura, quanto Lucy è chiara; tanto Maggie è discola, quanto Lucy è una bimba buona ed educata. Le ritroviamo insieme quando sono ormai delle giovani adulte e sebbene Lucy si faccia apprezzare per la sua dolcezza, la sua generosità e per quell'allegria spensierata assolutamente giusta alla sua età (e che Maggie non ha mai potuto conoscere) non si può riconoscere in lei una pari della nostra protagonista. Nonostante questo, quando tutto va a rotoli Lucy è l'unica capace di superare i pregiudizi e, nonostante avrebbe avuto tutto il diritto di sentirsi tradita dalla cugina, è proprio lei l'unica capace di crederle e di perdonarla.

Un'altra cosa viene senz'altro da chiedersi visto quanto si è detto, ovvero se Maggie sia una donna che combatte, che si ribella a tutto questo o se semplicemente si arrende. Dal mio punto di vista, questa è una questione spinosa che potrebbe essere interpretata in maniere differenti; io non ho assolutamente visto Maggie come un personaggio arrendevole, purtroppo però lei combatte non contro chi la soffoca bensì contro se stessa: gli aguzzini del suo animo sono infatti sempre persone che lei ama con tutta se stessa, primo fra tutti il fratello Tom. E dunque Maggie non si sognerebbe mai di ferire con le proprie azioni le persone che per lei sono tutto, e per questo si condanna, credendosi lei quella incapace di dominarsi e di fare ciò che è giusto. Maggie si sente in colpa tutta la vita - quando da bambina causa qualche dispiacere a Tom e lui non le dà mai il sollievo del perdono, quando a causa dei problemi economici della famiglia lei non può far altro che lasciarsi scorrere il tempo addosso in casa e qualche volta prova della rabbia per tutto quel vuoto e subito se la prende con se stessa per essere così egoista, quando i genitori son tanto più disperati di lei; quando vorrebbe tanto accettare e proseguire l'amicizia con Philip Wakem, ma con questo farebbe un immenso torto al padre ed al fratello; quando vorrebbe gioire delle attenzioni di Stephen, ma questo cagionerebbe il dolore sia di Philip che di Lucy; per tutto questo, Maggie sempre si sente in colpa.

Maggie conduce allora la sua lotta con l'unica arma che le sembra di possedere: la rinuncia. Di volta in volta, rinuncia a ciò che vorrebbe per il bene di chi tanto ama, senza che questi solitamente si rendano conto del suo sacrificio, né tanto meno da tali rinunce Maggie ottiene  qualcosa in cambio. Rinuncia a Philip, rinuncia a Stephen, più di una volta rinuncia persino a sfamare la sua mente, smettendo di leggere e smettendo di sognare. Quando la lettura torna a far breccia nelle sue giornate, è come se la porta su un'esistenza migliore si spalancasse, una visione che le rende insopportabile il suo presente e le fa sentire quasi che sarebbe meglio evitare di spalancare quella porta. Nel corso della sua vita, Maggie tenta più volte di annullarsi, nella speranza di smettere di far soffrire le persone a cui vuol bene, e di smettere di sentirsi così tormentata. E' Philip che ogni volta che la incontra tenta di dissuaderla da questo folle ed ingiusto proposito, ma Philip da solo non basta a combattere la mentalità di un'intera epoca e fetta di società. 

La disperazione di Maggie arriverà ad una tale portata, che persino uno spirito vivo come il suo quasi coverà un desiderio di morte, nella quale quel tormento che mai l'ha lasciata libera cesserà infine di stringerla in quella morsa fatale nella quale sempre è vissuta. Ma in un certo senso, Maggie è già morta, perché il Mozart è stato lentamente assassinato.

George Eliot, pseudonimo di Mary Ann Evans, pubblicò Il mulino sulla Floss nel 1860, creando con la figura di Maggie un'eroina (o forse dovremmo dire un'anti-eroina?) letteraria senza precedenti e probabilmente senza successivi eguali. A lungo le analisi dell'opera si sono soffermate su questioni sì interessanti, ma che a noi paiono del tutto in secondo piano rispetto al valore femminista del romanzo, sebbene nessuno gli abbia attribuito tale significato per molto, molto tempo; d'altronde, all'epoca furono in molti a voler vedere nella storia de Il mulino sulla Floss la condanna di un personaggio come Maggie - interpretazione rassicurante, per le convenzioni vittoriane - senza comprendere a chi o cosa la condanna fosse effettivamente rivolta.

Vi ho parlato soltanto di Maggie perché, come detto all'inizio, lei è il centro assoluto dell'opera, ma il talento assoluto di George Eliot ha creato dei personaggi a tutto tondo anche nei comprimari, primo fra tutti Tom, la cui indagine psicologica e la cui crescita - che all'inizio seguiamo da vicino, passando assieme a lui gli anni di scuola - è così dettagliata, sottile che quasi impariamo a prevedere le sue azioni, tanto lo conosciamo bene. E se da una parte non possiamo tollerarlo per come calpesta senza ritegno la sorella, dall'altra dobbiamo necessariamente sostenerlo ed ammirarlo per il modo in cui, mettendosi in spalla tutti gli errori paterni, sin da giovane si rimbocca le maniche e lotta per rimediare, costruirsi un futuro avulso da macchie cagionate da altri e restaurare una serenità familiare. 
I parenti, presenti in larga misura (sopratutto quelli materni, il clan dei Dodson), sono squisiti stereotipi, difetti ed eccessi della vastissima realtà umana.

Non era facile, a quell'epoca, farsi notare nella scena letteraria inglese, perché erano gli anni di Dickens, di Collins, di Thackerary, di Elizabeth Gaskell; eppure le opere di George Eliot non solo riuscirono ad attirare l'attenzione, ma riscossero lo stesso successo dei suoi colleghi. E non mi stupisce, perché nella penna della Eliot ho trovato quasi qualcosa che supera tutti loro: c'è un senso di universalità dentro questo romanzo che è difficile da spiegare, quel che dice e come lo dice in qualche modo non ha mai smesso di essere vero e noi, donne e uomini della modernità, ce ne rendiamo conto dal primo rigo.

