giovedì 28 giugno 2018

Una serie tv ed un libro che non c'entrano niente l'uno con l'altra

Il titolo si spiega da solo, perciò direi di non indugiare oltre e di proseguire spediti come un treno diretto, senza soste, senza ritardi perché hanno rubato il rame dei binari, e senza deviazioni sulle tratte storiche (questa mi è successa l'ultima volta che ho preso un treno, giuro).

La serie tv in questione è più che famosa, quindi non vi sto proponendo niente di innovativo o che vi farà esclamare di sorpresa e stupore, ed è anche il motivo per cui potrò permettermi di essere breve (per i miei standard, s'intende). Giustamente, nella mia testa sento un coro di “ma allora a che cosa serve scrivere la tua opinione in merito??!”, beh a niente, assolutamente a niente, però è una serie che ho desiderato ferocemente vedere sin da quando è uscita ed ho aspettato così tanto perché volevo guardarla proprio al momento giusto, col massimo della concentrazione e con la testa libera da eventuali distrazioni, e quindi dopo tutto 'sto pathos – e considerato anche quanto m'è piaciuta – non posso proprio lasciarla scivolar via così, senza spenderci neanche due paroline, e quindi vi beccate questi giri di parole che non servono a nulla, perché sulle serie tv che finiscono col piacermi proprio tanto io non sono brava a scrivere recensioni intelligenti ed interessanti come fanno gli altri. Ma tant'è. Ciò che conta però è che ho già scritto un lunghissimo paragrafo senza dire nemmeno il titolo della serie, quindi la smetto e vengo al sodo: The Crown, prima stagione.


Le cose belle della prima stagione di The Crown (che, a scanso di equivoci, sono tante):

l'estetica. La cosa che mi ha conquistata sin dal primo fotogramma, e poi per tutti e dieci gli episodi, è il lato puramente estetico di questo telefilm. Non c'è niente che non sia bello, o estremamente elegante: dagli ambienti interni a quelli esterni, dalla perfetta dizione britannica alla moda degli anni Cinquanta. E' tutto così curato, sin nei minimi dettagli, che anche soltanto guardare questa serie (se fosse muta, ad esempio) sarebbe comunque un enorme gioia per gli occhi dello spettatore.
Claire Foy ed in generale la bravura degli attori, perché il cast è stellare, di un talento puro e totale. Il personaggio di Winston Churchill è monumentale, colossale, gigantesco, mastodontico, tanto nella fisicità quanto nel suo ruolo, veramente immenso, una colonna portante che quasi non accetti possa lasciare il proprio posto, come del resto anche lui stesso difficilmente riesce a fare. Ma dovrei nominarli proprio tutti, perché anche il marito della regina, il principe Filippo, è reso così bene dall'interpretazione di Matt Smith che faccio una grande fatica ad avere il minimo dubbio che il vero principe Filippo non sia davvero così, e mi piace molto l'ambiguità che è stata conferita a questo personaggio, di cui sono molto curiosa di seguire lo sviluppo; un cenno va fatto anche a Vanessa Kirby, che interpreta magistralmente la principessa Margaret, sorella minore e tormentata della regina Elisabetta. Il plauso più grande, però, va ovviamente a lei, Claire Foy, nei panni sontuosi, ingombranti e scomodi della Regina Elisabetta II. La sua bravura è sconcertante, non ruba mai la scena agli altri, ma il più delle volte le basta uno sguardo o una piega della bocca per esprimere tutto il sentimento richiesto dalla circostanza. Sicuramente c'è dietro un grandissimo lavoro di studio e di ricerca, ma lei è talmente naturale che sembra proprio nata per questo ruolo.
L'accuratezza storica, perché ovviamente non so se tutto ciò che viene raccontato in The Crown sia perfettamente coincidente con la realtà, ma per quanto ci è dato di verificare, i fatti combaciano e poi, il solo fatto che la serie sia stata prodotta, credo significhi che ci sia stato un preventivo permesso da parte dei Windsor, il che dovrebbe far pensare che non ci siano fandonie, all'interno del racconto. Quando mi trovo davanti una storia che prende a piene mani dalla materia storica mi piace che, anche se un po' romanzate, le cose che vengono raccontate rispecchino la verità, così da trarne informazione oltre che intrattenimento, perciò questo è un punto che apprezzo moltissimo.
I vari filoni narrativi, perché la regina Elisabetta II non è la sola ed unica protagonista, ma intorno a lei ci sono varie altre questioni che mi hanno toccata emotivamente in modo davvero forte, più di quanto mi aspettassi. A partire dalla vicenda della principessa Margaret, della quale ammetto vergognosamente di non aver saputo nulla prima di guardare The Crown; un altro dei miei filoni narrativi preferiti è senza ombra di dubbio quello dedicato allo zio della regina, Edoardo VIII, il re mai arrivato all'incoronazione, che dopo poco meno di un anno sul trono decise di abdicare per amore di Wallis Simpson, un'americana divorziata e già al suo secondo matrimonio, che fu prima amante di Edoardo VIII e poi la sua sposa, scatenando un grave scandalo che non venne mai perdonato. In The Crown vengono rappresentate le tensioni che ancora esistono a distanza di anni tra l'ex reggente e la sua famiglia d'origine, nonostante tra loro sia trascorso tanto tempo e la distanza di un oceano (Edoardo VIII, infatti, lasciò l'Inghilterra). E' affascinante pensare che, se non fosse stato per questo incontro fatale e per questo amore travolgente, Elisabetta II non sarebbe mai salita al trono, e la linea di successione sarebbe stata un'altra.

