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Like wildflowers you must allow yourself to grow |
Siamo andate a fare un aperitivo, sorseggiando un drink parlavamo un po' di quanto avevamo ascoltato un po' dei soliti argomenti di tutti i giorni, ed intanto cresceva in me l'impazienza. All'improvviso non mi importava di trovarmi lì, di mangiare o di bere, di cenare fuori come il mio compagno mi aveva proposto, di chiacchierare del più e del mondo. Avevo cose ben più grandi nella testa, circondate dalla paura di perderle perché la memoria avrebbe potuto tradirmi, o perché quella era come una febbre che presto mi sarebbe passata. Impazienza, trascinata da un pub ad un ristorante, mischiata ad un lacerante senso di frustrazione, e poi prendere freddo sotto la luna - intorno le macchine, i gruppi di ragazzi e di ragazze che passano a voce alta - mentre si affidano ad un messaggio vocale su whatsapp tutti quei pensieri disordinati, destinandoli all'unica persona che conosco a cui, anche di sabato sera, potrebbero interessare discorsi sbronzi sulla depressione, sul male che fa scrivere e sul perché lo si faccia lo stesso.
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And that's where I stand Silent in the trees Why won't you speak Where I happen to be? Silent in the trees Standing cowardly |
Da qualche tempo ho ripreso in mano una cosa che avevo scritto qualche anno fa, l'unica che io sia mai riuscita a terminare. Ho cominciato a farne una seconda stesura e, fidatevi, quella sì che è una storia che mi porta a fare i conti con me stessa, che mi mette faccia a faccia con questioni che avevo rinchiuso in uno sgabuzzino e che non avevo più avuto il coraggio di tirar fuori. Ma, vedete, io mi vergogno persino a scrivere che sto scrivendo, mi vergogno a dirlo ad alta voce, faccio fatica a ritagliarmi il mio tempo per farlo perché mi alita sul collo la sensazione di star sprecando del tempo, che anche fare le faccende domestiche sarebbe più utile. Ho paura di sembrare soltanto una delle tante che, sapendo mettere insieme qualche frase leggibile, pensa di essere una grande scrittrice. Più di tutto, ho paura che nonostante le idee, nonostante ventisette anni di guerra e di armistizi con la parola scritta, ho paura che persino questo finirà col rivelarsi del tutto inutile. Lo scrittore, ieri, ha detto anche che scrivere è un'ossessione e che se gli proponessero una pillola che fa passare l'ossessione di scrivere lui la prenderebbe subito, sicuro che starebbe molto meglio. Io penso la stessa cosa. Ricorre spessissimo nei miei diari, ma persino su queste pagine, la metafora dello scrivere come un infierire su ferite già aperte. Ma questi discorsi sono credibili soltanto in bocca a chi ha già fatto del proprio dolore e delle proprie lotte un mestiere. E' credibile Lady Gaga che racconta di come scrivere una canzone sia un'esperienza invasiva, è credibile Virginia Woolf con le sue crisi periodiche, è credibile lo scrittore che ieri raccontava di come la scrittura lo prendesse violentemente a schiaffi davanti a quegli schiaffi elegantemente rilegati in un libro vero. Se lo dico io, sono solo una che si dà delle arie da artistoide, o una che deve sempre esagerare i toni. Mi mordo la lingua, mi mordo le labbra, il sangue mi ribolle nelle vene insieme al mio milione e mezzo di cose da dire.
Quel coraggio necessario a scrivere qualcosa di credibile un tempo ce l'avevo, ed era per quello che scrivere era così doloroso. Quando avevo vent'anni stavo molto male, e una notte scrissi un racconto che parlava di suicidio. Ho sempre pensato che fosse stata un'esperienza catartica, e che attraverso il suicidio di Cassie - una ragazza dai capelli lunghi e piena di anelli alle dita, che non riusciva a tenersi nessun lavoro ed aveva soltanto un'amica, che aveva una voce roca e conosceva molte poesie a memoria - avessi esorcizzato i demoni che mi seguivano in quel periodo. Ricordo che mi sentii malissimo, e poi semplicemente vuota. Oltre al coraggio avevo anche una faccia tosta che adesso mi sogno, perché presi quel racconto e lo feci leggere alla docente universitaria di letteratura moderna e contemporanea il cui corso mi aveva appassionata tantissimo, e lei mi disse che era molto buono, grezzo ma interessante. Quando lo lesse la mia migliore amica non disse niente, anche se le si inumidirono gli occhi. Il mio fidanzato disse che era preoccupato per me.
