sabato 22 settembre 2018

Looking for Alaska, John Green

Con il post precedente sono ricomparsa qui sul blog senza spendere neanche mezza parola sul fatto che il titolo del blog stesso è cambiato (di nuovo). In realtà ho deliberatamente fatto finta di niente - immaginatemi che fischietto passeggiando con aria innocente - proprio perché avevo già dato un nuovo nome ed un nuovo look al mio blog neanche tanto tempo fa, e mi sento un po' in imbarazzo per questi così assidui e repentini cambiamenti quando invece i blogger seri, bravi e costanti restano fedeli al loro progetto iniziale. Ma io sono una che si alza la mattina e decide di cambiare la disposizione dei mobili di tutta la casa, figuriamoci se posso stare ferma e tranquilla con il mio blog. Comunque, spero che questo angolino continui ad interessarvi, e vi invito sulla pagina Instagram linkata qui di fianco, dove cerco di pubblicare almeno una foto al giorno. 

Bene, detto ciò, passiamo all'argomento del giorno. Questo mese ho finalmente deciso di combattere la pigrizia e di leggere un libro in inglese, cosa che mi riproponevo da moltissimo tempo e che non trovavo mai l'audacia e la forza di volontà di fare. L'allenamento con l'inglese si mantiene grazie alla valanga di serie tv guardate quasi tutte in lingua originale, ma la lettura è chiaramente un'altra cosa; e visto che ho portato a termine questo primo libro in poco tempo - per quanto semplice ed elementare il linguaggio - al momento mi sento tanto entusiasta e gasata da pensare di voler provare a leggere un libro in inglese al mese. (Che poi, ammettiamolo, è solo una scusa bella e buona per accaparrarmi libri che mai comprerei in italiano, ma che per motivi più o meno validi mi fanno gola).

Veniamo però alla lettura in inglese di Settembre. Looking for Alaska, John Green, l'amatissimo padre di The fault in our stars (Colpa delle stelle), che lessi sempre in lingua originale parecchi anni fa, uscendone molto contenta e soddisfatta. Al di là della storia d'amore e di malattia, che riuscirebbero ad estorcere una lacrima anche al cuore più arido dell'universo, quel libro mi era piaciuto molto per i suoi protagonisti, Hazel Grace ed Augustus, due adolescenti normali, educati, intelligenti, rispettosi, che non avevano bisogno di bere fumare drogarsi per sentirsi chissà che. Due ragazzi che per conoscersi meglio si scambiavano i loro libri preferiti, e che affrontavano anche i loro problemi - certo non semplicissimi - senza piangersi addosso. Ero contenta se gli adolescenti leggevano Colpa delle stelle, perché Hazel Grace ed Augustus mi sembravano un ottimo esempio. E John Green, lungi dall'essere un autore eccelso, scrive tuttavia meglio di tantissimi altri autori/autrici in voga tra i più giovani. Quindi: promosso! Ed ecco perché poco tempo dopo, di passaggio in un aeroporto, colsi al volo l'occasione per procurarmi un altro suo romanzo in lingua originale, Looking for Alaska per l'appunto, rimasto a prender polvere sugli scaffali fino ad ora.

E quanto mi dispiace dirlo, ma qui tutto ciò che mi era piaciuto in Colpa delle stelle è venuto meno, e mi sono ritrovata a leggere un libro veramente pessimo. A dir la verità, più che un romanzo brutto mi è sembrato un romanzo noiosissimo, che non aveva proprio niente da dire, con sparsi qua e là degli elementi che - da vecchia signora brontolona - mi hanno fatto storcere il naso.

Protagonista e voce narrante è Miles Halter, un liceale che stufo della sua vita monotona in cui non ha mai avuto uno straccio di amico, decide di dare una scossa alla propria esistenza trasferendosi nel campus dove da ragazzo ha studiato il padre, il Culver Creek, un luogo che sembra promettere la possibilità di ricominciare da zero e di sperimentare tutte le esperienze che un'adolescenza degna di questo nome dovrebbe provvedere. Le aspettative di Miles non vengono deluse, perché ha la fortuna di capitare in stanza con Chip Martin, soprannominato The Colonel, il quale lo introduce quasi subito nella sua cerchia di amici: Takumi, Lara e soprattutto Alaska.

Chi è questa fantomatica Alaska? Beh, è una ragazza di cui Miles si innamora praticamente all'istante, perché è molto bella ed ha un modo di fare e di parlare che, abbinato al suo aspetto esteriore, non potrebbe lasciar indifferente nessun diciassettenne. Alaska dovrebbe essere anche particolarmente brillante, dovrebbe essere una ragazza-enigma, una persona così affascinante e misteriosa, un po' volubile e lunatica ma carismatica come poche. Dai miei dovrebbe avrete forse già capito che a parer mio la costruzione di questo personaggio non è riuscita. Sin dal primo momento Alaska mi è sembrata insignificante, ed ho il sospetto che la mia età non c'entri: ho tanto la sensazione che anche se avessi letto questo romanzo da adolescente, quel che avrei voluto fare sarebbe stato prendere Alaska per le spalle, guardarla dritto negli occhi e dirle di rilassarsi. Lei dovrebbe essere il cuore del romanzo, ma a lettura conclusa è il personaggio che mi è rimasto meno impresso di tutti.

Per farvi capire, Alaska è una che dice cose come: "Tutti voi fumate per godervelo. Io fumo per morire." Okay, cì.

La cosa che mi ha dato più fastidio poi, è che se in Colpa delle stelle avevo apprezzato la normalità dei ragazzi, che non hanno bisogno di fare i trasgry per sentirsi a posto nel mondo, qui proprio questo elemento viene meno e la combriccola di Looking for Alaska non riesce a stare un giorno senza bere fino al coma etilico e fumare quintali di sigarette. Ma perché, mi chiedo io? E non lo dico perché sono una bacchettona, non avrei avuto nulla in contrario se ad esempio il gruppetto si fosse radunato per condividere una bottiglia alla fine della settimana, ma questi bevono e fumano come respirano, praticamente. E poi ci sono un sacco di eventi di dubbio interesse, tipo programmare ed organizzare scherzoni che, dopo lo studio, è l'attività principale del campus.