Se dovessi approfondire ulteriormente, finirei con l'analizzare singoli momenti che mi hanno particolarmente coinvolta ed emozionata, ma ciò costituirebbe uno spoiler, cosa che cerco sempre di non fare, perciò mi fermo qui lasciando a chi non si è ancora approcciato a The Crown tutto il piacere della scoperta.

Veniamo invece all'ultimo libro letto, che come preannunciato dal titolo non potrebbe essere più distante – per genere, atmosfere e tipologia narrativa – da The Crown; li ho accorpati in un unico post puramente per motivi logistici e di tempo. Ma introduciamo questa lettura per me insolita con una breve e simpatica scenetta.

Pomeriggio. Stanza di mia sorella minore. Dopo averle recato un messaggio della nostra genitrice, sto per lasciare i suoi appartamenti, quando i miei occhi abbassandosi sulla scrivania scorgono un oggetto interessante, alias, un libro. Una brutta malattia che mi ha colpito sin dalla tenera età mi costringe a prendere in mano e sbirciare qualunque mucchietto di carta stampata, anche quando si tratta della discutibile (ed ingiustificata) biografia di una youtuber dodicenne che ha fatto successo mostrando la sua collezione di calzini della collezione di Ariana Grande. Fatto sta, che fortunatamente quel pomeriggio il libro poggiato sulla scrivania della mia sorellina era ben altro, ovvero il primo volume della celeberrima saga del Trono di Spade, dell'egregio signor George R.R. Martin (ma fatemi capire, le R.R. le ha rubate a Tolkien? Uno scrittore fantasy – non che i due siano paragonabili, eh – se vuole avere successo deve avere per forza due R puntate nel nome?), più famoso per il terrore che alla sua ormai veneranda età lasci il mondo terreno da un giorno all'altro lasciando senza conclusione l'amata saga, che per la saga stessa. Si trattava di un titolo insolito, da scovare nei dintorni della mia sorellina, che infatti disse:

«Non mi piace. Se vuoi prenditelo.»
«Vabbè.»