Non ero io a decidere quando e cosa scrivere. Capitava di sentirmi turbata, e questo turbamento diventava malessere, ed il malessere cresceva fino a sentirmi oppressa: soltanto allora provavo a scrivere, e mi rendo conto che era come tuffarsi in un pozzo, scendendo più in fondo frase dopo frase e che il fondo non sempre riuscivo a toccarlo. Se non ci riuscivo, quel che scrivevo mi sembrava insulso, stupido e lo cancellavo o lo lasciavo lì senza prestargli mai più attenzione. Questo tuffo però aveva un prezzo, che ad un certo punto non ho più avuto la forza di pagare. Non era facile - anzi, era impossibile - essere una figlia, una sorella, una fidanzata, un'amica e al contempo andare in cerca delle ombre necessarie a scrivere. E siccome non sono mai stata capace di credere fino in fondo che la mia scrittura fosse qualcosa di importante, tra le due cose ho sacrificato quest'ultima. Durante il periodo in cui sono stata in psicoterapia, la mia psicoterapeuta mi diceva che avrei dovuto imparare ad entrare ed uscire dal pozzo - per continuare con questa banale metafora - quando e come decidevo io, senza portarmi le conseguenze nella mia vita. Sicuramente ero troppo giovane per acquisire questa capacità, che credo si basi su un equilibrio personale che ho iniziato ad intravedere solo negli ultimi anni. Non sono pronta nemmeno adesso, lo dimostra la nuova ferita che si è aperta ieri sera, lo dimostra questo post, lo dimostrano quel paio di lacrime che mi sono scese scrivendolo. L'unica cosa che mi preme sapere, e che al tempo stesso mi spaventa, è se sarò ancora capace di raggiungere veramente il fondo e se laggiù ci saranno ancora quelle fiamme, quelle ombre, quegli organi esposti che ora più che mai dovrei portarmi via.
Carver una volta disse: e come faccio a spiegare a mia moglie che anche quando sto guardando fuori dalla finestra, in realtà sto lavorando?
Non capisco mai perché i tuoi post più intimi non siano stracolmi di commenti, dato che sono super interessanti, pieni di spunti di riflessione e scritti BENISSIMO! Leggendoti, mi sono venute in mente una tale marea di cose che ordinarle in un solo commento sensato e di lunghezza accettabile sarà difficile come risolvere un cubo di rubik. Partiamo dal fatto che ho ADORATO, come sempre d'altronde, il tuo stile narrativo. Mi è piaciuto tantissimo come tu sia riuscita a saltare elegantemente da una descrizione molto metaforica ad una estremamente pragmatica (mi riferisco al passaggio dalla "parabola corrosiva che era stata portare alla luce quel romanzo" alle "bottigliette di acqua Clivia che non c'è stato bisogno di aprire"). STUPENDO! E poi ovviamente, come non applaudire l'onestà con cui hai snocciolato i tuoi dubbi in merito alla parola, quasi tabù per persone come noi, "scrittore". Arrogarsi il diritto di identificarsi ad alta voce con quella parola ci mette sempre in una posizione scomodissima, perché nella maggior parte dei casi siamo gli unici che ci riconosciamo in questa categoria, e nessun altro ci vede così. Sì, magari ci reputano bravi a scrivere, creativi, maghi della penna, ma di certo non scrittori. Per quello, ci vuole ben altro. E cosa? Un libro, naturalmente. E neanche solo un libro, ma un libro pubblicato. Allora sì, potremo raccontare del nostro rapporto con la scrittura, della difficoltà di vivere che ci ha avvicinato alla carta, dei processi creativi che ci frullano nella testa. Allora sì, saremo scrittori. Come dice il detto, carta canta. Ma prima di allora, siamo davvero solo degli sconosciuti che giocano a sentirsi grandi. Sono giunta alla conclusione però che essere uno scrittore sia una condizione d'essere, più che una professione. Come i cantanti, che sono cantanti anche se non produrranno nemmeno un disco. Forse non ce la sentiremo mai di dirlo ad alta voce, ma nel profondo, chi scrive perché ne ha bisogno (e non solo perché gli piace), perché ha qualcosa da comunicare che può uscire solo attraverso la parola scritta, anche se è dilaniante, è a tutti gli effetti uno scrittore. E per questo, cara Julia, ai miei occhi tu sei una scrittrice, con fiamme, ombre e organi esposti. Potrà valere poco, ma è comunque un inizio. ^_^ Un bacione.
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