Il libro è diviso in un prima ed un dopo. Nel mezzo c'è uno di quegli episodi che spaccano la vita in due, in un prima ed un dopo, per l'appunto. Ecco, il "dopo" è stato molto meno interessante del "prima", e mi è sembrato come se non andasse a parare da nessuna parte.

Ora che ho massacrato abbastanza questo romanzo, posso permettermi di sottolineare anche le cose carine o simpatiche. Di sicuro Chip o Colonel che dir si voglia è il personaggio migliore. Sembra uno dei "fighi" in confronto a Miles (tant'è che al primo incontro anche lui dubitava di poter diventare suo amico), ma in realtà non lo è; è tenerissimo il suo rapporto con sua madre, rimasta sola dopo aver reagito ad un marito violento, e che ha continuato a crescerlo con le sue forze vivendo in un camper. Il più grande sogno di Chip infatti è quello di comprarle un giorno una casa grande e di lusso, e probabilmente ci riuscirà perché è una specie di genio della matematica. Anche l'amico Takumi, per quanto sia marginale, è riuscito a conquistarsi la mia simpatia. Il tratto distintivo di Miles invece è la sua passione per le "ultime parole" della gente più o meno famosa, motivo per cui è un avido lettore di biografie. Infine, momenti un po' più alti del libro (anche come scrittura), sono le lezioni di religione, tenute da un professore che sin dal primo giorno conquista il protagonista col suo modo di parlare e di infondere spirito critico ed analitico negli studenti. Un docente molto anziano, molto severo, ma di quelli che insegnano veramente qualcosa di duraturo.

Insomma, sono soddisfatta di aver ripreso a leggere in inglese, nonostante il libro si sia rivelato appena mediocre. Se volete approcciarvi alla lettura in lingua originale, i libri di John Green possono sicuramente essere un punto di partenza, perché ha un linguaggio molto semplice ed accessibile. Il mio consiglio è assolutamente quello di partire però da Colpa delle stelle, che è scritto molto meglio e racconta una storia ben più emozionante e coinvolgente. Looking for Alaska è adatto giusto se cercate una lettura leggera e di evasione dalla quale non vi aspettate nulla di più. 

Sarei comunque curiosa di sapere se sono soltanto io ad essere stata così acida nei confronti di questo libro, o se qualcun altro è d'accordo. Fatemi sapere nei commenti!

venerdì 14 settembre 2018

Una vita come tante, Hanya Yanagihara

Una vita come tante di Hanya Yanagihara è un romanzo che conta 1091 pagine. E' la prima cosa che scrivo qui nel mio commento perché è stato il primo elemento che mi ha spinta a decidere di leggere questo libro. Tra le sue pagine è raccontata soltanto "una vita come tante" e ci son volute tutte queste parole? Il messaggio che ho intravisto in questo accostamento paradossale è che in realtà non esiste una vita come tante: come ci ha insegnato Stoner, anche la vita più ordinaria ha molto da raccontarci ed insegnarci; il paragone con Stoner però si ferma qui - o anche prima - perché la vita che Yanagihara ha scelto di raccontarci è tutt'altro che ordinaria.

Jude, Malcolm, Willem, JB. Quattro ragazzi, amici inseparabili sin dal college, all'inizio delle loro carriere. JB è un'aspirante artista di grande talento, viene da una famiglia di sole donne che stravedono per lui, che credono fermamente nelle sue capacità e che ogni volta che torna a casa lo sommergono di cibo e di calore. JB è la nota stonata e colorata del gruppo, il più estroverso, quello con la battuta sempre pronta che maschera insicurezze e un grande bisogno di affetto. Malcolm invece è una figura molto solida, solida come le case che sogna di costruire un giorno, quando finalmente sarà un vero architetto. Malcolm è così solido anche perché c'è solidità alle sue spalle: due genitori ed una sorella, e l'appartenenza ad un ceto sociale che gli altri se lo sognano; ma nonostante i soldi e la casa nel quartiere di lusso, Malcolm è un ragazzo semplice ed alla mano, felice di cenare con gli altri una volta al mese nel ristorante vietnamita più economico della città. E poi c'è Willem, che ha avuto una famiglia, per quanto fredda e distante, e che adesso invece non ha più nessuno a parte i suoi amici. Willem è un buono, un puro, una persona trasparente e pulita come se ne incontrano di rado. Fa il cameriere all'Ortolan, un ristorante conosciuto per il buon cibo, ma anche perché tutti quelli che ci lavorano sono aspiranti attori, o attori che si sono rassegnati a fare i camerieri. Anche Willem, in effetti, vuole fare l'attore, e tra un turno e l'altro recita in ogni buona commedia che gli capita a tiro. Ed infine c'è Jude, che ha studiato giurisprudenza e lavora nell'ufficio del procuratore, e di cui per le prime 150 pagine non sappiamo quasi niente, e ce ne vogliono ancora molte altre per poter scoprire cos'è stata la sua vita fino ad allora, e perché adesso è quello che è. Il romanzo viene infatti narrato in terza persona, ma per le prime 150 pagine seguiamo i punti di vista degli altri - di Malcolm, di Willem, di JB - e vediamo Jude soltanto attraverso i loro occhi, percependo tutta la segretezza che protegge il passato di Jude.