E fu così che, curiosa e scettica in egual misura, quella sera attraversai un prologo del quale non capii nulla, per poi trovarmi senza essermene accorta a pagina 100. Maledizione. La trama non la racconto, perché non ne sarei in grado e poi molti di voi la conoscono già; ciò che posso dire, è che anche se Martin non è Tolkien né paragonabile a nessun grande autore/autrice, scrive in una maniera che sa essere al contempo molto asciutta e molto coinvolgente. Ho scoperto dentro questo libro una lettura di puro e piacevole intrattenimento, della quale senza saperlo avevo un gran bisogno. Se mi seguite da un po', avete ormai un'idea di che tipo di lettrice sono: leggo montagne di classici, e raramente faccio letture che si possano definire totalmente leggere, perché se un libro non è impegnativo dal punto di vista del contenuto, magari lo è stilisticamente o per altre caratteristiche; insomma, quasi mi rifiuto di sprecare tempo a leggere cose frivole, perché la maggior parte delle volte mi sembra uno spreco di tempo, oppure si rivelano libri talmente brutti che mi annoio e non riesco proprio a leggerli. Il trono di spade, con tutti i suoi difetti ed il suo essere letteratura “semplice”, è scritto bene, è pieno di personaggi interessanti ed è un fantasy che può benissimo piacere anche a chi non mastica il genere, perché in realtà quello di Martin è un mondo che richiama molto l'epoca medievale, dove ogni tanto si parla di draghi e altre creature fantastiche, ma questo è il massimo di fantasy che c'è dentro. Per il resto, la trama è fatta di intrighi e cospirazioni, e se ci si interessa alla trama il libro scorre che è una meraviglia. L'ho definito un libro da leggere mangiando patatine, perché dovete sapere che io non mangio mai mentre leggo – mangiare mi distrarrebbe, al massimo sorseggio una bevanda calda tra una pagina e l'altra – ma quando prendevo in mano Il trono di spade mi veniva proprio voglia di mangiare patatine, come le serate progettate per guardare un film in compagnia. Per concludere, visto che probabilmente proseguirò la lettura della saga (con molta calma, eh) e che nel corso dei vari libri cambierò idea cinquecentomila volte come tutti, penso possa essere divertente fare un piccolo elenco di cose a caso, tipo così:

Personaggi preferiti: Arya, Daenaerys, Eddard, Bran
Personaggi odiati: Cersei Lannister, Joffrey Lannister
Personaggi più ambigui: Tyrion Lannister, Ditocorto
Premio tragedia: Lady, e non aggiungo altro
Premio perle di saggezza: va assolutamente a Tyrion, che appena apre bocca o fa il buffone, o sputa verità esistenziali come niente fosse, le vie di mezzo non gli piacciono
Premio lacrimoni: se lo becca Jon Snow, che sbaraglia tutti quanti prendendosi a cuore Sam, l'ultimo arrivato nella confraternita e pure sfigatello sotto molti punti di vista

Bene, volevo essere breve ed ho qualche dubbio sulla riuscita di tale proposito, perciò taglio e sorvolo su lunghe conclusioni e vi auguro buone letture ed un ottimo proseguimento di giornata.
A presto!

sabato 16 giugno 2018

Suite francese, Irène Némirovsky

Suite francese. Il romanzo più celebre di Irène Némirovsky, sicuramente una tra le più prolifiche scrittrici della prima metà del Novecento, autrice che prima d'ora avevo incontrato soltanto una volta con il racconto breve intitolato Il ballo. Quella volta però non era successo niente tra me e lei - non era scattata la scintilla, né c'erano state delusioni ed incomprensioni; semplicemente, quel racconto così breve che era come un lampo che squarcia all'improvviso il buio, illuminando una minuscola porzione della vita e della storia della stessa scrittrice, a me non era bastato. Mi era sembrato di prendere un frettoloso caffè con Irène, uno di quelli che ti fa piacere condividere con la tua migliore amica perché tanto sapete tutto l'una dell'altra, e vedervi anche solo cinque minuti in certi periodi è comunque meglio di niente; ma con un'estranea, una con la quale avete scambiato giusto qualche occhiata ed a malapena qualche parola, e che sentite potrebbe diventare una cara e sincera amica, un appuntamento toccata e fuga non basta di certo. Siete ancora ferme sulla soglia dei rispettivi animi, c'è così tanto da sapere, da rivelare e da scoprire. Così tanto ancora da reciprocamente scambiarsi, che quel caffè buttato giù tra il saluto iniziale e quello di commiato era ancora troppo caldo, ha avuto come unico effetto quello di scottarci la lingua ed il palato, e poi era amaro, perché non ci si era presi nemmeno il tempo di mescolare bene lo zucchero. E' un po' questo l'effetto che mi aveva fatto leggere Il ballo, e quando voltando l'ultima pagina avevo visto Irène rivolgermi un ultimo, distratto sorriso per poi andar via a passo svelto, avevo provato quell'insoddisfazione che ti lasciano soltanto le cose a cui tieni. In quel fugace incontro avevo intravisto la possibilità di un'amicizia duratura, c'era qualcosa in chi scriveva che mi attraeva, come può attrarti una persona con la quale senti istintivamente una forte affinità. Sono passati anni, tra quel primo caffè preso di fretta e senza dirci molto, ma questo non è importante; ciò che conta è che stavolta io ed Irène ci siamo date un appuntamento fissato con molto, molto anticipo. Ci siamo preparate con tutta la calma del mondo, curando ogni dettaglio - dalla ciocca di capelli che continuava a sfuggire dalla pettinatura, alla manicure, alla scelta degli accessori - per presentarci eleganti ed ordinate in un ristorante di lusso. Perché Suite francese è stato un lentissimo ed intimo appuntamento a cena, solo io e lei in una sala accogliente e silenziosa. Lume di candela, le mie domande, le sue storie.

