venerdì 2 luglio 2021

Anna Karénina, Lev Tolstòj

Anna Karénina, Lev Tolstòj, Russia 1875-77 – ma anche qualsiasi altro luogo e tempo dacché esistono l’uomo e la donna.

Il commento al romanzo con l’incpit universalmente riconosciuto come il più bello della letteratura mondiale – “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo” – meritava un’apertura altrettanto incisiva. Ma non è soltanto per far colpo su chi eventualmente mi sta leggendo che, nel momento in cui questa frase di apertura mi è venuta in mente, mi sono affrettata ad appuntarla prima che mi passasse di mente: è un pensiero onesto e sincero, che la penna di Tolstòj mi ha suscitato pagina dopo pagina. Quest’opera mi ha aspettata pazientemente, su uno scaffale della mia libreria, per anni. E’ un fatto curioso, ma per almeno gli ultimi due o tre mi ripromettevo di leggerlo a febbraio: chissà perché proprio il mese più corto dell’anno mi sembrava quello giusto per un romanzo così lungo e corposo. Alla fine comunque è stato davvero in febbraio che mi sono imbarcata per la sconfinata Russia, scoprendo luoghi da cui non avevo mai veramente voglia di andar via. La lettura di Anna Karénina sarà per sempre legata al tepore del fuoco, anche quando febbraio scivola in marzo e paradossalmente alle prime giornate di sole seguono serate ancora più fredde. E avrà il sapore di quelle serate, segnate dalla ricerca costante di silenzio per non perdere alcun dettaglio tra le righe, accompagnate dal sorseggiare lento di una tisana calda o di un calice di vino rassicurante.

In queste pagine si entra in punta di piedi, resi timidi da un certo timore reverenziale per questo autore che, in vita, fu osannato come un profeta e che da morto non gode certo di minor fama. Ma la timidezza non dura a lungo, ce la si dimentica ben presto sulla soglia del primo capitolo, perché fin da subito tutto è così vivo, movimentato, i personaggi descritti tanto magistralmente che è impossibile opporre alcun tipo di resistenza. Si viene catapultati al centro di un vortice di luoghi, eventi, persone, sentimenti che sembra di non aver mai visto prima – talmente potenti, così ben scritti – eppure di riconoscere alla perfezione come qualcosa di visto o vissuto. Un paradosso irrisolvibile ma chiarissimo, perché Tolstòj parla di tutti noi con una capacità di osservazione fuori dal normale ed una conoscenza intima di un caleidoscopio di caratteri,  e lo fa scrivendo come probabilmente non ha mai scritto nessuno né prima né dopo. E’ impossibile, secondo me, dire che un autore sia il migliore mai esistito. Di Tolstòj mi sento però certamente in grado di dire che egli è stato unico e che semmai fosse possibile fare una radiografia dell’anima – beh, lui c’è andato molto vicino.

I personaggi

I personaggi di Anna Karenina sono tutti collegati tra loro da rapporti di parentela, amicizia o amore. Il primo che incontriamo è Stepàn Arkàd’ič, da tutti chiamato Stìva, ed è con lui che assistiamo al primo tradimento. Egli non è pentito del proprio comportamento, il suo unico rammarico è anzi quello di essere stato scoperto. Stìva è lo stereotipo dell’uomo leggero e mediocre, che Tolstòj riesce a descrivere in modo sintetico ma centrando in pieno il punto in passaggi come questo:

“Si atteneva fermamente alle opinioni sostenute dalla maggioranza e dal suo giornale e le cambiava solo quando la maggioranza le cambiava, ovvero, per dirla meglio, non era lui a cambiare le opinioni, ma loro stesse a cambiarsi inavvertitamente in lui.”

A dimostrare ulteriormente la superficialità di Stìva viene spesso ribadito come egli fosse amico di tutti, come venisse accolto con gran gioia ovunque andasse, nonostante probabilmente tutti questi amici non avrebbero saputo dire quali fossero le sue effettive qualità. Proprio per questi motivi all’inizio si ha – se non una vera antipatia – quanto meno una certa diffidenza nei suoi confronti, ma si finisce chissà come con l’accettarlo per quello che è, riservandogli la medesima benevolenza nutrita da quelli che lo circondano, perché è instancabilmente allegro e di buonumore e nei suoi infiniti difetti e mancanze cerca spesso di fare del bene.