E per quelle prime 150 pagine non sapevo bene cosa pensare, iniziavo a dubitare che il romanzo potesse piacermi e cresceva la paura di essermi procurata un mattone neanche tanto economico che non valeva in fondo la pena di leggere. Ma poi la palla è passata in mano a Jude, ed il registro di scrittura è cambiato. Si è fatto più acuto, come una ferita che si apre e pian piano ci caschi dentro. Una vita come tante è un romanzo che chiede tanta pazienza al lettore, perché Jude non ha mai raccontato a nessuno chi era prima di arrivare al college, né tutto ciò che gli è accaduto, e non vuole raccontarlo neanche al lettore. Le pagine raccontano presente e passato, e seguiamo i protagonisti sino alla loro mezza età, muovendoci con loro nello spazio e nel tempo, raccogliendo lungo la strada ogni piccolo indizio, ogni piccola fessura attraverso la quale comprendere il mistero ed il disastro che è Jude

Una vita come tante parla di amicizia. Parla di abusi indicibili e delle conseguenze impossibili da scardinare. Parla del coraggio che ci vuole per fidarti veramente di una persona, quando le persone ti hanno tradito in tutti i modi possibili. Parla di così tante cose, e di argomenti talmente delicati ed intensi e complessi e faticosi e veri che non si possono esaurire in un commento che sto facendo molta fatica a scrivere, perché di fatto è impossibile estrarre i pregi di questo libro senza rovinare la lettura. Quel che voglio dire, però, è che non credo che il lavoro di Hanya Yanagihara sia perfetto, totalmente esente da difetti; né arrivo a considerarlo uno dei più bei libri che ho mai letto. Ma resta comunque un romanzo che mi ha inghiottita, che talvolta mi ha lasciata senza fiato, che ho dovuto mettere via e distrarmi con altro prima di dormire per via della forza e della crudezza di certe scene; non ho pianto, ma ho sofferto, ed anche se ho provato rabbia così tante volte nei confronti di Jude, non ho potuto far altro che comprendere ogni suo aspetto e comportamento. C'è un grandissimo lavoro di costruzione psicologica, dietro questo personaggio, ed è una cosa che apprezzo sempre enormemente quando è fatta come si deve. 

Ora non puoi capire le mie parole, ma un giorno le capirai: l'unico segreto dell'amicizia, credo, è trovare persone migliori di te - non più furbe o più vincenti, ma più gentili, più generose, e più comprensive -, apprezzarle per ciò che possono insegnarti, cercare di ascoltarle quando ti dicono qualcosa su di te, bella o brutta che sia, e fidarti di loro, che è la parte più difficile di tutte. 
Ma anche la più importante.

mercoledì 18 luglio 2018

Una raccolta di saggi (molto) brevi ed un romanzo russo


Nella vita di un lettore capitano, a volte, delle microscopiche perfette coincidenze. Delle combinazioni così azzeccate, che con un sottile quanto resistente filo rosso conducono da un libro al successivo quasi fosse naturale conseguenza, facendoci credere ancor di più nella magia unica e speciale della letteratura, questo universo così vasto e sconfinato che pure riesce a tessere collegamenti da un capo all'altro dello spazio e del tempo. E che piacere, quale interminabile e consolante bellezza poterci navigare sopra ed attraverso indisturbati, a bordo della propria personale imbarcazione costruita con l'esperienza, con il gusto personale, con il proprio individuale grado di sensibilità - e così si va, dall'Inghilterra alla Russia e ritorno, tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento.

Chi mi ha letta in passato conosce già il mio grandissimo amore per Virginia Woolf, di cui costituisce un esempio il mio commento a Una stanza tutta per sé, letto in realtà proprio quest'anno. I saggi a tema letterario della Woolf secondo me sono un tunnel, nel quale una volta messo un piede inizi a scivolare senza quasi poterne scorgere la fine. Perché non sono soltanto i suoi romanzi ad essere brillanti ed interessanti, ma proprio tutto ciò che ha scritto: i diari, le lettere, gli articoli per le testate giornalistiche... Quale che sia l'argomento, la sua penna si faceva arguta e penetrante, veicolando idee e pensieri che non fallivano mai nel distinguersi prepotentemente dalla massa - e non per velleità anticonformistiche, ma per una naturale ed inesauribile vena di originalità che contraddistingueva la Woolf, fine intellettuale prima che grande scrittrice. Ed ecco perché è un immenso piacere per un appassionato di letteratura approcciarsi ad un testo come Non sapere il greco, libriccino veramente minuscolo edito da Garzanti, che pure nel suo formato lillipuziano riesce a contenere ben quattro saggi meravigliosi: Non sapere il greco, Appunti sul dramma elisabettiano, Il punto di vista russo e Come si legge un libro? La Woolf ci trascina con entusiasmo dall'antichità greca all'Inghilterra dei colleghi meno noti di Shakespeare, per poi passare attraverso la Russia di Tolstoj, del Dosto e di Cechov, per poi accomiatarsi da noi con una domanda che scatena immense riflessioni, ma che non può avere una risposta definitiva: come si legge un libro? In tutti questi saggi, la Woolf riflette molto sulle lacune che inevitabilmente crea la traduzione di qualunque opera, per quanto ben fatta possa essere; i suoni della lingua originale, e quelle caratteristiche insite nella lingua proprie del luogo di nascita di un'opera, che le danno tutto un altro gusto e tutto un altro senso se si è in grado di affrontarle nella lingua originale. Mi hanno interessata particolarmente, poi, le differenze messe in evidenza, in Appunti sul dramma elisabettiano, tra drammaturgo e romanziere. Questa piccolissima raccolta è veramente una perla preziosa da possedere nella propria libreria, e la mia copia esce un po' strapazzata dalla lettura, perché Virginia Woolf non cessa di crearmi spropositato fermento, ed i margini sono pieni di appunti e di domande che mi sarebbe tanto piaciuto porle. Concludo con questa citazione, che forse vi commuoverà come ha commosso me:
A volte ho fantasticato che nel giorno del giudizio, quando tutti i grandi conquistatori e avvocati e statisti riceveranno la loro ricompensa - una corona, un serto di alloro, il nome indelebilmente inciso nel marmo -, l'Onnipotente si girerà verso san Pietro e dirà, non senza una certa invidia nel vederci arrivare con i nostri libri sotto il braccio: "Guarda, quelli non hanno bisogno di ricompense. Non abbiamo nulla da dar loro: sono coloro che amavano leggere."
Da qualche tempo, ho allestito per bene il mio invitante angolino preposto alla lettura. C'è ovviamente la libreria, una poltrona, ed uno sgabellino, sul quale oltre a qualche candela e fotografia, è poggiato anche un cestino dove ho preso l'abitudine di inserire tutti quei libri che desidero leggere al più presto. Un'abitudine che si sta rivelando sorprendentemente utile, perché riesco così effettivamente a smaltire volumi che attendevano da tempi remoti sugli scaffali. Bene, nel cestino questo mese c'erano anche due romanzi dei Grandi Russi, uno del Dosto ed uno di Tolstoj. Il punto di vista russo  di Virginia Woolf mi ha resa ulteriormente entusiasta di affrontarli, ed ha anche orientato la mia scelta su La felicità domestica di Lev Tolstoj, da lei nominato e citato.