Vi dico la verità: questo romanzo spaccato a metà e privato della sua degna conclusione, non mi ha emozionata e coinvolta come potreste immaginare dal trasporto con cui l'ho introdotto. Ma c'è un ma, forse anche più di uno. Il primo è che in questa occasione, ho potuto finalmente conoscere effettivamente il talento letterario della Némirovsky, che se ne Il ballo aveva avuto troppo poco spazio per manifestarsi, qui di spazio ne ha in abbondanza. Irène Némirovsky scrive benissimo, e questo è il modo più banale in assoluto di dirlo, ma anche il più chiaro e diretto che io conosca, ed in certe occasioni non sono necessari grandi giri di parole per esprimere un concetto. Irène Némirovsky scrive(va) benissimo e questo è quanto, a cui poi potrei aggiungere una serie di considerazioni personali sui motivi per cui lo penso. Innanzi tutto, in Suite francese passiamo per una moltitudine di personaggi, o per meglio dire attraverso una serie di nuclei familiari - cosa che ritengo ulteriormente interessante - di estrazione sociale sempre diversa. Abbiamo la famiglia di nobili ed antichissime origini piena di figli e di tradizioni; i coniugi della più umile borghesia; la coppia instabile dell'artista con la sua musa; l'irriducibile scapolo benestante ed avaro; la gente di campagna. Non c'è niente che accomuni tutti loro, a parte la guerra. Suite francese è nettamente diviso in due parti: nella prima siamo a Parigi, cuore pulsante della civiltà e della vita mondana, nel momento in cui la città deve essere evacuata, perché l'avanzata dei tedeschi è ormai inarrestabile, e tutti i civili devono almeno provare a mettersi in salvo. Assistiamo quindi ai preparativi ed ai movimenti dei nuclei familiari scelti come rappresentanti dalla Némirovsky, e seguiamo il lento e faticoso e travagliato esodo che avrà un esito diverso per ognuno di loro. Immaginate una ripresa a volo d'aquila, che inquadra una massa informe ed indefinita di persone - una folla incalcolabile, che riempie le strade, sgomita per salire su un treno, si accampa in un bosco - e poi la lente dell'autrice che si abbassa e pian piano si avvicina sempre di più fino ad individuare di volta in volta i Péricand, i Michaud, Charlie Langelet o Gabriel Corte.

Nella seconda parte, invece, intitolata Dolce, siamo in un paese di campagna, quando i tedeschi sono ormai i vincitori ed i padroni indiscussi, ed ogni casa del paese ha l'obbligo di ospitare un soldato nemico. L'ostilità dei francesi è totale, ma quei soldati tedeschi sono in fondo dei semplici ragazzi a loro volta strappati dalle proprie case, lontani da una madre anziana o da una novella sposa lasciata sola coi suoi sogni. Ragazzi che stanno sacrificando la propria vita, la propria gioventù, rinunciando ad ogni aspirazione personale, perché costretti a rispettare la logica dell'alveare, rincorrendo i sogni di qualcun altro, di un ideale collettivo che non ammette individualità. Allora capita che, nonostante le barriere culturali e linguistiche, uno di questi giovani mostri ai francesi la foto dei propri genitori, o di quel bimbo appena nato che adesso chissà già quanto sarà cresciuto; ed i francesi, che a loro volta hanno sempre un giovane lontano, impegnato chissà dove, per il quale pregano giorno e notte, quei francesi un po' si commuovono e allora si beve qualcosa tutti insieme per dimenticare almeno un secondo tutto quell'insensato dolore. In particolare, all'interno di Dolce ci spostiamo tra casa Angellier, dove Lucile vive sola con la suocera e dove viene stabilito il tenente Bruno von Falk, un uomo buono, gentile e sempre rispettoso; e la fattoria dei Labarie.