Vittima di questo primo tradimento è sua moglie, Dàr’ja Aleksàndrovna, detta semplicemente Dolly. La prima immagine che abbiamo di lei è per ovvi motivi quella di una donna fragile, ferita e che si fa rappresentante di un’esperienza comune – almeno una volta nella vita – a tutte le donne del mondo: la caduta delle illusioni amorose, quel momento in cui il velo si squarcia e gli occhi che hanno guardato ingenuamente (e puramente) all’uomo amato sono costretti a vedere che egli è diverso da quello che si credeva. Per molti versi, Dolly rappresenta il tipico angelo del focolare, ma col proseguire del romanzo dimostra di essere anche una donna molto forte, estremamente pratica, razionale, capace di accettare la realtà e soprattutto di trarre il meglio da ciò che possiede e che è in suo potere. Per queste ragioni, per la sua profondità, la capacità di fare lo sforzo di comprendere l’altro e per certi versi anche la sua apertura mentale, è un personaggio che mi è piaciuto molto.

Sorella di Dolly è Ekaterìna Aleksàndrovna, chiamata dagli intimi semplicemente Kitty. Kitty è una ragazza giovane, tutta intenta a compiere i primi passi verso l’intricato mondo degli adulti. Nel suo tempo e nella sua società, questo significa per lo più poter – e dovere – prendere parte agli eventi mondani e, neanche a dirlo, fare colpo su un buon partito. Kitty, in questi suoi primi passi, ci appare molto ingenua, e proprio a causa della sua evidente inesperienza commette degli errori. Errori innocenti, ai nostri occhi, ma per i quali lei non riuscirà a perdonarsi facilmente. Kitty si allontana temporaneamente insieme ai genitori, per una di quelle vacanze ristorative di spirito e salute di cui leggiamo sempre nei romanzi ottocenteschi; in questa sua parentesi di riposo, però, ho visto in realtà il suo percorso di ricerca di sé: trovando un modello in una nuova amica, Kitty si interroga su se stessa e compie senza ombra di dubbio una di quelle evoluzioni invisibili e silenziose che tanto piacciono a me. In tutto il resto del romanzo, Kitty dimostra una spiccata sensibilità e di sapere il fatto suo. Similmente alla sorella Dolly, Kitty è un personaggio femminile, nel senso più nobile del termine. E’ dolce, romantica, ha un forte senso materno ed un’istintiva capacità di agire, che la rendono capace di prendersi cura dell’altro anche sotto pressione o in frangenti delicati. Se non si fosse già capito, Kitty è uno dei miei personaggi preferiti.

Stìva invece è niente meno che il fratello della nostra protagonista, Anna Arkàd’evna Karénina, la quale fa nel romanzo un ingresso trionfale: arriva a Mosca per tentare di riportare la pace tra il fratello e la cognata (Dolly) – ed è un po’ assurdo che Tolstòj affidi proprio a lei questo compito. Sin dalla prima riga la si percepisce come una figura molto carismatica, bellissima ed elegante in modo diverso dalle altre donne, in una parola: affascinante. Fin dal viaggio di ritorno a casa però, a San Pietroburgo, la sua immagine cambia radicalmente: è come se perdesse le energie, la vediamo afflosciarsi al pari di un fiore rimasto senz’acqua. Anna Karénina è un personaggio sfuggente ed ambiguo, che non si riesce a condannare del tutto – perché chiunque proverebbe comprensione per la sua infelicità – ma nemmeno si sta dalla sua parte incondizionatamente. I suoi comportamenti, infatti, sono spesso a dir poco discutibili, il più delle volte sembra una persona che non sa cosa vuole e che nemmeno compie lo sforzo di provare a capirlo una volta per tutte. Uno degli strappi fondamentali della sua esistenza è sicuramente la lacerazione che viene a crearsi in lei tra il senso ed il dovere della maternità, e la passione. Nel vuoto che si crea da questo strappo si colloca la sua scelta di abbandonare l’amato figlio, una scelta per cui Anna non va certo demonizzata, ma ancora una volta lei non sembra convinta fino in fondo delle proprie azioni e sembra quasi che non faccia altro che fare passi avventati sulla spinta di emozioni proprie o – peggio ancora – altrui. Nessuno potrebbe negare, credo, che Anna Karénina sia uno dei personaggi più emotivi della storia.