Devo ammettere che sino a questo momento non avevo un rapporto serenissimo con Tolstoj. Purtroppo il mio primo approccio con l'autore è stato attraverso i romanzi brevi che scrisse in seguito alla sua conversione, come Padre Serji, La morte di Ivan Il'Ic o La sonata a Kreutzer che non mi erano piaciuti per niente; tuttavia, sapendo che la sua produzione antecedente alla conversione era di tutt'altra pasta, non mi sono troppo scoraggiata, ed avevo acquistato quel bel mattoncino che è il celeberrimo Anna Karenina. Acquistato, sì, ma letto ancora no, perché avevo ormai il tarlo di voler leggere prima il meno conosciuto La felicità domestica. Il motivo è sostanzialmente uno: La felicità domestica, che conta solo 144 pagine, costituì per Tolstoj un banco di prova per arrivare diciassette anni dopo ad Anna Karenina. La felicità domestica costituisce di conseguenza anche un ottimo testo per il lettore che vuole prepararsi e confrontarsi con un testo più breve, prima di immergersi nelle mille e passa pagine di Anna Karenina, incontrando in maniera condensata le stesse tematiche principali. Anche La felicità domestica, infatti, fu un testo fondamentale nel percorso dell'affermazione della consapevolezza femminile nell'Europa dell'epoca

Raccontata in prima persona dalla protagonista, Mascia, la storia mette in luce i momenti salienti del suo passaggio da ragazza a donna, partendo da quando a diciassette anni resta orfana, e continua a vivere nella casa dov'è nata, sperduta nella campagna russa, con la sorella minore e la governante. Il lungo inverno e la mancanza di stimoli di qualunque tipo non fanno bene ad una giovane della sua età, che inizia presto a risentirne pesantemente; il suo umore viene risollevato dall'arrivo di un amico di famiglia, Serghièi Mikhàilovic, che pur comportandosi nel più semplice dei modi non potrà fare a meno di notare che Mascia non è più una bambina. Vent'anni di differenza e di esperienze li separano, ma entrambi decideranno di illudersi che questo non costituirà un problema nel loro rapporto così pieno di genuino affetto, e convoleranno a nozze. I primi tempi sono un idillio, ma non appena Mascia si affaccerà sulla vita mondana di città che mai aveva avuto occasione di frequentare prima, l'idillio s'incrinerà poco alla volta. 

Quella che sembra la cronaca di un fallimento annunciato, si rivela invece il sottile e profondo racconto della naturale evoluzione di un rapporto di coppia, che comincia con il gioco e la bruciante passione, s'incrina, forse si spezza, e scivola poi nel reciproco e tranquillo tenero affetto, dovuto agli anni condivisi, ai figli creati insieme, al calore che si crea con la vicinanza di una persona che nonostante tutto conosci meglio delle altre. Questo è, in poche parole, La felicità domestica di Tolstoj. Se possa dire qualcosa di nuovo a chi ha già affrontato Anna Karenina, non ne ho proprio idea. Quel che invece posso dirvi è che, superato qualche primo difficoltoso scoglio, le righe scorrono come le onde di una marea - calme, poi vivaci, poi tempestose, poi di nuovo placide - e scivolano come una costante poesia fatta di perle e di seta. La traduzione di Clemente Rebora per Fazi Editore è raffinata, ricercata, e tanto attenta da regalarci poche note scrupolose a fondo pagina. Se Tolstoj vi intimorisce un po', questo è senz'altro il testo giusto attraverso il quale avvicinarsi ad uno dei più grandi romanzieri di tutti i tempi.

Bene, lettori e lettrici, per oggi è tutto. 
Fatemi sapere nei commenti se avete letto questi autori, se conoscevate questi titoli o se con questo post vi ho ingolosito almeno un po'! 




domenica 8 luglio 2018

Tutto cambia, Elizabeth Jane Howard

Questa recensione non contiene spoiler, e può pertanto essere letta anche da chi non si è mai avvicinato alla saga dei Cazalet. Buona lettura!

Tutto cambia. Quando siamo piccoli – o ancora molto giovani – crediamo ingenuamente che il mondo per come lo conosciamo non cambierà mai, che la realtà che ci circonda non potrà che essere per sempre uguale a se stessa. Ci viene facile dar per scontato che abiteremo nella stessa casa in cui siamo nati, che le tradizioni o abitudini che più amiamo della nostra infanzia ci accompagneranno per tutta la vita, che gli adulti che ci guidano – i genitori, i nonni, gli zii, gli amici – siano eterni ed immutabili, delle rocce che il passare del tempo riuscirà a malapena a scalfire. Ovviamente però nulla di tutto questo è vero, ed è una lezione che prima o poi dobbiamo imparare tutti: chi prematuramente, chi in modo traumatico, chi lentamente e chi in maniera inevitabile e naturale col semplice incedere degli anni, col consumarsi delle cose e della vita. Imparare che tutto cambia è qualcosa che può avvenire in una tale quantità di varianti che è impossibile anche solo provare ad immaginarle tutte. Una persona cara che si ammala, ad esempio, quando siamo ancora talmente giovani da non riuscire nemmeno a concepire il pensiero della morte; un trasloco, che ci costringe ad abbandonare luoghi familiari ed amati; la perdita del nostro primo animaletto domestico; un problema tra adulti, che recide di netto rapporti importanti mettendo fine ai raduni allegri del sabato sera. Il venir meno, semplicemente, di qualcosa di solido e fondamentale, che ieri c'era ed oggi non c'è più, e che con la sua assenza apre inevitabili ferite, ci fa soffrire, e lascia un vuoto che non potrà mai essere colmato. Altre e nuove esperienze fungeranno da balsamo e la ferità smetterà presto o tardi di bruciare così tanto, ma soltanto per esser sostituita da una lacerante ed inguaribile nostalgia per quel qualcosa che credevamo ci sarebbe sempre stato e poi invece ad un certo punto è venuto a mancare, qualcosa che sappiamo bene non potrà mai essere rimpiazzato da niente e da nessuno, non allo stesso modo. Quella volta in cui abbiamo imparato che tutto cambia e che niente è per sempre.