Il paragrafo che però più in assoluto mi ha fatto saltare all'occhio la bravura della Némirovsky parla di un gatto. Ebbene sì, di un gatto, estraneo, ignaro ed incurante delle guerre degli uomini. Un gatto di casa, che gode del posto d'onore sul letto ai piedi della padroncina e che, non appena la casa dorme, viene incuriosito da un odore che s'infiltra dalla finestra aperta e che gli stuzzica le narici. Allora lui, furtivamente, si alza e senza farsi notare da nessuno sgattaiola fuori. Salta per i tetti ed i davanzali, fino a raggiungere la strada con un salto misurato e sicuro. E lì resta per un attimo fermo, i baffi e le orecchie tese a percepire l'intera città. Ecco, in quel paragrafo il lettore diventa il gatto, e prima ancora - scrivendolo - Irène Némirovsky si era fatta gatto. Può sembrare un momento frivolo, rispetto a contenuti più importanti del libro, eppure credo sarà ciò che mi rimarrà più a lungo impresso, perché il modo in cui è scritto e descritto è semplicemente sublime.

La prima e la seconda parte, comunque, sono collegate da un filo sottilissimo, che ci viene mostrato soltanto per brevi istanti. Come se l'autrice ci mostrasse i due capi, le due estremità, ma poi tendere quel filo è un lavoro che spetta unicamente a noi. Tuttavia, non posso far a meno di chiedermi - con un po' di rammarico - cosa ne sarebbe stato di Suite francese se Irène (perdonami la confidenza, ma ormai ti sento già un po' più amica) avesse potuto terminarlo. Forse Dolce sarebbe stato soltanto un altro necessario passaggio, e pian piano quel filo sarebbe passato per altre estremità, collegando tutti i punti disseminati tra una pagina e l'altra. Purtroppo non lo sapremo mai, e dovremo accontentarci di un finale che non è il vero finale, eppure non lascia insoddisfatti nel bel mezzo della frase: anzi, il finale è stato proprio il momento che mi ha ripagata di una lettura non semplicissima. Perché devo ammettere di averci messo un sacco di tempo a leggere Suite francese, che almeno nei miei confronti si è imposto come uno di quei romanzi che non ammettono la fretta, la superficialità, la scarsa attenzione; è stato uno di quei libri che decide al posto mio il ritmo di lettura e che mi impone di andare piano - piano - e di ascoltare senza interrompere. E' stato faticoso a volte, ogni tanto avrei voluto dire la mia oppure fare una pausa o ancora, che ne so, ricevere in premio un momento di leggerezza. Invece no, nessuna concessione fino a questo finale che per me è stato il momento più alto di tutto il libro. Una riga dopo l'altra, cominciavo a sentirmi come riempita, per poi infine sciogliermi in pianto. Era tanto che non piangevo con un libro, ed è stato inaspettato perché in fondo non mi ero affezionata particolarmente a nessuno dei personaggi, ma al contempo è stato inevitabile ed anche molto bello.

In definitiva, non credo che consiglierei Suite francese a chiunque. Se ci penso, vedo molti lettori e lettrici che potrebbero arrancare attraverso tutte queste pagine, spesso faticose e che non sempre fanno la grazia di ricevere la ricompensa. C'è chi senza dubbio si sorprenderebbe a sbadigliare, con la sensazione che non succeda niente o che le stesse cose continuino a ripetersi. Però, c'è una fetta di pubblico per il quale Suite francese potrebbe rivelarsi una lettura forse non fondamentale, ma comunque imprescindibile. Penso a quel tipo di persone che Leopardi definiva anime sensibili, quelle che sanno cogliere il senso meno ovvio della bellezza, quelle che per natura si spingono a scavare più a fondo nelle cose. Ecco, per un animo sensibile leggere Suite francese è qualcosa di quasi inevitabile, anche se non so spiegarne il motivo. Perché io per prima non l'ho amato follemente, non ci sono entrata dentro con tutte le scarpe come succede in altre occasioni; forse perché sembrava tutto troppo reale, ed alla vita vera non ci si appassiona come ad un telefilm: la si osserva, la si comprende e quando non ci riguarda in prima persona ce ne teniamo a cortese distanza per evitare di infiammarci troppo ed inutilmente. Questo è quello che sento nei confronti di Suite francese, un romanzo troppo vero per essere soltanto un romanzo. E sento, in ogni caso, di aver aggiunto un tassello importantissimo al mio percorso da lettrice.

lunedì 11 giugno 2018

"Quali sono i tuoi jeans preferiti?" - Quelli che mi entrano.