Parte dei problemi di Anna derivano dal suo essere infelicemente sposata ad Alekséj Aleksàndrovic Karénin, che inaspettatamente ho trovato essere uno dei personaggi più interessanti dell’opera. Egli è l’esatto opposto di Anna, è un uomo dominato dalla razionalità, un burocrate da sempre dedito alla carriera, che lei percepisce come freddo, noioso, incapace di provare qualunque sentimento. Ma se a primo impatto è fin troppo facile mettersi dalla parte di Anna e giudicarlo allo stesso modo, proseguendo nella lettura si scopre che non è affatto vero: pur essendo di sicuro molto razionale e poco passionale, Karénin è profondamente umano e trovo che lui capisca lei molto più di quanto lei non capisca lui. Egli cova i propri pensieri e sentimenti e più di una volta compie anche il tentativo di comunicarli alla moglie, stabilendo con lei un vero dialogo; ed è lei che, col suo atteggiamento prevenuto e giudicante, lo fa ritrarre istintivamente. A questo punto lui adotta modalità sarcastiche e minimizzanti per autodifesa. Come padre, invece, è un totale disastro: quando si trova da solo col figlio si rivolge ad un bambino ideale e non al bambino in carne ed ossa che ha davanti, e che si trova in estrema difficoltà.

Per certi versi distaccato da tutti loro, ma legato da amicizia prima e parentela acquisita poi, c’è un personaggio che ho scoperto dividere nettamente i lettori, tra chi lo adora e chi l’ha mal sopportato al punto di saltare a volte le pagine che riguardavano lui solo: sto parlando di Lèvin che io – indovinate un po’ – ho amato tantissimo sin dalla sua prima apparizione. Oltre all’affetto che nutro per lui però, è un personaggio particolarmente importante, perché è lui ad essere specchio e portavoce di Tolstòj. Basta leggere anche le brevi note biografiche dell’autore ad inizio o fine romanzo per ritrovare tantissime comunanze, di pensiero o di vissuto. Lèvin si distingue da tutti gli altri personaggi per il suo rifiuto della vita mondana: egli è infatti dedito alla vita bucolica ed al lavoro, tormentato da una spaccatura interiore tra l’agio di cui gode per la propria condizione sociale di nascita, ed i propri valori e principi che lo portano vicino alla condizione miserevole dei contadini russi. A livello personale, invece, Lèvin non ha altro che un forte desiderio di una propria vita famigliare e domestica tranquilla e felice. Sempre mosso da sentimenti veri ed onesti, incapace di sotterfugi e finzioni, è un uomo puro, a tratti ingenuo, dolce, caparbio, capace di ricredersi e di amare.

Karénin e Lèvin avranno un rivale in comune: il conte Vrònskij. Anche lui è un personaggio sorprendente, perché se all’inizio l’ho odiato senza riserve, ne ho pian piano scoperto la stratificazione che, se non me lo ha reso simpatico, ne ha fatto come nel caso di Karénin una figura più interessante di quanto sembrasse. Egli si configura dapprima come un uomo frivolo e superficiale, un po’ come Stìva ma connotato da un tratto meschino. Si innamora di Anna e, contrariamente a ciò che ci si aspetta dalla sua natura di donnaiolo, è capace di restarle fedele nelle traversie, ed anche di compromettersi e fare rinunce pur di restarle accanto. Il però sta nell’evidenza che Vrònskij è una di quelle persone che ha bisogno del desiderio e della fatica necessaria a raggiungere l’oggetto del desiderio, che una volta ottenuto viene a noia. Se ciò non è evidente già nel suo rapporto con Anna, lo diventa senz’altro nel suo rapporto con l’arte, alla quale si dedica proprio nel momento in cui la passione amorosa non è più la stessa dei primi tempi. Anche il disegno, una volta fatto il massimo che la propria capacità gli consentiva, viene abbandonato perché non ha altro da dargli. Per gran parte del romanzo mi son chiesta cosa mai avesse Vrònskij per conquistare Anna al punto da stravolgere la propria esistenza. Senz’altro ha quel tratto passionale mancante al marito, ma oltre questo?