Il lettore che entra per la prima volta ad Home Place prova quella stessa incrollabile fiducia infantile, quella certezza quasi cieca verso le cose, le persone, le tradizioni. Ci saranno per sempre il Generale e la Duchessa, ci sarà per sempre quel rifugio sicuro persino in tempo di guerra che è la grande casa nascosta come una perla nel cuore della campagna del Sussex. E ci sarà per sempre la grande e chiassosa famiglia che vi si raduna, che sarà soltanto più numerosa con l'aggiungersi di altre mogli, di altri mariti, di altri figli.

E' difficile proseguire da qui in poi, pensare esattamente a cosa dire, perché la saga dei Cazalet a lettura conclusa è diventata un accumulo di ricordi, una scatola delle memorie piena di fotografie – alcune in bianco e nero, altre solo ingiallite dal tempo – e di vecchi cimeli che non direbbero proprio niente ad occhi estranei, ma a chi ha camminato per le stanze ed i corridoi di Home Place fanno subito venire in mente “quella volta che...”. Penso con tenerezza allo scetticismo con cui mi sono avvicinata a Gli anni della leggerezza poco tempo dopo la sua pubblicazione. Scetticismo dovuto soltanto al mio totale snobismo, in certe occasioni, che mi fa dubitare fortemente di quei libri che, appena usciti in libreria, viaggiano già sulla bocca di tutti. E chissà, se non fosse stato scelto da mia madre dalla lista di ciò che desideravo per Natale, forse non avrei mai intrapreso questa lunga ed accogliente passeggiata. La saga dei Cazalet per me è qualcosa di quasi indescrivibile, un momento unico ed irripetibile nella mia vita di lettrice, di amante della letteratura e dei libri, di appassionata di storie e di atmosfere e lo è per tante ragioni. Forse dipende dal respiro così ampio, dal tanto spazio che ci viene dato per conoscere così a fondo tutti i personaggi; forse dipende dal talento e dal genio di Elizabeth Jane Howard, che in quest'ultimo volume mi ha colpita con ancora più forza di quanto fosse accaduto prima (e c'è un passaggio in particolare, con cui spiegare questo, ma non mi sognerei mai di svelare un particolare tanto importante!); forse dipende dal fatto eclatante che, con tutti i personaggi che popolano queste pagine, non esiste lettore al mondo che non riuscirebbe a trovare qualcuno con cui identificarsi, talvolta anche più di uno contemporaneamente. E ci sono così tanti momenti, così tante situazioni reali ed oneste che trovo impossibile non sentirsi a poco a poco calare completamente all'interno della vita dei Cazalet.

Non renderò mai onore alla bellezza di quest'opera, in parte perché mi sono troppo affezionata a tutti loro e non riesco a fare neanche mezzo passo indietro per descrivere le cose con quel minimo di necessario distacco. Ho tentato di rallentare, mentre leggevo, perché non volevo proprio allontanarmi da quel vialetto, non volevo che su Home Place si spegnessero le luci; eppure non ci sono riuscita, le seicento e passa pagine son volate in una manciata di giorni. Ed ora è così difficile stare qui e provare a parlarvene, perché prima di tutto è stato difficilissimo – dopo cinque libri, ventuno anni, 3033 pagine – dire addio.

Difficile dire addio a Clary, soprattutto, della quale so talmente tante cose che mi sembra di esserci cresciuta insieme, e che tra tutti è sicuramente quella che mi somiglia di più, col suo interesse verso le parole e quell'esigenza sin da piccola di aggrapparsi ad una penna. Col suo caratteraccio e la sua iper-sensibilità sulle questioni più disparate, con la profondità che si spalanca nel suo animo ben nascosto ed i suoi miliardi di imperfezioni che vanno dai capelli crespi al non riuscire mai a far le cose proprio come si deve. Nelle sue dita sempre macchiate d'inchiostro, nei vestiti sciupati, nelle ciocche di capelli che scappano in maniera scomposta dalle pettinature, nei rossori sul viso, nelle torte bruciate, nell'infinità di lavori quotidiani portati avanti alla bell'e meglio, nel suo continuo e nonostante tutto provarci, provare a vincere sui difetti e sulle imperfezioni nonostante la totale mancanza di quel qualcosa, tipicamente femminile, che rende le altre capaci di portare ordine e bellezza e calore ovunque vadano – in tutto questo e negli occhi di Clary, unico tratto magnetico del suo aspetto, c'è molto più di me di quanto io abbia mai trovato prima in un personaggio. Ed è stato difficile dire addio a Polly, così dolce e così gentile che non si può non volerle bene sin da subito, nonostante una punta d'invidia per la sua bellezza e la sua grazia innata, per la sua capacità di porsi con chiunque e di saper maneggiare con saggezza qualunque situazione ed ogni sentimento, con la stessa destrezza di un giocoliere. Un po' meno complicato dire addio a Louise, alla quale pure son stata affezionata in passato, ma che si era fatta così distante e così sfuggente che quasi non mi sembrava di sapere più molto di lei. Del resto, so che Louise saprà cavarsela, e non mi preoccupo per lei. E dovrei via via nominarli tutti: Zoë, che è stata per tutto il tempo il mio personaggio preferito, quella che sicuramente vive la crescita e le evoluzioni più evidenti e che mi ha emozionata più di tutti; Rupert, che tra i tre fratelli è stato sin dal primo momento il mio preferito, con la sua inadeguatezza rispetto al ruolo di uomo d'affari e la sua vocazione per la pittura, il suo carattere così sfaccettato e solo all'apparenza remissivo; e Hugh, che percepisco come un gigante buono, un uomo testardo ma di una genuina bontà di cuore senza eguali, al contrario di Edward che è sempre stato egoista e meschino ma che, nonostante tutto, ora che ne paga le conseguenze mi causa un fastidioso senso di pietà e di profondo dispiacere. E poi bisogna salutare Rachel, ringraziandola per essersi sempre presa cura di tutto e di tutti, e Villy che non è particolarmente simpatica ma fa comunque parte della famiglia, così come Archie che non è mai stato soltanto un amico, ed ho imparato a volergli un gran bene. E poi ci sono i ragazzi, Neville e Simon e Teddy che abbiamo conosciuto bambini e li lasciamo che sono degli uomini. C'è un'infinità di personaggi secondari, che pure lasciano un segno importantissimo, a cui dire addio, ed anche tutta una nuova scoppiettante generazione che non ha tempo per i nostri lunghi e tediosi commiati.

