domenica 3 marzo 2019

Wildflowers

Like wildflowers
you must allow yourself
to grow
E' una domenica di sole, fuori fa quasi caldo, tra le mura di casa invece è ancora inverno pieno. Dopo pranzo, dopo il caffè, avrei voluto prendere la monografia su Frida Kahlo che sto leggendo e sedermi sul balcone, quello più esposto alla luce e di conseguenza il più caldo di tutti. Penso che sarei stata bene, che mi sarei goduta il momento e che avrei letto un bel po'; ma non ho potuto, perché oggi non si scappa, oggi qualcosa di sensato lo devo scrivere. E' la terza o forse anche la quarta volta che ricomincio da zero. Arrivo a metà pagina e cancello tutto, insoddisfatta e frustrata come ho iniziato a sentirmi da ieri sera. Sono andata alla presentazione di un libro, ieri. Un libro che non conoscevo, scritto da un autore che non conoscevo, e ci sono andata quasi per inerzia. La verità è che ormai ho imparato a porre una distanza di sicurezza tra me e questo genere di cose, perché quelle rare volte in cui partecipo ad un incontro con autori o autrici, o in cui si parla di temi caldi come letteratura e scrittura, finisco sempre col sentirmi come se stessi ricevendo in una volta soltanto troppi stimoli tutti insieme, e mi si riempie il corpo di un disgustoso senso di amarezza perché sento che quelli sono i luoghi che dovrei frequentare sempre, che dovrei esserci immersa dentro e che avrei dovuto in qualche modo guadagnarmi il diritto di dialogare con quella categoria di persone, perché soltanto chi già fa quel che sentiamo di voler fare anche noi può guidarci attraverso i tortuosi sentieri del divenire. Ma in realtà sono soltanto una tra tanti, ieri ero una ragazza con la coda spettinata che - come sempre in ritardo - si era buttata addosso i jeans ed il maglione di fiducia, con giusto un tocco di mascara sulle ciglia e una passata di rossetto scuro a darle un tono, seduta in seconda fila su una seggiola di plastica e due occhi come due bracieri ardenti fissati con insistenza sull'autore - un uomo alto, dall'aspetto ordinato e con uno sguardo ed un sorriso davvero gentili - come se volessi carpire anche ciò che non diceva, i sottintesi ed i sotto testi della parabola corrosiva che era stata portare alla luce quel romanzo, esposto come un dipinto su piccola tela sul tavolino di fronte a lui, accanto a due bottigliette di acqua Clivia che non c'è stato bisogno di aprire. E' arrivato il consueto momento, per i presenti che ne avevano, di porre delle domande. Io non ne avevo, non ho mai delle domande, ho dei punti di vista, ho un miliardo di cose che vorrei dire per portare avanti un dialogo di cui ho disperato bisogno, ma come farlo davanti ad un gruppo di sconosciuti? Come avere la faccia tosta di parlare delle ferite inferte dalla scrittura ad uno che scrittore lo è veramente, col suo nome che figura nel catalogo Einaudi? Così, come tutte le altre volte, il mio miliardo e mezzo di cose da dire è rimasto nella testa, mi sono alzata e sono rimasta ad aspettare che una signora esponesse i suoi entusiasmi e si facesse firmare la copia del libro, e quando l'uomo alto dagli occhi gentili ha spostato la sua attenzione su di me gli ho detto: volevo soltanto ringraziarla, è stato bellissimo ascoltarla con la voce incerta, le gambe tremanti, una stretta di mano fugace - perché parlare con gli estranei non è mai stato il mio forte, anzi, faccio una fatica bestiale, tanto più quando è stato bellissimo ascoltarla era una stupidaggine qualunque, un contentino per me stessa, per sapere di non essermene andata senza aver lasciato proprio niente di niente. Lui mi ha risposto grazie con quel sorriso gentile, con i modi di chi dedica piena attenzione a chi ha di fronte, anche se io ero troppo agitata per riceverla o anche solo per incrociare davvero il suo sguardo adesso che non c'era più una fila di sedie e di persone a porre una distanza di sicurezza. Quasi non ricordo la nostra stretta di mano, la mia amica ansia mi fa temere sempre un sacco di cose, come rubare troppo tempo, essere invadente, inopportuna, di troppo; c'era qualcun altro dietro di me, e pensavo che dovevo lasciar spazio al prossimo, così non appena ho pronunciato quella frasetta sciocca che mi ero preparata sono scappata via. Fuori era buio, faceva freddo, e non era stato bellissimo ascoltarlo: era stato interessante, stimolante ma anche incredibilmente difficile, per me. Non appena mi sono incamminata al fianco dell'amica con cui ero entrata nella libreria ho capito che, nonostante avessi cercato di impedirlo, mentre l'autore parlava - del suo romanzo, della sua vita, della scrittura - dentro mi si erano smosse delle cose.