Ora so che si parla troppo poco di George Eliot e si parla troppo poco de Il mulino sulla Floss, un po' in ombra rispetto al successivo Middlemarch (c'è bisogno che io dica quanto desidero procurarmelo e leggerlo al più presto?). Per me, nonostante tutto, è stata una lettura scorrevole, dalla quale nonostante i caratteri minuscoli e la densità delle pagine non avrei mai voluto staccarmi; è stata una lettura impegnativa, semmai, dal punto di vista emotivo, perché Il mulino sulla Floss è in fin dei conti una lenta ed inesauribile tragedia, che ti risucchia e ti mastica e ti sputa e ti calpesta esattamente come accade ai sogni di Maggie. Nonostante questo, c'è tanta bellezza dentro, la bellezza che è propria dell'arte e che sta all'osservatore saper cogliere.

Non è un mistero che la letteratura inglese sia tra quelle maggiormente in grado di appassionarmi. Se vi chiedete il perché, provate a leggere Il mulino sulla Floss, poi ne parliamo.

A presto

domenica 3 dicembre 2017

Stranger Things: perché non ne avevo parlato prima e la mia opinione sulla seconda stagione // Girlboss I

Come già saprete, sto leggendo Il mulino sulla Floss di George Eliot, romanzo di 630 pagine fitte fitte, impegnativo non solo per la mole ma anche per la quantità di "carne al fuoco", per così dire; fortuna che si è rivelata sin da subito una storia più appassionante persino di quanto mi aspettassi (e le aspettative a questo giro erano altissime) ed ora che mi avvicino a concluderlo penso che queste ultime duecento pagine circa avranno ancora moltissimo da dirmi. Fatto sta che per dedicarmi alla recensione di questo libro - che, vi avverto, sarà lunga quanto il romanzo stesso credo! - c'è da aspettare ancora un po', perciò ne approfitto per dire la mia su due serie tv delle quali non vi avevo ancora parlato.

Cominciamo dalla più impegnativa (e conosciuta): Stranger Things. Come penso la maggior parte di voi, ho iniziato a seguire questa serie l'anno scorso, appena uscita, e la prima stagione mi ha coinvolta, appassionata, stregata, colpita e affondata; se non me ne avete mai sentito parlare qui sul blog, ciò dipende soltanto dal fatto che ne avevano parlato in talmente tanti - ed alcuni in maniera così brillante ed esaustiva! - che non sentivo di aver molto da aggiungere a quanto si poteva leggere un po' ovunque in giro sul web. Come praticamente chiunque altro, ho amato ogni dettaglio della prima stagione di Stranger Things: l'ambientazione spaziale e temporale, la colonna sonora, le citazioni, il fantastico che entra e scombussola l'ordinario e - soprattutto - i protagonisti.

Per i pochissimi che ancora non sapessero nulla di Stranger Things, si tratta di una serie ambientata nei magnifici anni '80, nella piccola e tranquilla cittadina di Hawkins, Indiana, ed i protagonisti sono quattro ragazzini nerd, amici per la pelle, che amano la scienza, giocano a Dungeons & Dragons e si tengono costantemente in contatto con i walkie-talkie; le loro vite - e quelle di coloro che li circondano - vengono sconvolte quando un membro del loro gruppo - Will - scompare improvvisamente. Ci sarà la ricerca dalle tinte più ufficiali (almeno inizialmente) - quella condotta dal poliziotto Hopper - e la ricerca degli amici di Will - Mike, Dustin e Lucas - i quali incontreranno anche una strana ragazzina dotata di qualche potere speciale e ben disposta ad aiutarli, ovvero la nostra beniamina Eleven.

Questa in soldoni potrebbe essere la trama, ma chi l'ha visto sa bene quanto di più c'è da scoprire e da amare in Stranger Things. Qui, più che fare una vera e propria recensione (che non mi sono sentita in grado di fare in passato e non mi sento all'altezza di fare adesso), volevo piuttosto togliermi qualche sassolino dalla scarpa perché, mentre nella prima stagione non sarei riuscita a trovare un difetto neanche a cercarlo con la lente d'ingrandimento, la seconda non ha soddisfatto del tutto le mie aspettative. Attenzione, non sto dicendo che non mi sia piaciuta, perché tutti gli elementi più importanti che ci hanno tanto appassionati nella prima stagione, li ritroviamo pari pari anche nella seconda, perciò è impossibile non divorare una puntata dopo l'altra; tuttavia ci sono state cose che non mi sono piaciute, e vi spiego quali:
- uno degli elementi che mi ha fatto tanto amare Stranger Things è stata la coesione dei nostri piccoli fantastici quattro. Will, Mike, Dustin e Lucas sono inseparabili, sono uniti nonostante siano molto diversi tra loro e nella prima stagione - a parte Will che ovviamente è per la maggior parte del tempo intrappolato nell'upside down - li vediamo costantemente insieme a lavorare per raggiungere l'obiettivo di scoprire cosa sia accaduto al loro amico; nella seconda stagione, invece, li vediamo per la maggior parte del tempo divisi: Will e Mike da una parte, Dustin e Lucas dall'altra e spesso ognuno per i fatti suoi. Ciò dipende dai vari filoni narrativi della storia, certo, ma mi è mancato il quartetto unito, mi è mancato vederli collaborare tutti insieme.

Ecco il genere di cose che fanno quando si trovano insieme,
capite ora cosa intendo?!

- L'episodio sette. Okay, non è brutto, ma mi spiegate a cosa serviva?! Passi la ricerca della madre di Eleven ed il flashback sulla sua storia - quello mi è piaciuto ed è stato interessante da scoprire, oltre che molto ben costruito - ma l'utilità di sua "sorella" Eight? Eight e la sua piccola gang di malviventi vendicativi proprio non mi è piaciuta, aveva sfumature scontatissime che cozzano tantissimo con l'assoluta originalità che permea ogni dettaglio di Stranger Things ed a meno che Eight non tornerà nella prossima stagione con un ruolo più significativo, potevamo veramente farne a meno. Tra l'altro, durante tutto l'episodio non ho potuto fare a meno di pensare "ma dannazione El! A casa sta succedendo il finimondo, che cavolo stai facendo qui, torna dagli altri!!".

Eight insegna ad Eleven cose che sapeva già fare

- I due nuovi personaggi, Max e suo fratello. Anche in questo caso, non è che proprio non mi siano piaciuti ma mi è sembrata un'aggiunta un po' superflua o forse poco approfondita, non lo so. Tralasciando che il fratello di Max è uno dei personaggi più irritanti mai comparsi sulle scene - ma questo perché l'attore è veramente bravo nell'interpretazione di questo bulletto narcisistico e prepotente - che mi ha dato fastidio ogni volta che compariva, mi aspettavo qualcosa in più anche da loro appena introdotti ed invece c'è stato qualcosa di questi due nuovi personaggi che mi ha lasciato insoddisfatta.