Ho scritto abbastanza, eppure non a sufficienza. Uscire una volta e per sempre da Home Place è stata una nuova e durissima lezione sull'evidente dato di fatto che tutto cambia, una lezione che avevo già imparato e sulla quale Elizabeth Jane Howard ha deciso di farmi riflettere una volta di più. Home Place lascia in me un nuovo vuoto, una nuova incolmabile nostalgia destinata a restare tale, perché niente e nessuno potrà sostituire questi luoghi e questi personaggi. Perciò non resta che dire grazie, grazie di esserci almeno stata, grazie per avervi potuto conoscere. E siccome bisogna in qualche modo lenire la malinconia, ripenso alle piccole manie della Duchessa – come la sua eccessiva parsimonia, o il suo pensare che la comodità fosse un eccesso dell'epoca moderna – o ai tanti aneddoti sul Generale, come quella volta che fu fermato dalla polizia perché stava guidando sul lato sbagliato della strada, e lui rispose che era sempre passato da là, a cavallo, e che era troppo anziano per cambiare abitudini. 

E tutti, con gli occhi lucidi, sorridono.


giovedì 28 giugno 2018

Una serie tv ed un libro che non c'entrano niente l'uno con l'altra

Il titolo si spiega da solo, perciò direi di non indugiare oltre e di proseguire spediti come un treno diretto, senza soste, senza ritardi perché hanno rubato il rame dei binari, e senza deviazioni sulle tratte storiche (questa mi è successa l'ultima volta che ho preso un treno, giuro).

La serie tv in questione è più che famosa, quindi non vi sto proponendo niente di innovativo o che vi farà esclamare di sorpresa e stupore, ed è anche il motivo per cui potrò permettermi di essere breve (per i miei standard, s'intende). Giustamente, nella mia testa sento un coro di “ma allora a che cosa serve scrivere la tua opinione in merito??!”, beh a niente, assolutamente a niente, però è una serie che ho desiderato ferocemente vedere sin da quando è uscita ed ho aspettato così tanto perché volevo guardarla proprio al momento giusto, col massimo della concentrazione e con la testa libera da eventuali distrazioni, e quindi dopo tutto 'sto pathos – e considerato anche quanto m'è piaciuta – non posso proprio lasciarla scivolar via così, senza spenderci neanche due paroline, e quindi vi beccate questi giri di parole che non servono a nulla, perché sulle serie tv che finiscono col piacermi proprio tanto io non sono brava a scrivere recensioni intelligenti ed interessanti come fanno gli altri. Ma tant'è. Ciò che conta però è che ho già scritto un lunghissimo paragrafo senza dire nemmeno il titolo della serie, quindi la smetto e vengo al sodo: The Crown, prima stagione.


Le cose belle della prima stagione di The Crown (che, a scanso di equivoci, sono tante):

l'estetica. La cosa che mi ha conquistata sin dal primo fotogramma, e poi per tutti e dieci gli episodi, è il lato puramente estetico di questo telefilm. Non c'è niente che non sia bello, o estremamente elegante: dagli ambienti interni a quelli esterni, dalla perfetta dizione britannica alla moda degli anni Cinquanta. E' tutto così curato, sin nei minimi dettagli, che anche soltanto guardare questa serie (se fosse muta, ad esempio) sarebbe comunque un enorme gioia per gli occhi dello spettatore.
Claire Foy ed in generale la bravura degli attori, perché il cast è stellare, di un talento puro e totale. Il personaggio di Winston Churchill è monumentale, colossale, gigantesco, mastodontico, tanto nella fisicità quanto nel suo ruolo, veramente immenso, una colonna portante che quasi non accetti possa lasciare il proprio posto, come del resto anche lui stesso difficilmente riesce a fare. Ma dovrei nominarli proprio tutti, perché anche il marito della regina, il principe Filippo, è reso così bene dall'interpretazione di Matt Smith che faccio una grande fatica ad avere il minimo dubbio che il vero principe Filippo non sia davvero così, e mi piace molto l'ambiguità che è stata conferita a questo personaggio, di cui sono molto curiosa di seguire lo sviluppo; un cenno va fatto anche a Vanessa Kirby, che interpreta magistralmente la principessa Margaret, sorella minore e tormentata della regina Elisabetta. Il plauso più grande, però, va ovviamente a lei, Claire Foy, nei panni sontuosi, ingombranti e scomodi della Regina Elisabetta II. La sua bravura è sconcertante, non ruba mai la scena agli altri, ma il più delle volte le basta uno sguardo o una piega della bocca per esprimere tutto il sentimento richiesto dalla circostanza. Sicuramente c'è dietro un grandissimo lavoro di studio e di ricerca, ma lei è talmente naturale che sembra proprio nata per questo ruolo.
L'accuratezza storica, perché ovviamente non so se tutto ciò che viene raccontato in The Crown sia perfettamente coincidente con la realtà, ma per quanto ci è dato di verificare, i fatti combaciano e poi, il solo fatto che la serie sia stata prodotta, credo significhi che ci sia stato un preventivo permesso da parte dei Windsor, il che dovrebbe far pensare che non ci siano fandonie, all'interno del racconto. Quando mi trovo davanti una storia che prende a piene mani dalla materia storica mi piace che, anche se un po' romanzate, le cose che vengono raccontate rispecchino la verità, così da trarne informazione oltre che intrattenimento, perciò questo è un punto che apprezzo moltissimo.
I vari filoni narrativi, perché la regina Elisabetta II non è la sola ed unica protagonista, ma intorno a lei ci sono varie altre questioni che mi hanno toccata emotivamente in modo davvero forte, più di quanto mi aspettassi. A partire dalla vicenda della principessa Margaret, della quale ammetto vergognosamente di non aver saputo nulla prima di guardare The Crown; un altro dei miei filoni narrativi preferiti è senza ombra di dubbio quello dedicato allo zio della regina, Edoardo VIII, il re mai arrivato all'incoronazione, che dopo poco meno di un anno sul trono decise di abdicare per amore di Wallis Simpson, un'americana divorziata e già al suo secondo matrimonio, che fu prima amante di Edoardo VIII e poi la sua sposa, scatenando un grave scandalo che non venne mai perdonato. In The Crown vengono rappresentate le tensioni che ancora esistono a distanza di anni tra l'ex reggente e la sua famiglia d'origine, nonostante tra loro sia trascorso tanto tempo e la distanza di un oceano (Edoardo VIII, infatti, lasciò l'Inghilterra). E' affascinante pensare che, se non fosse stato per questo incontro fatale e per questo amore travolgente, Elisabetta II non sarebbe mai salita al trono, e la linea di successione sarebbe stata un'altra.

