Io stessa non sono mai riuscita a capire che cosa significhi con precisione femminismo. So soltanto che mi definiscono femminista tutte le volte che esprimo sentimenti che mi differenziano da uno zerbino o da una prostituta.
Probabilmente l'etichetta di fervente femminista le è rimasta addosso da quando a vent'anni era una suffragetta e si scelse quel nome con cui ancora oggi è ricordata. Rebecca West è infatti uno pseudonimo, ed è esso stesso una precisa dichiarazione d'intenti. Il vero nome della scrittrice britannica era Cicely Isabel Fairfield, mentre quello con cui ha firmato qualsiasi cosa abbia scritto, Rebecca West, è un omaggio all'eroina (o forse anti-eroina) protagonista di Rosmersholm, opera teatrale del 1886 del celebre drammaturgo danese, Henrik Ibsen, passato alla storia forse soprattutto per i suoi magistrali ritratti femminili. Le donne del suo teatro, talvolta vincenti talvolta catastroficamente perdenti, erano comunque donne forti, dalle personalità complesse e profonde, sicuramente anticonvenzionali e spesso scandalose per l'epoca in cui si muovevano (basti pensare al più celebre dei suoi drammi, Casa di bambola, che racconta la storia di una donna che ad un certo punto della sua vita abbandona il marito e la casa coniugale, dando la priorità alla ricerca di sé - un fatto inconcepibile, per la società ottocentesca).
La West fu più una giornalista che una romanziera, firmò articoli per il Times, il New York Herald Tribune, il Sunday Telegraph ed altre importanti testate, occupandosi di critica letteraria e di attualità. Viene ricordata anche per i suoi diari di viaggio, come Black Lamb and Grey Falcon (1941), considerata dalla critica la sua opera più significativa: composta da più parti, l'autrice fa un ritratto completo ed esaustivo della storia e della cultura della Jugoslavia, da lei visitata per la prima volta nel 1934. Lo scrittore britannico Geoff Dyer ne ha recentemente parlato in un articolo sul Guardian, scrivendo che si tratta di "un capolavoro supremo che parla di due cose: la Jugoslavia e tutto il resto".
Ma il suo raggio d'azione non si ferma qui, visto che una voce forte e coraggiosa come la sua non poteva certo restare muta davanti ad un evento della portata della Seconda Guerra Mondiale. E' del 1955 A Train of Powder, un reportage sui Processi di Norimberga ai quali assistette personalmente e pubblicato originariamente sul New Yorker, a cui seguirono più tardi altri testi nei quali l'autrice studia il fenomeno della Seconda Guerra Mondiale nel suo insieme, accompagnandolo con le sue riflessioni e le sue conoscenze dirette della storia.
Davanti ad una produzione così vasta e variegata, spesso incentrata su temi caldi, complessi, ancora sanguinanti nel momento in cui lei ci metteva dentro le mani, la sua produzione narrativa sembra quasi una pausa, una sosta dalla realtà cruda e complicata, anche se ciò non deve cadere - erroneamente - sotto l'etichetta di pura finzione o di evasione letteraria: al contrario, Rebecca West attinge dalla realtà anche quando inventa, perché pare che la sua saga familiare incentrata sugli Aubrey sia di matrice autobiografica, fortemente ispirata alla propria famiglia povera e molto colta.
La famiglia Aubrey (il cui titolo originale, ben più poetico, è The Fountain Overflows) è il primo volume di una trilogia a cui Rebecca West lavorò per trent'anni, e l'unico che venne pubblicato mentre lei era ancora in vita. Il titolo originale dice già ciò che di utile si potrebbe dire sul contenuto: è un flusso, un flusso abbondante e denso, che non attraversa deciso il lettore come acqua, ma gli cade dentro piuttosto come farebbe il miele da un cucchiaino nella tazza di tè. In maniera fluida, sì, ma lenta e corposa. Si parla degli Aubrey infilandoli nella dicitura "saga familiare" perché abbiamo sempre bisogno di etichette, di definizioni che ci facciano capire subito, almeno in linea di massima, di che cosa si sta parlando e cosa ci possiamo o dobbiamo aspettare; del resto, La famiglia Aubrey parla effettivamente di una famiglia - quattro figli, due genitori, una domestica - tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, in un'Inghilterra diversa da quella di tutti gli altri scrittori dell'epoca. Un po' come dice Dyer, però, La famiglia Aubrey parla di questo "e di tutto il resto" ed è molto complicato pensare di descrivere quel tutto il resto a chi non si è mai confrontato con la prosa dell'autrice.