Max e il suo simpaticissimo fratellastro >_>


Veniamo invece ai motivi per cui la seconda stagione di Stranger Things merita ancora un grandissimo SI: 


1. Winona Ryder. Eh sì, lei ormai si è talmente calata nel ruolo di Joyce, la madre di Will e Jonathan, che diventa difficile pensarla al di fuori del personaggio. Anche in questa seconda stagione Joyce è una madre coraggiosa, un po' (comprensibilmente) apprensiva, ma pronta a combattere contro qualunque forza umana o meno che metta in pericolo i suoi figli. Intelligente, fiera e mai arrendevole: nella sua imperfezione Joyce è un personaggio tutto da ammirare e l'interpretazione di Winona Ryder ne fa veramente un'icona.

Joyce, la miglior madre scapestrata di sempre! 

2. I personaggi adolescenti, ed il riscatto (almeno tra gli spettatori) del povero Steve. Non so voi, ma io già nella prima stagione mi ero affezionata a Jonathan ed a Nancy, mentre credo nessuno tifasse per Steve; in questa seconda stagione Nancy e Jonathan si trovano a passare più tempo da soli e personalmente mi sono divertita un sacco per come si è evoluto il loro rapporto. Mentre Steve già risulta molto più buono ed innocuo dal confronto col nuovo galletto del pollaio (il fratellastro di Max), inoltre si rivela più maturo, disponibile, ben predisposto e simpatico di quanto ci aspettassimo. E' giusto che Nancy faccia coppia con Jonathan, sono senz'altro meglio assortiti ed è così che doveva andare, ma per il resto #teamsteve

Scegli la tua pettinatura preferita: digita A per votare Jonathan,
digita B per votare Steve

3. Eleven, Eleven, Eleven, Eleven!!! Chi è a questo mondo che non è assolutamente pazzo per Eleven, per il suo sguardo talvolta dolce e talvolta capace di distruggere, per la sua purezza ed il suo credere fermamente che gli amici non mentono, per il suo modo d'imparare e non dimenticare mai, per la sua fissa per gli Eggo's, la sua testolina ricciuta e quell'ormai leggendaria gocciolina di sangue che cola dal naso? Alzate la mano se, come me, presagite la conquista di Hollywood da parte della talentuosissima Millie Bobby Brown!

La amiamo in tutte le salse!

4. Dustin. E ho detto tutto. Cioè, basta guardarlo:

L'immagine è della prima stagione, ma è irresistibile *-*

5. Il rapporto tra Eleven ed Hopper, complicato quanto qualsiasi vera relazione padre-figlia (okay, forse un pochetto di più visto che se la metti in punizione può farti esplodere la casa, lol); la puntata con il richiamo a Ghostbusters (che incalcolabile gioia per gli occhi e per il cuore!), l'episodio finale (Nancy ha acquisito ancora più punti per aver fatto spuntare quel bel sorrisone al nostro Dustin!) e, tra i nuovi personaggi, sicuramente una menzione d'onore va a Bob Newby, il più comune dei supereroi.

Per concludere questa parte dedicata a Stranger Things, io propongo di unirci per aiutare il povero Jonathan: mai una volta che torni a casa e trovi, che ne so, la tavola apparecchiata con la madre che prepara la cena e il fratello che gioca in camera. Tra luci che si accendono da sole, i demogorgon e le pareti ricoperte di inquietanti disegni incomprensibili io non so con quale sentimento questo povero ragazzo torni ogni volta a casa.

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Cambiamo totalmente atmosfera con Girlboss, scanzonata comedy che racconta la personale battaglia e la rivincita di Sophia, partendo dalla sua condizione zero. Sophia è infatti una ragazza di ventitré anni che, come tantissime altre persone alla sua età, non ha ancora una chiara visione del proprio futuro. Ma che dico chiara visione, non ne ha neanche la più pallida idea! Figlia unica di un padre rigido e concreto - interpretato da Dean Norris, l'agente Hank Schrader per gli affezionati di Breaking Bad - e con una vita sociale che si riassume nella migliore amica Annie, Sophia salta da un lavoro provvisorio all'altro, vive in un appartamento molto carino ma dove sembra costantemente esser passato un ciclone, ed è sicura soltanto di una cosa: crescere è noioso, gli adulti sono tristi e lei non vuole piegarsi ad una fine monotona, insoddisfacente e del tutto prevedibile.

Sophia ha dalla sua un talento, ossia un intuito infallibile per la moda, per lo stile, per ciò che sembra brutto e potrebbe invece essere di tendenza. Tutto comincia con una giacca di pelle trovata in un negozio di abiti vintage, che messa all'asta su eBay le frutta in un paio di giorni un bel gruzzoletto. Da qui, l'idea, l'inizio della costante ricerca di abiti smessi ed all'apparenza improponibili che lei, forbici alla mano e sguardo visionario, trasforma in ciò che ogni ragazza vorrebbe addosso per essere unica e diversa da tutte le altre; così il negozio su eBay di Sophia diventa presto uno dei più popolari, e lei dovrà vedersela con l'invidia ed i boicottaggi di un intero forum di specialisti (e puristi) del settore vintage, coi quali si scontrerà dentro e fuori dallo schermo. Il suo appartamento verrà invaso da appendiabiti, scatole, una quantità di stoffa che nessun armadio potrebbe contenere e Sophia capisce che è il momento di dare alla sua attività la professionalità che coi numeri ha di fatto raggiunto e quindi deve lottare per dimostrare a chi ancora non crede in lei - a chi ancora la vede come una ragazzina che presto potrebbe stancarsi di quel suo nuovo gioco - di esser invece diventata una donna d'affari sulla quale vale la pena scommettere.