Anna vs. società

L’ambientazione si sposta continuamente tra i due poli cittadini di Mosca e San Pietroburgo, dalle quali si hanno parentesi di pausa ed a cui – soprattutto – si contrappone il modello della vita in campagna, in cui la natura ed il lavoro fisico rappresentano delle vere e proprie possibilità alternative, salvifiche per l’uomo che non si rispecchia e che non vuole inserirsi nel contesto offerto dalla routine mondana. Lo sguardo, l’esempio e la lente d’ingrandimento sulla vita bucolica li dobbiamo ovviamente a Lèvin; tornando invece al discorso sulle città, entrambi i due grandi poli russi si fanno teatro della rappresentazione di una vita mondana totalmente frivola, dominata dai salotti dell’alta società nei quali regna sovrano il pettegolezzo: l’alta società russa risulta intrisa di falsità, abbondano i matrimoni di facciata – quasi tutti i mariti hanno l’amante, i tradimenti sono risaputi ma accettati finché vengono salvate le apparenze.

Verrebbe da chiedere: e perché Anna allora fa eccezione?

Proprio perché lei va oltre, rendendo palese e lampante la sua relazione extraconiugale con Vrònskij fino al punto di fuggire con lui, auto-condannandosi ad essere una donna perduta. Il punto di non ritorno nella sua condotta è rappresentato da una scena in cui, proprio in uno di quei salotti alto-borghesi, Anna si apparta a parlare col suo amante in privato, a lungo, sotto gli occhi di tutti scatenando subitaneamente bisbigli ed indignati commenti sottovoce. Ma cos’è che allora viene effettivamente condannato dalla società, il tradimento in sé o piuttosto il coraggio di essere trasparente, coerente con se stessa e la forza di assumersi la responsabilità delle proprie scelte ed azioni? La società – o meglio i suoi membri – vivono infatti secondo convenzioni e convenienze, scegliendo sempre ciò che risulta più semplice, vantaggioso, che comporta meno sacrificio; Anna, in un certo senso, col suo comportamento sbatte in faccia a tutti l’ipocrisia che domina le loro esistenze ma, come spesso accade, piuttosto che accogliere l’elemento critico, di rottura, come possibilità di riflessione ed evoluzione, esso viene allontanato e stigmatizzato, al fine di non mettersi in discussione e non rischiare.

D’altro canto, Anna – come Emma Bovary – sembra già in partenza votata all’infelicità, senza molte possibilità di salvezza. Come accennato precedentemente, mi son chiesta più volte durante la lettura del romanzo se lei amasse davvero Vrònskij, o se lo amasse solo in quanto antitesi di ciò che ormai odiava nel marito. In quest’ottica, Vrònskij diventerebbe poco più che uno strumento per evadere dalla prigione del matrimonio.

Silenziose corrispondenze: Anna e Lèvin

Una delle cose che mi hanno più colpito, e sulle quali mi sono soffermata a riflettere, è che ho riscontrato un’inaspettata forte somiglianza nei personaggi di Anna e Lèvin. Entrambi infatti subiscono un cambiamento interiore innescato da uno spostamento fisico: Anna che si reca a Mosca in aiuto del fratello e della cognata, Lèvin che va in città colmo di dubbi e speranze per chiedere la mano di una donna; prima di subire questo cambiamento fondamentale sono accomunati – secondo me – da un tratto che li rende due sognatori. Entrambi, proprio nel momento in cui sono lontani dalle rispettive quotidianità, si concedono di far vivere quel sognatore che alberga in loro. Al momento del ritorno a casa entrambi, facendo i conti coi propri desideri frustrati, tentano di nuovo di rinchiudere e soffocare dentro di sé il sognatore, e lo fanno proprio mediante il ritorno meticoloso alla quotidianità brevemente lasciata. Tolstòj dedica tanto all’uno quanto all’altra paragrafi in cui descrive meticolosamente le stanze – non posso dimenticare lo studio di Lèv, lo scrittoio di Anna – in cui entrambi, raccontandosi di essere indaffarati con carta e calamaio, fanno del proprio meglio per autoconvincersi che quella sia la loro unica vita possibile, faticando a dominare una mente – un cuore – che invece desidera ardentemente ben altro. Questo ritorno quindi, nella penna di Tolstòj, passa attraverso i cinque sensi, attraverso il contatto fisico con gli oggetti conosciuti contenuti nella casa, che però – per entrambi – sembra avere una connotazione ambivalente: quella della familiarità, che da un lato porta la consolazione delle cose note, conosciute, rassicuranti, ma dall’altro è contenitore di assenza di novità, stimoli, di sentimenti che facciano sentire vivi.