C'è un padre che viene dipinto come geniale, brillante, irresponsabile e sfuggente; una madre che era quasi stata una pianista famosa, che viene da una famiglia che ha la musica nel sangue, che lei ha trasmesso ai suoi figli - tutti tranne una. Una madre pianista ed insegnante di musica tra le mura domestiche, dall'aspetto trasandato ai limiti del presentabile perché corrosa dalla loro situazione economica ai limiti della povertà, una madre con le guance smunte e i vestiti rotti, ma con un modo tutto suo di essere premurosa e sempre presente, e che trova sempre una risposta intelligente anche alle domande più difficili. Una domestica gentile che più che altro è un rifugio, nella cucina piccola dove il riscaldamento è sempre acceso e dove nei momenti più pericolosi si può trovare un compito, una faccenda da sbrigare, che tenga occupata la mente e tranquillizzi il cuore. E poi ci sono loro: Mary e Rose, sempre insieme, in sintonia quasi fossero una persona sola, se non fosse per i guizzi di rabbia di Rose o le parentesi solitarie e silenziose tipiche di Mary. E' Rose la voce narrante della storia, è lei che ci racconta della loro dedizione allo studio del pianoforte, con l'unica certezza che un giorno sarebbero diventate musiciste ricche e famose, dando il futuro che merita al piccolo di casa, l'effervescente Richard Quin, e sistemando le esistenze di tutti gli altri membri familiari; la stessa cosa pensa la sorella maggiore Cordelia, tenacemente aggrappata al suo violino nonostante abbiano tentato di farle capire che non possiede alcun talento. Cordelia, che forse non sa suonare ma è l'unica ad essere bellissima, che è profondamente sola: lontana dalla madre, con cui non può avere quel legame fatto di suoni perfetti; lontana dal padre che non è vicino a nessuno; lontana da Mary e da Rose, esclusa dal loro legame di sorellanza e di amicizia sia per età che per carattere; lontana da Richard Quin, che ritrova se stesso nei giochi pieni d'immaginazione di Mary e di Rose; ed infine, anche lontana dalla cugina Rosamund, ma soltanto fino al momento in cui almeno lei riuscirà ad arrivarle finalmente vicino abbastanza.
La famiglia Aubrey descrive un'Inghilterra diversa da quella che sono abituata a vedere nei romanzi della letteratura inglese; siamo lontanissimi dalle brughiere, dalle case grandi che si riempiono di personale e di invitati, dai salotti in cui si allietano le serate con i balli, la musica o la semplice conversazione; non siamo neanche immersi fino al collo nella città, tanto da sentire il rumore degli zoccoli dei cavalli, la polvere sulla pelle e il caos del fermento di Londra alla maniera di Dickens. Gli Aubrey non frequentano nessuno, tanto per dirne una, sono profondamente isolati ma non esprimono affatto un senso di solitudine o emarginazione: sembrano al contrario bastare a se stessi, tanto che questo dettaglio non viene sfiorato che da qualche preoccupazione sui ragazzi, che forse dovrebbero essere più inseriti in società (soprattutto le ragazze, ovviamente, come troveranno un marito?) o da quei commenti razionali delle ragazze sul fatto che a scuola nessuno le avvicina. A parte Cordelia, certo, lei è diversa, non appartiene veramente a quella famiglia, e riesce sempre a piacere molto agli insegnanti e persino talvolta a farsi qualche amica.