Ammetto che inizialmente non avrei scommesso molto su questa serie, l'ho iniziata con quel pizzico di curiosità e la voglia di guardare una commedia leggera, ma durante i primi episodi il personaggio - interpretato da Britt Robertson - mi sembrava veramente troppo scontato e vagamente infantile, con quella ribellione contro la società e l'ineluttabile destino di finire incastrati in un lavoro mediocre ed uguale a tutti gli altri; cose che tutti abbiamo pensato da adolescenti, quando ci brillavano gli occhi seguendo il frenetico monologo iniziale di Trainspotting. Però va a finire che tutti cresciamo ed a meno che non rientriamo tra i pochi fortunatissimi che riescono a seguire i propri sogni ed a fare dei propri sogni il proprio lavoro, il meglio che ci può capire è un'occupazione che ci dia di che vivere ed il tempo per dedicarsi alle nostre passioni al di fuori di esso; o forse sono soltanto io che sono diventata già troppo cinica. Comunque sia, il personaggio di Sophia Marlowe mi suscitava una dose di simpatia che non potevo far a meno di provare e per questo ho proseguito fiduciosa la visione, dovendo per forza ricredermi davanti alla sua faccia tosta, le sue capacità imprenditoriali e la sua determinazione. Mi sono persino emozionata per le sue vittorie, che le consentono di dare degli schiaffi morali a chi non pensava ce la potesse fare. E poi ci sono certi momenti di inno al girlpower cui proprio non si può restare indifferenti.

Sophia & Annie 
Parallelamente all'ascesa imprenditoriale di Sophia, viene raccontata anche - ovviamente - qualche vicenda della sua vita privata, come la relazione con un manager musicale e soprattutto il rapporto con la sua migliore amica. Una delle puntate che ho apprezzato di più, è quella in cui viene raccontato il loro primo incontro ed i momenti salienti della loro amicizia, una puntata che mi ha coinvolta senza riserve, ma forse solo perché ho la fortuna di poter vantare un'amicizia altrettanto salda e imperitura, e Sophia ed Annie un po' mi ricordavano il mio legame con la mia migliore amica.

Vita lavorativa e vita privata s'incontrano e si scontrano e non sempre è facile farle andare d'accordo, o essere presente in entrambe o non scontentare nessuno. Anche nei momenti in cui è ovvio che Sophia stia commettendo degli errori, la comprendevo in pieno, perché dev'esserci qualche lato del mio carattere che le somiglia. Sophia Marlowe, ventitrè anni, dalle stalle alle stelle, dall'essere una quasi-adulta senza direzione a regina di un impero, questa in soldoni la parabola raccontata da Girlboss; però è anche una storia di formazione, Sophia infatti per arrivare dov'è deve crescere, perché in qualunque modo tu decida di farlo crescere è inevitabile.

Sophia Amoruso, la vera "girlboss"
Girlboss è tratto dal romanzo autobiografico di Sophia Amoruso, la vera "girlboss", la quale a ventitré anni fondò veramente un impero partendo da un piccolo negozio online di vestiti vintage; una fiaba che però ha avuto un esito amaro, visto che nel 2016 il suo negozio ha dichiarato bancarotta.
Netflix ha cancellato Girlboss, non ci sarà pertanto da attendere una seconda stagione, ma a mio avviso questo non deve assolutamente fermarvi dal guardare questa serie, se vi incuriosisce, perché già prima di sapere che non sarebbe stato rinnovato, trovavo che Girlboss fosse una serie perfettamente autoconclusiva. L'ultimo episodio non lascia proprio niente in sospeso né trovo che ci fosse bisogno di sapere altro sulla storia di Sophia; come ha scritto il mensile Vanity Fair, forse ci sarebbe qualcosa da raccontare sugli ultimi anni di attività della Amoruso, ma non si tratterebbe certo di una comedy.

Bene, come mio solito mi sono dilungata parecchio, spero non vi manchi la voglia di leggervi questi papiri e, come al solito, son curiosa di conoscere i vostri pareri nei commenti.

Vi auguro una buona conclusione al vostro fine settimana ed a presto!



giovedì 30 novembre 2017

Blogger Recognition Award

Amici e amiche, lettori e lettrici (nb: da leggersi in tono austero e solenne)
mi trovo qui oggi commossa ed emozionata, perché ancora una volta qualcuno ha trovato che questo mio piccolo spazio intellettual-cultural-personale fosse degno e meritevole non solo d'attenzione ma di altresì venir premiato con un titolo che nel circondario della nostra amata blogosfera può esser paragonato all'ambita statuetta dell'Oscar (giusto perché non voglio spingermi a scomodare il signor Nobel). Ebbene, è con le lacrime agli occhi e fazzoletto alla mano che accolgo con orgoglio e sentita riconoscenza il celebre Blogger Recognition Award, consegnatomi dalla collega ed amica Duille, combattiva condottiera di Steli d'erba - Il mondo sotto il pavimento e dalla cara Federica, voce ed anima di Ci provo gusto alle avventure.
Cari amici e amiche, lettori e lettrici, è meglio ch'io proceda senza ulteriori indugi allo svolgimento delle regole previste da questo giuoco - dal momento che, si sa, ogni grande onore s'accompagna a grandi responsabilità - prima che l'emozione abbia il sopravvento e mi costringa a lasciare prematuramente questa scena.

Ed ora, data la giusta veste alla situazione, posso finalmente liberare i capelli dall'intricata e scomoda acconciatura, gettare su una sedia i guanti di seta e l'abito tanto scomodo quanto prezioso, alleggerirmi di gioielli e maniere impeccabili, e tornare alla mia natura trasandata e scanzonata: Grande Camicia dalle tre C (calda, comoda, confortevole), occhiali da battaglia e chioma allestita in una crocchia (che adesso per farla sembrare qualcosa di chic si chiama "bun" o "top knot") e sono pronta a rispondere a tutte le ardue domande proposte dal Blogger Recognition Award, che Duille ha ingegnosamente ribattezzato BRA (in inglese = reggiseno, LOL).