Io sono una Donna a Pera. Per coloro che non si fossero mai addentrati nell'affascinante mondo della definizione del corpo della donna secondo precisi parametri fruttiferi, spiego cosa significhi essere una donna a forma di pera. Caratteristiche principali: disequilibrio, una sproporzione tra la parte alta e la parte bassa del corpo, nello specifico spalle e torace tendenzialmente più piccoli dei fianchi. Detto in parole povere, essere una donna a pera significa che non hai le tette ma in compenso cosce e sedere abbondano. Ciò potrebbe diventare interessante, se fossi una donna tipo Jennifer Lopez o una Kardashian (che sull'abbondanza delle chiappe ci hanno tirato su un business!), ma quando sei una ragazza normalissima come me, che non nutre neanche grandi simpatie verso il mondo dell'attività fisica, avere un corpo a forma di pera presenta sicuramente più svantaggi che attrattive. Innanzi tutto, avere il corpo a pera fa sì che anche se mangio una mentina, questa si depositerà sempre e soltanto sul sedere e sui fianchi. I problemi maggiori, però, vengono sicuramente nel momento in cui bisogna vestirsi. Solo negli ultimi anni - dopo un'intera vita passata ad avere crisi isteriche pensando che non mi stesse bene nulla - mi sono decisa a studiare la questione, per capire finalmente come accidenti dovrei abbigliarmi per risultare per lo meno decente. Ho scoperto che la mia epoca erano gli anni Cinquanta  (grazie, grazie molte) ed ho scoperto anche una punta di cattiveria da parte delle Donne Mela, Donne Banana, Donne Rettangolo, Donne Clessidra e via dicendo, che affermano cose come: voi, Donne Pera, vi siete prese tutti gli anni Cinquanta, ora tocca a noi! Ah, okay, scusate, avrei voluto mormorare io, rammaricata per aver rubato la scena e monopolizzato la moda quando neanche ero nata. Gli anni Cinquanta, a quanto pare, erano l'epoca perfetta per le Donne Pera, perché il nostro punto di forza, il Pregio Supremo sul quale concentrare tutta la nostra immagine, è il punto vita; perciò noi Donne Pera vestendoci dobbiamo pensare a come mettere in risalto la nostra vita sottile, concentrando lo sguardo di chiunque incontreremo su quella, distraendolo abilmente dai fianchi e dalle cosce che, poco più sotto, si espandono senza misura. Negli anni Cinquanta giocare con questo trucco era fin troppo facile, con quegli abiti svolazzanti che facevano tutto al posto nostro: erano già ripresi in vita, per poi allargarsi in gonne ampie che nascondevano tutto ciò che c'era da nascondere.

Purtroppo però sono una Donna a Pera di epoca moderna, ed anche una donna che ama vestirsi in modo sì stiloso, ma pratico e comodo: ergo, preferisco i pantaloni ed i jeans ai vestiti ed alle gonne, che restano per me indumenti da sfoggiare per le Occasioni Speciali. Le linee guida per la sopravvivenza della Donna a Pera dicono che devo indossare pantaloni a vita alta, rigorosamente neri o scuri, da abbinare per contrasto a maglie e camicie dai toni chiari, volendo anche super colorate. Della serie: acceca il nemico con un colore talmente acceso che lo colpirà come un pugno dritto in un occhio, e non avrà più alcun modo per accorgersi del sedere abbondante. A patto che la suddetta maglietta sia infilata ad arte dentro i pantaloni per evidenziare la vita sottile, altrimenti il piano fallisce.

La mia vita è complicata.