In questo ritorno sia Anna che Lèv tentano di re-inserirsi, ma lo fanno cercando di spegnersi e rendersi quasi un semplice accessorio in più dell’ambiente cui appartengono. Una rassegnazione che però ben presto si rivela impossibile, perché loro per primi sono tutt’altro che convinti di rinunciare per sempre ai propri desideri. Ed è a questo punto che scatta prepotente la ribellione, che in Anna si manifesta naturalmente nella relazione e poi nella fuga con Vrònskij, mentre Lèvin getta tutto se stesso – anima e corpo – nel lavoro, cercando di convincersi che esistere in questo ambito gli sarà sufficiente – illusione distrutta istantaneamente nel secondo esatto in cui all’improvviso rivede la donna amata (e quelle, se me lo chiedete, sono tra le pagine più belle di tutto il romanzo).

Questa somiglianza, che almeno io ho riscontrato, è però spezzata da una differenza sostanziale: il sogno di Lèvin è puro, legittimo, non nuoce a nessuno e lui non fa del male nel tentativo di raggiungerlo – al contrario, nel momento in cui gli pare irrealizzabile si ritira in solitudine impegnandosi a dimenticare. Il suo sogno sarà infatti coronato. Quello di Anna, al contrario, è impossibile fin dal principio: anche lei lo realizzerà, ma ad un prezzo altissimo, ovvero ferire tutti quelli che la circondano – in primis l’adorato figlio – e sarà quindi un sogno realizzato senza vera felicità, macchiato da vergogna, rifiuto, rinuncia, mancanze, rancore.

L'assenza di un divenire.

Ultima questione che mi premeva sottolineare riguarda ancora il personaggio di Anna. Conversando per delle ore al telefono con una cara amica abbiamo convenuto su un’impressione, ovvero che Anna Karénina è quel tipo di persona che ha un bisogno viscerale di una propria realizzazione personale, di incanalare tutta la propria energia e passionalità in qualcosa di concreto, di importante e significativo. Non so perché, ma la immaginavo benissimo come un medico di grande successo – oppure con una carriera in campo politico, suggeriva la mia amica riflettendo sul suo eccezionale carisma. Il punto è che, a prescindere dall’uomo di turno, per una come lei non poteva essere sufficiente essere la “moglie di”, “l’amante di”, “la madre di”. Ed è solamente questo, secondo me, il motivo della sua insanabile infelicità, il dramma misterioso che da donna bella ed intrigante la trasforma in anima tormentata, lunatica, irrazionale. La conosciamo solo in questa fase della sua vita, ma non mi sarei affatto stupita se anche in fasi precedenti ella fosse stata preda di profonde crisi, di insoddisfazione, di inspiegabile frustrazione. Ed in quest’ottica – pensando alle sue possibilità mancate, alla persona che forse sarebbe stata se avesse avuto delle scelte – la pena che provo di fronte al suo dolore è inquantificabile.