1. Ringraziare il blogger che ti ha nominato ed inserire il link al suo blog.

Ho inserito i link all'inizio del post, ti prego perdonami sommo BRA se ho anticipato i tempi! Quanto ai ringraziamenti, non c'era neanche bisogno che tu, magnifico BRA, me lo imponessi tra le regole, perché ringraziare qualcuno che apprezza questo mio spazio e lo dimostra assegnandomi un premio, non solo è il minimo segno di riconoscenza e buona educazione, ma sarebbe anche stata la prima cosa che avrei scritto di mia spontanea volontà. Entrando nel dettaglio, credo che ormai anche in qualunque universo parallelo si sappia quanto mi piace il blog di Duille - e di conseguenza, Duille stessa, perché i suoi post, a prescindere di qualunque cosa parli, traboccano di personalità; lei è una di quelle persone speciali che sanno ricavare un racconto avvincente da una banalità qualsiasi, da quelle cose che un po' a tutti capitano tutti i giorni ma che non tutti sanno trasformare in una storia. Inoltre, anche quando affronta temi seri o recensisce (egregiamente) un'opera, non manca mai quella irresistibile dose di ironia che alleggerisce il peso dell'esistenza. Se non vi siete ancora uniti ai suoi lettori - al suo esercito di mostriciattoli nascosti sotto il pavimento - mi chiedo proprio cosa state facendo. Disclaimer: Duille non mi ha pagata, tutto ciò che ho scritto è pienamente pensato e sentito, passo e chiudo. Grazie infinite per avermi premiata!

Dopo aver scritto un intero paragrafo intessuto di lodi nei confronti di Duille, mi vergogno un po' nel trovarmi invece a corto di informazioni riguardo l'autrice di Ci provo gusto alle avventure... non mi piace fingere e non vorrei dispensare apprezzamenti inventati ad hoc per l'occasione, perché la verità è che sono capitata sul suo blog in passato - forse sempre in occasione di un premio o di un tag - ma non ho avuto l'accortezza di iscrivermi ai lettori: Federica (e spero tanto che almeno il nome sia giusto!) puoi perdonarmi?! Prometto che stavolta mi iscrivo ed inizierò a seguire le tue avventure! E spero che anche tu, da lettrice "silenziosa" del mio blog quale devi essere, interverrai più spesso lasciandomi una tua opinione sotto i post, così da iniziare a conoscerti :) intanto grazie mille per avermi ritenuta meritevole di questo premio!

2. Scrivere un post per mostrare il proprio riconoscimento.

Ma, onorevole BRA, non è esattamente ciò che sto facendo?! Va beh, ovviamente s'intende riconoscimento verso i propri lettori, i propri seguaci, i propri adepti... (ops, il BRA mi ha appena ammonita, dice che sto esagerando, tsk, quanto è severo). In effetti non capita spesso di ringraziare apertamente chi ha deciso di unirsi agli iscritti, almeno non a me, perché quando mi è venuto in mente di farlo ho sempre temuto di far la figura della lecchina, per dirla con un alto francesismo. Ma do un immenso valore ad ognuno di voi, anche a chi non conosco perché magari mi legge senza mai commentare: ad ogni singola persona che ogni tanto ha deciso di spendere il suo tempo leggendo ciò che scrivo: grazie di cuore! Doppio grazie a chi spende il doppio del suo tempo commentando anche ciò che scrivo. Questo spazio è diventato molto importante per me, e questo dipende anche dal riscontro che ho avuto, dallo scambio di opinioni che si crea grazie ai vostri commenti. In passato ho avuto e chiuso ben più di un blog e se Tanto non importa non ha fatto la stessa triste fine credo che in gran parte sia dovuto anche alle anime belle che ho trovato.

3. Raccontare la nascita del proprio blog.

Una sera avevo voglia di scrivere su internet, così sono andata sulla pagina di blogger, ho scritto la prima frase che mi passava per la testa come titolo e di getto ho pubblicato il primo post. Fine. Vi sembra strano? Eh, sì, lo so, ho letto tante belle storie in risposta a questa domanda, che parlano di un lungo periodo di riflessione e progettazione, di insicurezze, di sfide con se stessi... Io no, per me è stato semplice. La verità è che ho familiarità col blogging da quando avevo tredici anni. Scrivevo su Splinder, una povera piattaforma che non esiste più, e che è stata teatro dei miei drammi adolescenziali: dai tredici ai diciassette anni circa ho imperversato con i miei post, su due diversi blog di cui vi risparmio i titoli; non ne ho tenuti due contemporaneamente, ho abbandonato il primo quando mi sentivo troppo cresciuta per restare lì, nel quale non riuscivo più a riconoscermi. Comunque lo usavo come un diario, vi riversavo i miei pensieri, riflessioni, sfoghi, talvolta ciò che mi accadeva oppure parlavo di qualcosa che avevo letto, studiato o di un film che mi aveva colpita. Niente di speciale, insomma, ma c'era davvero tantissimo di me lì dentro. Soprattutto, quelle esperienze precoci hanno fatto sì che per me tenere un blog diventasse un'abitudine radicata, impossibile da sconfiggere peggio del vizio del fumo per Zeno. Ho avuto altri blog prima di Tanto non importa, in cui ho provato a condividere le mie passioni oppure delle questioni più personali; ma di volta in volta non riuscivo a trovare la mia giusta dimensione, a sentirmi appagata o riconoscermi pienamente in ciò che creavo, e così senza pensarci due volte eliminavo il nuovo blog dopo appena qualche mese di attività, dicendomi che forse era qualcosa che non faceva più per me. Poi, però, inevitabilmente la voglia tornava e non riuscivo proprio a desistere dal pensiero di fare un nuovo tentativo e così, da uno di questi tentativi, è nato Tanto non importa, che forse, dopotutto, non è così male.