E si complica ulteriormente quando arriva il terribile, tremendo, spaventoso momento di comprare un paio di jeans. Forse, voi donne che somigliate ad altri frutti, non conoscete e non immaginate le mille difficoltà cui va incontro una povera Donna a Pera come me. Già, perché puntualmente, qualsiasi modello di jeans io scelga, non avrà mai senso. La prima grande prova avviene proprio nel camerino: mentre li infilo e sono ancora ad altezza polpacci, sudando freddo mi chiedo riusciranno questi bellissimi jeans a superare i fianchi? Ma anche quando questo accade - quando la prima temibile prova viene superata - il dramma non è ancora finito. Perché di solito, se i jeans si chiudono sono troppo lunghi, e cadono malissimo sulle mie gambe sproporzionate. Quando invece sono perfetti di lunghezza, non c'è verso che il bottone si chiuda.

Ecco perché, quando tempo fa ho fatto la follia di acquistare un paio di jeans online, li ho attesi con la stessa angoscia con cui si aspetta il risultato di un esame importante. Quando una mattina mi sono alzata ed il pacco era arrivato, l'ho aperto piena di paure e di speranze; mi sono spogliata in salotto, non potendo attendere neanche un secondo per sapere la verità. I nuovi jeans sono scivolati tranquilli oltre i polpacci, oltre le ginocchia, le cosce, contenendo senza troppi sforzi anche quell'abbondante sedere tipico della Donna a Pera, ed infine...

...il bottone che si chiude, la cerniera che si tira su liscia come l'olio.

Ho un nuovo paio di jeans.

domenica 3 giugno 2018

I parassiti, Daphne Du Maurier

Io lo sapevo, che avrei dovuto buttar giù il mio commento su I parassiti di Daphne Du Maurier appena terminata la lettura, cosa avvenuta verso la metà di maggio. Uno di quei commenti a caldo, appassionati, in cui non ho proprio idea di cosa avrei scritto ma sicuramente sarebbe stato viscerale, pieno di trasporto verso un romanzo che - in maniera totalmente inaspettata - mi aveva inghiottita nelle sue pagine per poi risputarmi fuori senza pietà soltanto alla fine, con la sensazione di esser stata masticata senza pietà.

Già, perché questo è un romanzo che non offre consolazione. Un romanzo sfarzoso pieno di desolazione emotiva, nella quale il lettore entra in punta di piedi per poi trovarsi in piedi al centro di un salotto, in mezzo ad una specie di famiglia mai vista prima. Conoscete quel disagio? Il disagio di essere l'unico estraneo tra persone che si conoscono benissimo, che si capiscono al più lieve vibrare di un sopracciglio, eccola la prima sensazione che ho avuto. C'era un salotto, e c'erano Niall e Mary e Celia che parlavano, che stanchi ed infaticabili rivangavano un passato comune, comune a loro ma non a me. Fin quando pian piano, un pigmento alla volta, il quadro ha cominciato a prendere forma, ed ho imparato a conoscere Mamma e Papà e la storia tutta.

Una storia che parla di una famiglia, anzitutto, una famiglia itinerante e certamente atipica. Famiglia d'arte, senza regole all'infuori del sacro rispetto per i palcoscenici dei teatri, senza altro rispetto che quello per le prove ufficiali di ogni spettacolo. Una famiglia in cui infanzia è sinonimo di libertà selvaggia, e crescere diventa di conseguenza qualcosa di ancor più spaventoso - l'età adulta un luogo ostico ed ostile, scomodo, fastidioso; ma loro, Niall e Mary e Celia forse non sono mai cresciuti veramente, non come capita agli altri: loro son rimasti dei bambini insoddisfatti e capricciosi dentro corpi più grandi, incapaci di guardare oltre se stessi e di risolvere i propri contenziosi psicologici.

C'è qualcosa che spacca anche loro tre, Niall e Mary da una parte e Celia dall'altra. Una separazione netta, come un solco che divide a metà la terra e che non può essere oltrepassato con un balzo. Una separazione che ha a che fare con qualcosa di indefinibile, perché tutti e tre son soltanto fratellastri, è a metà anche lo stesso sangue che scorre nelle vene di Niall e di Mary; eppure loro sembrano la stessa persona maldestramente distribuita in due corpi, sembrano uno scherzo del destino perché due tipi così avrebbero dovuto amarsi fino a farsi male, impetuosamente e come due amanti, non come fratello e sorella. Eppure è andata così, e Niall e Mary si sono lo stesso amati impetuosamente, ma senza scenate, senza gelosie, senza nessuna espressione carnale. Come due anime che si trovano, si riconoscono tra tante, e non si lasciano più andare. Perché nessun altro conosce e capisce Mary come Niall, e Niall pensa soltanto a lei quando compone le sue canzonette da quattro soldi.