Abbastanza inutile sarebbe, da parte mia, tentare di commentare la prosa del maestro Tolstòj. La mia copia del romanzo è uscita dalla mia esperienza di lettura segnata quanto me – abbondano i segnapagina, le sottolineature, i commenti a margine, la costa non ha retto ed ha ceduto sotto il peso delle mie emozioni. Più di una volta sono rimasta totalmente basita per come egli avesse trovato le parole giuste per condensare in poche righe complicatissimi moti interiori che, proprio per averli sperimentati in prima persona, non avrei mai immaginato potessero essere spiegati in maniera così chiara e diretta. Se ci avessi provato io, mi sarei sperticata in spiegazioni lunghissime che avrebbero richiesto pagine su pagine.

Altrettanto stupore mi ha suscitato la sua capacità di raccontare l’animo e la sensibilità femminile. Ci sono scene, momenti, sottilissime pieghe del sentire che non credo di esser mai riuscita veramente a spiegare ad un uomo: vederli non solo compresi così a fondo, ma addirittura narrati in una maniera così efficace da un uomo – vissuto tra l’altro secoli fa – mi ha totalmente spiazzata. Sapere che poi, ad esempio, la moglie di Tolstòj ha avuto tutt’altro che vita facile al suo fianco lascia piuttosto perplessi, ma questo è un altro discorso, che forse affronterò il giorno in cui avrò letto i diari di Sòf’ja.

Altri temi: un accenno

Anna Karénina è un romanzo non solo corposo nella mole, ma così ricco di temi, di questioni che non soltanto lo rileggerei volentieri – io che non sono propensa alle riletture – ma di cui sento che non si finirebbe mai di parlare. Per questa mia analisi ho scelto di concentrarmi su alcuni punti, ma avrei potuto mettere in luce invece, ad esempio, come attraverso i suoi personaggi e le coppie da loro formate Tolstòj abbia rappresentato quattro diversi modelli di rapporto amoroso: quello tra Stìva e Dolly, che somiglia ancora oggi a tantissimi matrimoni, in cui le cose non funzionano più alla perfezione ma si decide di chiudere un occhio ed accettare compromessi; Anna e Karénin, dove invece la disfunzione non viene accettata e si pone fine al rapporto facendosi del male a vicenda (ed anche a chi non c’entra nulla, come i figli); Anna e Vrònskij, l’amore passionale che esplode e non può essere domato, ma che forse sotto la fiamma non ha molto altro da offrire; ed infine quello tra Lèv e Kitty, l’unico rapporto sano, costruito un pezzo per volta, dolce e romantico, ma non esente dalle difficoltà che sorgono mentre si fa lo sforzo di conoscersi e di capirsi, e di incastrare la propria vita – i gusti, le abitudini, i desideri – con quelli di qualcun altro. Il racconto dell’inizio della loro quotidianità di convivenza mi ha ricordato tantissimo ciò che ho vissuto e provato io in quel momento, perciò mi è parso estremamente reale e veritiero.

Infine, non posso non menzionare anche solo brevemente le pagine dell’ultima parte, dedicate al climax di disperazione nel quale finisce per versare Anna. L’ansia attanagliante, gli sbalzi vorticosi dei suoi pensieri ormai privi di logica e razionalità, si trasmette fittamente dalla pagina a te che leggi e credo, pur non essendo un’addetta ai lavori e quindi corro il rischio di sbagliarmi, che Tolstòj compia in quel frangente una descrizione abbastanza accurata di alcuni sintomi e sensazioni della depressione. Se questa mia lettura fosse corretta, rendiamoci conto dell’avanguardia di quest’uomo.

Come spesso mi succede quando leggo un libro acquistato molto tempo prima, mi son sentita in realtà felice di averlo affrontato solamente adesso, sentendo di averne colto a pieno la grandezza – cosa che forse sarei stata in grado di fare anche da più giovane, o forse no. La lettura di Anna Karénina è stata un’esperienza maestosa, che ho intenzione di cercare nuovamente nel corso di quest’anno perché di certo non ne ho abbastanza della penna di Tolstòj. Pochi romanzi mi hanno costretta a continuare a rimuginare per giorni e giorni – mesi! –, a confronti così stimolanti ed inesauribili con chi aveva già letto ed amato quest’opera. Cosa che spero si ripeta ora ed in futuro, con chiunque dopo aver letto questo post avrà voglia di dirmi la sua.

Grazie, se hai letto sin qui.

Julia

 

Anna Karénina, Lev Tolstòj

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