4. Dare consigli ai nuovi blogger.

Ovviamente non sono una persona che è riuscita a fare del suo blog una professione né sono tra quelle che vantano il maggior seguito, quindi forse non sono questa gran fonte di consigli; tuttavia, come ora avrete scoperto se avete letto il paragrafo precedente, un po' di esperienza in questo campo me la sono fatta e, se anche non sono le dritte universali, sono quanto la mia esperienza ha insegnato a me - e devo dire che in larga parte condivido i consigli di Duille, tanto che sembreranno copiati.
Come prima cosa suggerirei all'aspirante blogger di iniziare sin da subito a commentare i post degli altri, ma di non farlo per puro tornaconto personale: interagite con chi crea contenuti che davvero vi interessano, il blog è una forma di scambio, dibattito, condivisione, se scriviamo sul web e all'epoca della velocità, dei limiti di carattere, dell'immagine che scavalca la scrittura siamo ancora qui che desideriamo sviscerare idee ed argomenti in scritti talvolta lunghissimi è perché cerchiamo anime coi nostri stessi interessi che hanno la stessa voglia di scambio e di approfondimento, per trarre dall'esperienza del passare un sacco di tempo davanti al computer qualche cosa di più, che spesso è difficile trovare nell'esperienza quotidiana. Quindi interagite, trovate blog che vi piacciono e non titubate nell'indecisione sul lasciare un commento o meno: fatelo! Anche perché noi blogger siamo vanitosi ed anche un banale "bel post!" ci fa gongolare un po' - e se è vero che noi blogger siamo vanitosi (e forse un po' egocentrici) è anche vero che siamo una specie riconoscente (vedi i ringraziamenti che si sbrodolano in occasioni di questi premi o tag) e leali, perciò vedendo il commento di un nuovo utente correremo senz'altro a fargli visita, e così il nuovo blogger si farà pian piano conoscere.
Inoltre, come diceva Duille, non fissatevi sull'idea che il vostro blog debba trattare solo ed esclusivamente un unico argomento! Ma chi l'ha detto, scusate?! Questa è stata un'idea tremenda cui ho creduto in passato, ed è stato uno dei motivi che ha portato al naufragio alcuni miei progetti passati. Era un'imposizione che mi faceva sentire limitata ed in trappola, non libera di esprimermi. Anche se decidete di aprire un blog, che ne so, per parlare della vostra passione di cinema nessuno e sottolineo nessuno vi impedisce di pubblicare il racconto di una ricetta che vi è riuscita bene e che vi divertirebbe condividere, o di utilizzare il blog per sfogarvi di un brutto momento che avete vissuto, o di renderlo una sorta di diario per certe giornate belle che vi piacerebbe condividere e ricordare. Non penso affatto che i vostri lettori resteranno scoraggiati o delusi da una variazione di argomenti, penso anzi che diversificare raccoglierà sulle vostre pagine più persone; a me capita di parlare di grandi classici della letteratura così come di manga o di altro: non tutti commentano tutto ovviamente, ma se - ad esempio - mi fossi frenata dallo scrivere recensioni di fumetti, sicuramente alcuni lettori con cui ora scambio abitualmente vivaci ed interessanti opinioni non si sarebbero mai fermate da queste parti. Perciò, niente limiti, niente imposizioni: scrivete di quel che vi pare quando vi pare.

Infine il BRA mi imporrebbe di nominare ben quindici blog e di avvertirli di tale nomina, ma devo ammettere che proprio non me la sento: non solo perché non arriverei mai a quindici, ma soprattutto perché tutti i miei blogger preferiti hanno ovviamente già ricevuto la nomina. Mi limito a nominarne tre per motivi speciali: Virginia di Virginia e il Labirinto e Mami di Mami tra i libri perché non si vedono da un po' e mi mancano tantissimo e spero con questa nomina di spezzare l'incantesimo che ha congelato i loro regni; terza ed ultima nomina che mi sento di fare è a Silvia di Felice con un libro, perché ho scoperto da pochissimo il suo spazio e lo trovo molto carino, senza contare che sceglie delle letture molto belle, perciò nel caso ve la foste persa volevo farvela conoscere!

Bene, vedo che sono stata breve e concisa come sempre.
La cerimonia del BRA è ufficialmente conclusa.


domenica 26 novembre 2017

Marvel & Netflix: un complotto contro la vita sociale

L'anno scorso vi parlavo entusiasticamente di Jessica Jones e - come vi dicevo allora - se non avessi per Fidanzato un marvelliano convinto di ultima generazione, difficilmente sarei mai capitata nel tunnel che dal fido Netflix trasporta nel mondo dei supereroi di città: il Matthew Murdock di Daredevil, Luke Cage, Jessica Jones ed i tantissimi altri personaggi che, volenti o nolenti, sono coinvolti nei loro destini. Se i film della Marvel hanno su di me un ascendente pressoché nullo (mi dispiace dirlo, ma è così), queste serie tv prodotte da Netflix sanno invece coinvolgermi ed appassionarmi come non mi sarei mai aspettata. Tra la fine di agosto e l'inizio di settembre, complici vari fattori, ci siamo fatti una bella maratona da pantofolai agguerriti, recuperando tutti i titoli Marvel che nel frattempo erano usciti.