Siamo andate a fare un aperitivo, sorseggiando un drink parlavamo un po' di quanto avevamo ascoltato un po' dei soliti argomenti di tutti i giorni, ed intanto cresceva in me l'impazienza. All'improvviso non mi importava di trovarmi lì, di mangiare o di bere, di cenare fuori come il mio compagno mi aveva proposto, di chiacchierare del più e del mondo. Avevo cose ben più grandi nella testa, circondate dalla paura di perderle perché la memoria avrebbe potuto tradirmi, o perché quella era come una febbre che presto mi sarebbe passata. Impazienza, trascinata da un pub ad un ristorante, mischiata ad un lacerante senso di frustrazione, e poi prendere freddo sotto la luna - intorno le macchine, i gruppi di ragazzi e di ragazze che passano a voce alta - mentre si affidano ad un messaggio vocale su whatsapp tutti quei pensieri disordinati, destinandoli all'unica persona che conosco a cui, anche di sabato sera, potrebbero interessare discorsi sbronzi sulla depressione, sul male che fa scrivere e sul perché lo si faccia lo stesso.

And that's where I stand
Silent in the trees
Why won't you speak
Where I happen to be?
Silent in the trees
Standing cowardly
Tra le tante questioni su cui continuerò a riflettere nei prossimi giorni, una su tutte mi ha punto sul vivo: l'autore - di cui rivelerò il nome e di cui vi parlerò quando avrò letto il libro di cui si è parlato ieri - ad un certo punto ha detto che quando si scrive bisogna avere il coraggio di essere onesti e sinceri fino in fondo, che bisogna cercare di far venire a galla la verità, e che se lo scrittore si scontra invece col proprio pudore (nella maggior parte dei casi, per paura di fare i conti con se stesso) il lettore finirà inevitabilmente con l'accorgersene. 
Da qualche tempo ho ripreso in mano una cosa che avevo scritto qualche anno fa, l'unica che io sia mai riuscita a terminare. Ho cominciato a farne una seconda stesura e, fidatevi, quella sì che è una storia che mi porta a fare i conti con me stessa, che mi mette faccia a faccia con questioni che avevo rinchiuso in uno sgabuzzino e che non avevo più avuto il coraggio di tirar fuori. Ma, vedete, io mi vergogno persino a scrivere che sto scrivendo, mi vergogno a dirlo ad alta voce, faccio fatica a ritagliarmi il mio tempo per farlo perché mi alita sul collo la sensazione di star sprecando del tempo, che anche fare le faccende domestiche sarebbe più utile. Ho paura di sembrare soltanto una delle tante che, sapendo mettere insieme qualche frase leggibile, pensa di essere una grande scrittrice. Più di tutto, ho paura che nonostante le idee, nonostante ventisette anni di guerra e di armistizi con la parola scritta, ho paura che persino questo finirà col rivelarsi del tutto inutile. Lo scrittore, ieri, ha detto anche che scrivere è un'ossessione e che se gli proponessero una pillola che fa passare l'ossessione di scrivere lui la prenderebbe subito, sicuro che starebbe molto meglio. Io penso la stessa cosa. Ricorre spessissimo nei miei diari, ma persino su queste pagine, la metafora dello scrivere come un infierire su ferite già aperte. Ma questi discorsi sono credibili soltanto in bocca a chi ha già fatto del proprio dolore e delle proprie lotte un mestiere. E' credibile Lady Gaga che racconta di come scrivere una canzone sia un'esperienza invasiva, è credibile Virginia Woolf con le sue crisi periodiche, è credibile lo scrittore che ieri raccontava di come la scrittura lo prendesse violentemente a schiaffi davanti a quegli schiaffi elegantemente rilegati in un libro vero. Se lo dico io, sono solo una che si dà delle arie da artistoide, o una che deve sempre esagerare i toni. Mi mordo la lingua, mi mordo le labbra, il sangue mi ribolle nelle vene insieme al mio milione e mezzo di cose da dire.

Quel coraggio necessario a scrivere qualcosa di credibile un tempo ce l'avevo, ed era per quello che scrivere era così doloroso. Quando avevo vent'anni stavo molto male, e una notte scrissi un racconto che parlava di suicidio. Ho sempre pensato che fosse stata un'esperienza catartica, e che attraverso il suicidio di Cassie - una ragazza dai capelli lunghi e piena di anelli alle dita, che non riusciva a tenersi nessun lavoro ed aveva soltanto un'amica, che aveva una voce roca e conosceva molte poesie a memoria - avessi esorcizzato i demoni che mi seguivano in quel periodo. Ricordo che mi sentii malissimo, e poi semplicemente vuota. Oltre al coraggio avevo anche una faccia tosta che adesso mi sogno, perché presi quel racconto e lo feci leggere alla docente universitaria di letteratura moderna e contemporanea il cui corso mi aveva appassionata tantissimo, e lei mi disse che era molto buono, grezzo ma interessante. Quando lo lesse la mia migliore amica non disse niente, anche se le si inumidirono gli occhi. Il mio fidanzato disse che era preoccupato per me. 