Dall'altra parte del solco, sta in piedi da sola Celia. Bambina goffa, premurosa, dolce e grassottella, che rincorre gli altri due ma non riesce mai ad essere sulla stessa lunghezza d'onda. Sempre uno o due passi indietro. Che brava bambina Celia, la più buona dei tre. Tanto buona da non poter fare a meno di prendersi cura di Papà, di stargli accanto fino all'ultimo e per sempre, contenendo tutte le sue insicurezze, le sue sofferenze e le sue manie. Ed i tuoi disegni, Celia? Che fine hanno fatto i tuoi disegni? Sono lì, proprio lì in una cartellina, li riprenderò presto. Intanto Mary calca il palcoscenico, Niall è dietro un pianoforte tra la Francia e l'Inghilterra ed il tempo passa.

I parassiti non parla di molte cose, ma è il modo in cui ne parla a travolgere il lettore, soprattutto quando arriva a questo libro come ci sono arrivata io, senza aspettative e senza pretese. E' stato il mio primo approccio a Daphne Du Maurier, incontro che ha provocato scintille e che mi lascia ben sperare per il percorso di scoperta che ho intrapreso nell'opera dell'autrice.

L'atmosfera decadente, la minuziosa indagine psicologica dei personaggi, la storia di un'eredità artistica e delle lotte interiori con un presunto talento. Il fascino di questo romanzo ai miei occhi è indescrivibile, anche perché lo stile della Du Maurier mi ha spiazzata: scritto nel 1949, è di una modernità incredibile. Inoltre anche la tecnica con cui il romanzo è costruito - l'architettura su cui poggia la trama - dimostra una maestria degna di nota. Reputo molto complicato da gestire il modo in cui l'autrice ha distribuito la narrazione, mescolando e scoprendo le carte del passato e del presente senza mai creare confusione o far perdere la bussola al lettore. Il suo gioco dei salti temporali per me è stato molto stimolante, perché il presente diventava in continuazione un tizzone che stuzzicava la fiamma della mia curiosità.

Venendo poi ad un dettaglio prettamente personale, il personaggio cui mi sono più affezionata è stata Celia, ebbene sì, la trascurabile Celia. Il modo in cui la penna della Du Maurier l'ha tratteggiata è magistrale, anche perché Celia è tutt'altro che banale o scontata, proprio al contrario: forse è il personaggio più ambiguo tra tutti e tre. Perché Mary e Niall, nel bene e nel male, tra tutte le fessure e le stranezze del loro animo, si mostrano e soprattutto si vivono per quel che sono. Celia, al contrario, è una finta vittima. Ha subito una lunga serie di eventi, ma prima ancora ha accettato di subirli per paura dell'alternativa. Alternativa che sarebbe stata, semplicemente, vivere la propria vita. Percepirsi come individuo con il proprio bagaglio di sogni, di gusti, di esigenze e di fragilità e di farsi percepire dal resto del mondo come tale, con le conseguenze del caso - fischi, oltre agli applausi, ed il rischio di essere delusi, feriti e tutto il resto. Sinceramente, Celia è stata anche capace di commuovermi.

Daphne Du Maurier
Insomma, questo romanzo si prende da parte mia cinque stelle piene. Come forse qualcuno di voi saprà, ho tentato di avviare un gruppo di lettura per questo romanzo, pur essendo consapevole che avendo ben poco seguito non poteva esserci chissà quale riscontro. Sono comunque felice che almeno un paio di persone sono attualmente occupate nella lettura, e spero vivamente che ne usciranno entusiaste quanto me. Nel frattempo, penserò a quale libro della Du Maurier dedicarmi durante il mese di giugno. Vi ricordo che, qualora vogliate partecipare, potete segnalarlo usando l'hashtag #unadaphnealmese.

Vi auguro un buon inizio di settimana,
e buone letture!

Anna Karénina, Lev Tolstòj

Anna Karénina , Lev Tolstòj, Russia 1875-77 – ma anche qualsiasi altro luogo e tempo dacché esistono l’uomo e la donna. Il commento al rom...