Luke Cage è miracolosamente sopravvissuto ad esperimenti potenzialmente mortali, che invece gli hanno lasciato una pelle impenetrabile e una forza sovrumana. Luke, mantenendo un profilo il più basso possibile, si mimetizza tra la popolazione della black Harlem, dove - ignorando le proprie potenzialità - vorrebbe solo essere lasciato in pace e fare le pulizie nel negozio di Pop, leggendario barbiere del quartiere. E' a gente come Pop che Harlem appartiene, gente onesta che forse in passato ha sbagliato, ma ha imparato la lezione e cerca d'insegnarla anche ai giovani che rischiano di commettere gli stessi identici errori: Pop è il porto sicuro di intere generazioni, ma persino le pietre miliari come lui vengono messe in pericolo dalle macchinazioni e dagli intrighi dei potenti, l'altro lato della forza di Harlem, rappresentato da una catena di cattivi che col passare delle puntate sale di livello, così lo spettatore capisce che il primo male incontrato era niente di più che "la punta dell'ice-berg". Si comincia con l'affrontare Cornell "Cottonmouth" Stokes e la cugina Black Mariah, i quali condividono un'infanzia ed un'adolescenza piena di sofferenza irrisolta e le redini del potere sul quartiere, con Stokes che dal priveé del suo raffinato locale dirige gli affari e Mariah, col suo sorriso intrigante degno della miglior politica, seduce la gente a suon di discorsi populisti e demagogici. Persino loro, però, che sembrano intoccabili ed infallibili, vengono ad un certo punto tenuti sotto scacco dal misterioso Diamondback, che si esprime attraverso un suo sottoposto, Shades, che nonostante si presti ad eseguire gli ordini, non cela una propria dose di ambizione personale...
Le cose interessanti che troviamo in Luke Cage sono davvero moltissime, provo a riassumerle:
- la riflessione sul potere. Una fetta importante della serie, infatti, secondo me è dedicata a questa questione, declinata nei suoi molteplici aspetti. Il potere politico, il potere ottenuto con la forza, potere come supremazia, potere sfruttato per vantaggio personale... I "cattivi" di questa serie sono quanto mai ben caratterizzati e complessi, umani fino al midollo. Gli intrighi politici di Stokes e Mariah sono un vero e proprio sottilissimo gioco, che tiene incollati allo schermo per scoprirne gli imprevedibili esiti. E si passa dal loro uso del potere, nel quale raramente ci si sporca le mani in prima persona, a quello di pezzi più grossi che, di piani a tavolino, proprio non sanno che farsene.
- La questione etica e morale sul senso di giustizia, o meglio da chi sia più giusto che la giustizia venga amministrata. Un po' come accadeva in Daredevil, Luke inizialmente rifiuta il suo ruolo di supereroe: vuole condurre una vita normale - per quanto ciò gli sia possibile, dopo quanto gli è successo - ma alla fine si convince (anche grazie ai discorsi di persone come Pop) che è egoistico da parte sua non fare nulla per combattere l'ingiustizia quando ha tutte le capacità per farlo; sul piano opposto si trovano persone come Misty Knight, poliziotta di sani principi in un ambiente corrotto anche nei colleghi più insospettabili, che continua a ritenere sbagliato che dei vigilanti come Cage o Daredevil agiscano liberamente su cose che spetterebbero a lei ed a tutte le altre persone debitamente istruite per combattere il crimine. Ma quando l'aiuto dei vigilantes è innegabilmente arrivato più in fretta laddove la polizia nulla ha potuto, è davvero da biasimare la loro presenza?
- Le figure femminili di questa serie. Il mio orgoglio femminista ha gongolato come non mai davanti a personaggi femminili di questo calibro, innanzi tutto proprio Misty Knight, una donna che non solo eccelle nel proprio lavoro dimostrando un fiuto ed un'intelligenza fuori del comune, ma è provvista anche di una dose di coraggio non indifferente, che le permettono di non scappare neanche dalle situazioni più infauste. Non vedo davvero l'ora di rincontrarla nella seconda stagione perché so che assumerà connotati ancor più interessanti. E poi c'è lei, Claire Temple, l'infermiera che non sarà mai più solo un'infermiera. Gli aficionados l'hanno già incontrata in Daredevil e Jessica Jones ma secondo me è solo qui che si scopre meglio tutto il suo potenziale. Come Misty, anche Claire è dotata di una quintalata di coraggio e prontezza di spirito, Claire è l'amica saggia a cui puoi sempre fidarti nel chiedere aiuto, anche nelle situazioni più inspiegabili. Date le sue precedenti esperienze, infatti, Claire ha imparato a non fare (e farsi) domande, ma a fare del suo meglio quale che sia la circostanza. Claire è in teoria la persona più comune tra tutte quelle che incontriamo in queste serie, e forse proprio per questo appare in certi momenti come la più straordinaria. Dettaglio a mio avviso non meno importante, Claire è simpaticissima e stempera spesso la tensione con una battuta ironica di cui tutti sentivamo il bisogno: grazie, Claire!

Misty Knight
Claire Temple

- Infine, anche la storia personale di Luke, della quale tramite flashbacks si ricostruiscono i momenti salienti, è molto appassionante e sofferta e lo rende un eroe umanissimo col quale si entra in empatia sempre di più man mano che lo si conosce.
Insomma, questi sono i punti che ho trovato più interessanti in Luke Cage che si classifica al secondo posto (dopo Jessica Jones) tra le serie Marvel che per il momento ho preferito.


Si prosegue poi con Iron Fist, e lasciate che ve lo dica subito: per me è no, ma a caratteri cubitali proprio! Le premesse erano interessanti: il rampollo dei fondatori di un'azienda miliardaria torna dopo quindici anni, quindici anni durante i quali era stato creduto defunto assieme ai genitori in un tragico incidente aereo. La morte dei coniugi Rand è purtroppo reale, ma Danny Rand era stato invece trovato dai monaci di una città leggendaria, K'un-Lun, dove era stato cresciuto tra le più ferree regole ed ardue sfide imparando tutti i segreti dell'arte del kung-fu, e si era infine rivelato essere il potente Iron Fist, ovvero il protettore delle porte della città. Ma Danny Rand alias Iron Fist è un emerito cretino, perciò abbandona la città di K'un-Lun - ed il compito praticamente sacro che aveva - per fare ritorno a Manhattan e riscattare il suo ruolo all'interno dell'azienda paterna. Danny perciò, totalmente ignaro dei costumi sociali dell'Occidente e della modernità, si aggira come un figuro a metà strada tra un barbone, un hippie ed un hipster un po' estremo, fin quando non irrompe negli edifici della Rand spaventando a morte i fratelli Ward e Joy Meachum, suoi amici d'infanzia e figli del migliore amico e socio di suo padre, che dalla morte del loro padre sono di fatto i vertici dell'azienda. Danny e Ward non avevano avuto ottimi rapporti da bambini, mentre una tenera e mai dimenticata amicizia aveva legato Danny e Joy: perciò punta tutto su di lei per dimostrare di essere davvero Danny Rand e non un pazzo qualunque che vuole appropriarsi di quell'identità per diventare mostruosamente ricco e potente, e grazie ad un gioco d'infanzia che soltanto loro due potevano conoscere Danny riesce a farsi accettare dai Meachum. A questo punto siamo soltanto all'inizio della serie: lo scopo di Danny infatti è principalmente quello di scoprire cosa si nasconde dietro l'incidente aereo e la perdita degli amati genitori che lo hanno traumatizzato ed in secondo luogo combattere la potentissima organizzazione criminale conosciuta semplicemente come La Mano (che poi, lui doveva proteggere K'un-Lun esattamente da loro, ma va bene), che lo spettatore ha ampiamente conosciuto in Daredevil. Non avendo un posto dove stare o un amico al mondo, quando Danny si imbatte nella maestra di kung-fu Colleen Wing lui pensa bene di accollarsi a lei, di darle il tormento fin quando la poveretta inizia a dargli - purtroppo - retta e... oh mio Dio, questi due sono la coppia di ottusi più ottusi del mondo. Vi giuro, non ce la potevo fare, sono tra i personaggi più esasperanti che mi sia mai capitato d'incontrare. Ciecamente convinti delle proprie idee anche se non sanno nulla dei reali pericoli che intendono affrontare, fanno una scelta stupida dopo l'altro mettendo in pericolo non solo se stessi ma tutto ciò che li circonda. Entrambi traumatizzati, lagnosi, infantili, petulanti: ciò di cui avrebbero bisogno sarebbe un ottimo percorso terapeutico, non andare in giro a menar calci come trottole impazzite in cerca di vendetta (contro le cosa sbagliate, per altro).
E chi ci salva da tanto disagio, secondo voi? Sì, proprio lei, ancora lei, la santa Claire!