E così come Rebecca West ci racconta dei luoghi diversi - fisicamente marginali, fatti di singole strade abitate, di abitazioni con giardino i cui paletti limitano l'esistenza di chi vi abita, di piccole botteghe dentro cui contare gli spiccioli, e talvolta un treno, una Chiesa a Natale, persino un'automobile una volta - la sua penna ci racconta anche personaggi estremamente diversi, dei veri e propri outsider, che vivono e pensano e crescono con regole tutte loro, che col tempo si fanno proprie anche del lettore. Infatti è come se anch'io avessi partecipato alla tradizione settimanale del lavaggio dei capelli, seduta poi con loro davanti al camino acceso per farli asciugare, ed intanto arrostire le castagne da mettere in bocca ancora bollenti ed insieme bere latte fresco. Sembra anche a me di aver giocato con gli animali immaginari nei lunghi pomeriggi - i cavalli nelle stalle vuote, i cani addormentati in salotto e poi quella lepre simpatica e saggia. Ancor di più, ho sentito di essere presente in ogni singolo momento ad alta tensione, quelli in cui ora un personaggio ora l'altro non ne può più degli ordini familiari prestabiliti e deve, a modo suo, far qualcosa per distruggerli. Il personaggio di Cordelia, in particolare, mi ha attratta e incuriosita fin dall'inizio, proprio per quel suo essere qualcosa di diverso all'interno di un nucleo così compatto: fin dai primi capitoli mi son fatta l'idea che se fosse stata lei, la voce narrante, avrei avuto tra le mani una storia molto diversa, gli stessi fatti ma condensati in un gusto di tutt'altro tipo - malinconia, frustrazione, solitudine, rabbia. Cordelia ed i suoi tratti egocentrici, Cordelia grandi occhi e boccoli ramati, Cordelia troppo grande per essere bambina e troppo bambina per essere grande, che pure con i grandi condivide obiettivi pragmatici piuttosto che sogni appassionati.
La storia mi ha affascinata sin dalla prima riga, ed andando avanti mi ha coinvolta sempre di più fino ad un finale che, dopo un vorticoso climax ascendente, mi ha mollata con un violento schiaffo emotivo in piena faccia; ma è la scrittura della West, soprattutto, ad avermi avvolta tutta, come un morbidissimo plaid dal quale, in un freddo pomeriggio invernale, non vorresti più uscire. Il commento dei lettori che ho visto più spesso accompagnare questo romanzo è "lento", ed è un aggettivo che negli ultimi tempi sento usare sempre più spesso. Lenti molti libri fotografati su Instagram, quando parlo con gli amici e chiedo allora, com'è questa serie tv? "Eh, è lenta..." e non capisco mai cos'è che effettivamente le persone vogliono dire, quando commentano qualcosa esaurendo un opinione nell'aggettivo lento. Ogni volta ho l'impressione che in quei momenti il concetto di lentezza riassuma in sé diverse sfumature, ma tutte con un'accezione tendenzialmente negativa, come un modo più gentile o più nobile per dire in realtà noioso. Mi sto facendo l'idea che, anche tra i lettori - persone che proprio in virtù di questa passione in teoria ricercano bolle di tempo in cui la vita non bussa incessantemente alla porta, e ci si può lasciar galleggiare senza fretta sulla carta - si stia diffondendo, come edera urticante, il virus dell'impazienza. Nessuna epoca è andata di fretta come la nostra, e non in un senso positivo: è come se l'obiettivo generale fosse vedere vedere fare vedere il maggior numero di cose possibili nel minor lasso di tempo possibile. E qualsiasi cosa imponga invece un tempo diverso, un ritmo che non può essere riassunto né tradito, viene percepito come troppo lento. Forse però non sono certe cose ad essere lente, ma noi che andiamo sempre troppo di fretta.
La scrittura di Rebecca West è stata, a ragione, paragonata da Alessandro Baricco allo scorrere di un fiume. Un fluire continuo, sostenuto, al quale all'inizio bisogna adeguarsi, ma una volta che ci si entra ci si lascia trasportare magnificamente. Dopo averlo letto ho anche capito come mai lo scrittore torinese avesse affermato che se avesse dovuto scegliere un libro da portarsi su un'isola deserta, quel libro sarebbe stato La famiglia Aubrey: io non rileggo mai i libri già letti, eppure ho la sensazione che se ricominciassi oggi questo romanzo, che pure ho affrontato solo il mese scorso, mi troverei davanti una storia completamente nuova, quasi mai sentita prima. C'è dentro una forza, una corposità, una stratificazione di elementi e così tanta violenta bellezza che fanno de La famiglia Aubrey un libro che non potrà mai esaurirsi, che continuerà a rinnovarsi attingendo alla sua stessa forza. Ci sono dei momenti - ne ricordo nello specifico un paio - in cui la scrittura smette di esser fatta di parole e si fa pittura, dipingendo ritratti brillanti e immagini nitide, dai quali ci si riprende poi come appena svegliati da un sogno ad occhi aperti.
Insomma, io non posso concludere dicendo altro se non che La famiglia Aubrey è un capolavoro supremo che parla di due cose: di una famiglia inglese, e di tutto il resto.
Bellissima recensione e se ero tentata già prima di leggerlo ora corre subito nel carrello... :-)
RispondiEliminaComplimenti per il blog sono diventata una tua follower se ti va di passare da me io sono Il salotto del gatto libraio