Non ero io a decidere quando e cosa scrivere. Capitava di sentirmi turbata, e questo turbamento diventava malessere, ed il malessere cresceva fino a sentirmi oppressa: soltanto allora provavo a scrivere, e mi rendo conto che era come tuffarsi in un pozzo, scendendo più in fondo frase dopo frase e che il fondo non sempre riuscivo a toccarlo. Se non ci riuscivo, quel che scrivevo mi sembrava insulso, stupido e lo cancellavo o lo lasciavo lì senza prestargli mai più attenzione. Questo tuffo però aveva un prezzo, che ad un certo punto non ho più avuto la forza di pagare. Non era facile - anzi, era impossibile - essere una figlia, una sorella, una fidanzata, un'amica e al contempo andare in cerca delle ombre necessarie a scrivere. E siccome non sono mai stata capace di credere fino in fondo che la mia scrittura fosse qualcosa di importante, tra le due cose ho sacrificato quest'ultima. Durante il periodo in cui sono stata in psicoterapia, la mia psicoterapeuta mi diceva che avrei dovuto imparare ad entrare ed uscire dal pozzo - per continuare con questa banale metafora - quando e come decidevo io, senza portarmi le conseguenze nella mia vita. Sicuramente ero troppo giovane per acquisire questa capacità, che credo si basi su un equilibrio personale che ho iniziato ad intravedere solo negli ultimi anni. Non sono pronta nemmeno adesso, lo dimostra la nuova ferita che si è aperta ieri sera, lo dimostra questo post, lo dimostrano quel paio di lacrime che mi sono scese scrivendolo. L'unica cosa che mi preme sapere, e che al tempo stesso mi spaventa, è se sarò ancora capace di raggiungere veramente il fondo e se laggiù ci saranno ancora quelle fiamme, quelle ombre, quegli organi esposti che ora più che mai dovrei portarmi via. 

Carver una volta disse: e come faccio a spiegare a mia moglie che anche quando sto guardando fuori dalla finestra, in realtà sto lavorando?

1 commento:

  1. Non capisco mai perché i tuoi post più intimi non siano stracolmi di commenti, dato che sono super interessanti, pieni di spunti di riflessione e scritti BENISSIMO! Leggendoti, mi sono venute in mente una tale marea di cose che ordinarle in un solo commento sensato e di lunghezza accettabile sarà difficile come risolvere un cubo di rubik. Partiamo dal fatto che ho ADORATO, come sempre d'altronde, il tuo stile narrativo. Mi è piaciuto tantissimo come tu sia riuscita a saltare elegantemente da una descrizione molto metaforica ad una estremamente pragmatica (mi riferisco al passaggio dalla "parabola corrosiva che era stata portare alla luce quel romanzo" alle "bottigliette di acqua Clivia che non c'è stato bisogno di aprire"). STUPENDO! E poi ovviamente, come non applaudire l'onestà con cui hai snocciolato i tuoi dubbi in merito alla parola, quasi tabù per persone come noi, "scrittore". Arrogarsi il diritto di identificarsi ad alta voce con quella parola ci mette sempre in una posizione scomodissima, perché nella maggior parte dei casi siamo gli unici che ci riconosciamo in questa categoria, e nessun altro ci vede così. Sì, magari ci reputano bravi a scrivere, creativi, maghi della penna, ma di certo non scrittori. Per quello, ci vuole ben altro. E cosa? Un libro, naturalmente. E neanche solo un libro, ma un libro pubblicato. Allora sì, potremo raccontare del nostro rapporto con la scrittura, della difficoltà di vivere che ci ha avvicinato alla carta, dei processi creativi che ci frullano nella testa. Allora sì, saremo scrittori. Come dice il detto, carta canta. Ma prima di allora, siamo davvero solo degli sconosciuti che giocano a sentirsi grandi. Sono giunta alla conclusione però che essere uno scrittore sia una condizione d'essere, più che una professione. Come i cantanti, che sono cantanti anche se non produrranno nemmeno un disco. Forse non ce la sentiremo mai di dirlo ad alta voce, ma nel profondo, chi scrive perché ne ha bisogno (e non solo perché gli piace), perché ha qualcosa da comunicare che può uscire solo attraverso la parola scritta, anche se è dilaniante, è a tutti gli effetti uno scrittore. E per questo, cara Julia, ai miei occhi tu sei una scrittrice, con fiamme, ombre e organi esposti. Potrà valere poco, ma è comunque un inizio. ^_^ Un bacione.

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