I bambini necessitano sempre della supervisione di un adulto

La quale per vie traverse si trova coinvolta anche nelle avventure di questi due bambini ed è stata lei a rendermi sopportabile questa visione, perché proprio nei momenti più esasperanti dava voce ai miei pensieri, facendo presente quante assurdità riuscissero a dire e pensare tutte insieme.
Altra - ed unica - nota positiva di questa serie è la sottotrama legata e condotta da Ward Meachum, personaggio rivelazione per me della serie: se all'inizio sembra soltanto un altro personaggio noioso e patetico, un uomo adulto incastrato in una vita che non ha scelto, con un complesso paterno grande quanto i grattacieli della Rand, vive poi un'escalation di drama veramente interessante, grazie anche al grandissimo talento dell'attore che lo interpreta, Tom Pelphrey. Ecco, ho seguito con molta più curiosità e coinvolgimento l'evoluzione di Ward Meachum rispetto alle gitarelle di Danny Rand alias Iron Fist con la sua amichetta. Ah sì, ci sarebbe anche una storia d'amore tra i due ma, va beh.


Infine, li vediamo tutti riuniti in quella che è stata attesa dai fan come una vera serie-evento: The Defenders, che vede le strade di Matthew Murdock, Luke Cage, Danny Rand e Jessica Jones incrociarsi e scontrarsi; se infatti conoscete un po' i caratteri di questi protagonisti, è facile immaginare quanto una collaborazione tra loro possa diventare complicata - tra Jessica che non è mai propensa ad allacciare relazioni di qualunque tipo con altri esseri umani, Matthew - da bravo cattolico - in perenne tribolazione interiore, Luke che non è esattamente la pazienza fatta persona ("I like to get things done!") e Danny Rand che... va beh. In Defenders si riprendono le fila di quanto in ogni serie era stato lasciato in sospeso, riunendosi tutte in uno scopo comune, ovvero la lotta contro La Mano e la loro potentissima arma umana: Elektra, l'amore mai dimenticato di Daredevil. The Defenders ha meno puntate delle altre serie (soltanto 8, contro le canoniche 13), un ritmo più serrato e veloce: non c'è qui alcun bisogno di presentazioni, conosciamo già tutti i personaggi e le loro storie, perciò si va dritti al sodo senza esitazioni. E' stata una gioia per me ritrovare Krysten Ritter nei panni di Jessica, che pur cercando di farsi i fatti suoi e di starne fuori non riesce alla fine a non lasciarsi prendere dal caso molto strano di un uomo scomparso nel nulla, che aveva le mani in pasta nel progetto per la costruzione di un edificio che sembra collegato a molti altri dettagli sospetti. Ritroviamo in Defenders anche tutti i personaggi secondari: dalla detective Misty Knight che, suo malgrado, ha imparato a fidarsi di Luke, l'immancabile Claire, che alla fin fine è quella che ne ha viste più di tutti, i colleghi ed amici di Matthew - l'adorabile Foggy e la dannatissima Karen [apro parentesi: io le ho dato il beneficio del dubbio, giuro, per ben due stagioni di Daredevil, ma a dispetto della mia buona predisposizione si è dimostrata essere esattamente ciò che temevo dalla prima volta che compare: la biondina bellina e carina che si mette in mezzo anche a cose che non le competono, che svolge il suo lavoro con tanta passione, passione cuore sole amore che inevitabilmente prevalgono sulla ragione, col risultato che questioni di una certa importanza finiscono male, molto male (di solito ci scappa il morto, ecco); avete presente Isobel Stevens di Grey's Anatomy? Lei è l'emblema assoluto di questa categoria di personaggio da me tanto odiato, e Karen è in tutto e per tutto una Isobel Stevens. Chiusa parentesi]. Sottolineo che mentre tutti gli altri si fanno il mazzo per raggiungere l'obiettivo comune, Danny & Colleen (a noi meglio noti come gli ottusi) sono quasi in ogni scena in cui compaiono a bordo dell'aereo privato di Danny che si lagnano dei loro rispettivi traumi e continuano a parlare sempre delle stesse cose, che in teoria ormai dovevano aver capito in modo forte e chiaro, invece no. Tra i momenti più belli della serie c'è senz'altro il primo incontro tra Danny e Luke, che io aspettavo tantissimo e che mi ha dato la giusta soddisfazione: tutte le potentissime mosse dell'Iron Fist possono ben poco contro il nostro Luke.
Credo di non avere altro da dire riguardo a Defenders, se non ché per vederla è necessario guardarsi prima tutte le altre serie precedenti, altrimenti se ne capirebbe ben poco. E' stata forse un po' al di sotto delle mie aspettative, ma al tempo stesso molto interessante. Il finale lascia sorpresi e con un bel po' di domande, per le quali dovremo attendere prima di avere le dovute risposte.

Il tipico atteggiamento del leggendario Iron Fist

La cosa che comunque manda in visibilio qualunque cuore di nerd nel seguire tutte queste serie è cogliere tutti i collegamenti - talvolta veramente sottili - tra l'una e l'altra, come la voce dell'amica di Jessica Jones che conduce un programma radiofonico in una puntata di Luke Cage, o Claire che prende un biglietto per strada per delle lezioni di kung-fu, che poi si vede esser stato affisso in giro da Colleen. Piccole cose che tanto emozionano gli appassionati come noi (soprattutto quando cogli tutti i riferimenti, a beneficio se non altro della tua autostima).

Bene, con le serie Marvel direi di aver finito, anche se da pochi giorni è uscita la prima serie interamente dedicata a Punisher, personaggio molto complesso e controverso che avevamo conosciuto nella seconda stagione di Daredevil - ma ne parleremo in apposito spazio a tempo debito. 

Ora sono curiosa di sapere se anche voi seguite qualcuna di tutte queste serie, o se il fatto che una persona distante come me da questo genere sia scivolata ormai in fondo a questo tunnel sia sufficiente per convincervi a dare un'occhiata a queste perle dell'intrattenimento.


Anna Karénina, Lev Tolstòj

Anna Karénina , Lev Tolstòj, Russia 1875-77 – ma anche qualsiasi altro luogo e tempo dacché esistono l’uomo e la donna. Il commento al rom...