Se dovessi approfondire ulteriormente, finirei con l'analizzare singoli momenti che mi hanno particolarmente coinvolta ed emozionata, ma ciò costituirebbe uno spoiler, cosa che cerco sempre di non fare, perciò mi fermo qui lasciando a chi non si è ancora approcciato a The Crown tutto il piacere della scoperta.

Veniamo invece all'ultimo libro letto, che come preannunciato dal titolo non potrebbe essere più distante – per genere, atmosfere e tipologia narrativa – da The Crown; li ho accorpati in un unico post puramente per motivi logistici e di tempo. Ma introduciamo questa lettura per me insolita con una breve e simpatica scenetta.

Pomeriggio. Stanza di mia sorella minore. Dopo averle recato un messaggio della nostra genitrice, sto per lasciare i suoi appartamenti, quando i miei occhi abbassandosi sulla scrivania scorgono un oggetto interessante, alias, un libro. Una brutta malattia che mi ha colpito sin dalla tenera età mi costringe a prendere in mano e sbirciare qualunque mucchietto di carta stampata, anche quando si tratta della discutibile (ed ingiustificata) biografia di una youtuber dodicenne che ha fatto successo mostrando la sua collezione di calzini della collezione di Ariana Grande. Fatto sta, che fortunatamente quel pomeriggio il libro poggiato sulla scrivania della mia sorellina era ben altro, ovvero il primo volume della celeberrima saga del Trono di Spade, dell'egregio signor George R.R. Martin (ma fatemi capire, le R.R. le ha rubate a Tolkien? Uno scrittore fantasy – non che i due siano paragonabili, eh – se vuole avere successo deve avere per forza due R puntate nel nome?), più famoso per il terrore che alla sua ormai veneranda età lasci il mondo terreno da un giorno all'altro lasciando senza conclusione l'amata saga, che per la saga stessa. Si trattava di un titolo insolito, da scovare nei dintorni della mia sorellina, che infatti disse:

«Non mi piace. Se vuoi prenditelo.»
«Vabbè.»

E fu così che, curiosa e scettica in egual misura, quella sera attraversai un prologo del quale non capii nulla, per poi trovarmi senza essermene accorta a pagina 100. Maledizione. La trama non la racconto, perché non ne sarei in grado e poi molti di voi la conoscono già; ciò che posso dire, è che anche se Martin non è Tolkien né paragonabile a nessun grande autore/autrice, scrive in una maniera che sa essere al contempo molto asciutta e molto coinvolgente. Ho scoperto dentro questo libro una lettura di puro e piacevole intrattenimento, della quale senza saperlo avevo un gran bisogno. Se mi seguite da un po', avete ormai un'idea di che tipo di lettrice sono: leggo montagne di classici, e raramente faccio letture che si possano definire totalmente leggere, perché se un libro non è impegnativo dal punto di vista del contenuto, magari lo è stilisticamente o per altre caratteristiche; insomma, quasi mi rifiuto di sprecare tempo a leggere cose frivole, perché la maggior parte delle volte mi sembra uno spreco di tempo, oppure si rivelano libri talmente brutti che mi annoio e non riesco proprio a leggerli. Il trono di spade, con tutti i suoi difetti ed il suo essere letteratura “semplice”, è scritto bene, è pieno di personaggi interessanti ed è un fantasy che può benissimo piacere anche a chi non mastica il genere, perché in realtà quello di Martin è un mondo che richiama molto l'epoca medievale, dove ogni tanto si parla di draghi e altre creature fantastiche, ma questo è il massimo di fantasy che c'è dentro. Per il resto, la trama è fatta di intrighi e cospirazioni, e se ci si interessa alla trama il libro scorre che è una meraviglia. L'ho definito un libro da leggere mangiando patatine, perché dovete sapere che io non mangio mai mentre leggo – mangiare mi distrarrebbe, al massimo sorseggio una bevanda calda tra una pagina e l'altra – ma quando prendevo in mano Il trono di spade mi veniva proprio voglia di mangiare patatine, come le serate progettate per guardare un film in compagnia. Per concludere, visto che probabilmente proseguirò la lettura della saga (con molta calma, eh) e che nel corso dei vari libri cambierò idea cinquecentomila volte come tutti, penso possa essere divertente fare un piccolo elenco di cose a caso, tipo così:

Personaggi preferiti: Arya, Daenaerys, Eddard, Bran
Personaggi odiati: Cersei Lannister, Joffrey Lannister
Personaggi più ambigui: Tyrion Lannister, Ditocorto
Premio tragedia: Lady, e non aggiungo altro
Premio perle di saggezza: va assolutamente a Tyrion, che appena apre bocca o fa il buffone, o sputa verità esistenziali come niente fosse, le vie di mezzo non gli piacciono
Premio lacrimoni: se lo becca Jon Snow, che sbaraglia tutti quanti prendendosi a cuore Sam, l'ultimo arrivato nella confraternita e pure sfigatello sotto molti punti di vista

Bene, volevo essere breve ed ho qualche dubbio sulla riuscita di tale proposito, perciò taglio e sorvolo su lunghe conclusioni e vi auguro buone letture ed un ottimo proseguimento di giornata.
A presto!

sabato 16 giugno 2018

Suite francese, Irène Némirovsky

Suite francese. Il romanzo più celebre di Irène Némirovsky, sicuramente una tra le più prolifiche scrittrici della prima metà del Novecento, autrice che prima d'ora avevo incontrato soltanto una volta con il racconto breve intitolato Il ballo. Quella volta però non era successo niente tra me e lei - non era scattata la scintilla, né c'erano state delusioni ed incomprensioni; semplicemente, quel racconto così breve che era come un lampo che squarcia all'improvviso il buio, illuminando una minuscola porzione della vita e della storia della stessa scrittrice, a me non era bastato. Mi era sembrato di prendere un frettoloso caffè con Irène, uno di quelli che ti fa piacere condividere con la tua migliore amica perché tanto sapete tutto l'una dell'altra, e vedervi anche solo cinque minuti in certi periodi è comunque meglio di niente; ma con un'estranea, una con la quale avete scambiato giusto qualche occhiata ed a malapena qualche parola, e che sentite potrebbe diventare una cara e sincera amica, un appuntamento toccata e fuga non basta di certo. Siete ancora ferme sulla soglia dei rispettivi animi, c'è così tanto da sapere, da rivelare e da scoprire. Così tanto ancora da reciprocamente scambiarsi, che quel caffè buttato giù tra il saluto iniziale e quello di commiato era ancora troppo caldo, ha avuto come unico effetto quello di scottarci la lingua ed il palato, e poi era amaro, perché non ci si era presi nemmeno il tempo di mescolare bene lo zucchero. E' un po' questo l'effetto che mi aveva fatto leggere Il ballo, e quando voltando l'ultima pagina avevo visto Irène rivolgermi un ultimo, distratto sorriso per poi andar via a passo svelto, avevo provato quell'insoddisfazione che ti lasciano soltanto le cose a cui tieni. In quel fugace incontro avevo intravisto la possibilità di un'amicizia duratura, c'era qualcosa in chi scriveva che mi attraeva, come può attrarti una persona con la quale senti istintivamente una forte affinità. Sono passati anni, tra quel primo caffè preso di fretta e senza dirci molto, ma questo non è importante; ciò che conta è che stavolta io ed Irène ci siamo date un appuntamento fissato con molto, molto anticipo. Ci siamo preparate con tutta la calma del mondo, curando ogni dettaglio - dalla ciocca di capelli che continuava a sfuggire dalla pettinatura, alla manicure, alla scelta degli accessori - per presentarci eleganti ed ordinate in un ristorante di lusso. Perché Suite francese è stato un lentissimo ed intimo appuntamento a cena, solo io e lei in una sala accogliente e silenziosa. Lume di candela, le mie domande, le sue storie.

Vi dico la verità: questo romanzo spaccato a metà e privato della sua degna conclusione, non mi ha emozionata e coinvolta come potreste immaginare dal trasporto con cui l'ho introdotto. Ma c'è un ma, forse anche più di uno. Il primo è che in questa occasione, ho potuto finalmente conoscere effettivamente il talento letterario della Némirovsky, che se ne Il ballo aveva avuto troppo poco spazio per manifestarsi, qui di spazio ne ha in abbondanza. Irène Némirovsky scrive benissimo, e questo è il modo più banale in assoluto di dirlo, ma anche il più chiaro e diretto che io conosca, ed in certe occasioni non sono necessari grandi giri di parole per esprimere un concetto. Irène Némirovsky scrive(va) benissimo e questo è quanto, a cui poi potrei aggiungere una serie di considerazioni personali sui motivi per cui lo penso. Innanzi tutto, in Suite francese passiamo per una moltitudine di personaggi, o per meglio dire attraverso una serie di nuclei familiari - cosa che ritengo ulteriormente interessante - di estrazione sociale sempre diversa. Abbiamo la famiglia di nobili ed antichissime origini piena di figli e di tradizioni; i coniugi della più umile borghesia; la coppia instabile dell'artista con la sua musa; l'irriducibile scapolo benestante ed avaro; la gente di campagna. Non c'è niente che accomuni tutti loro, a parte la guerra. Suite francese è nettamente diviso in due parti: nella prima siamo a Parigi, cuore pulsante della civiltà e della vita mondana, nel momento in cui la città deve essere evacuata, perché l'avanzata dei tedeschi è ormai inarrestabile, e tutti i civili devono almeno provare a mettersi in salvo. Assistiamo quindi ai preparativi ed ai movimenti dei nuclei familiari scelti come rappresentanti dalla Némirovsky, e seguiamo il lento e faticoso e travagliato esodo che avrà un esito diverso per ognuno di loro. Immaginate una ripresa a volo d'aquila, che inquadra una massa informe ed indefinita di persone - una folla incalcolabile, che riempie le strade, sgomita per salire su un treno, si accampa in un bosco - e poi la lente dell'autrice che si abbassa e pian piano si avvicina sempre di più fino ad individuare di volta in volta i Péricand, i Michaud, Charlie Langelet o Gabriel Corte.

Nella seconda parte, invece, intitolata Dolce, siamo in un paese di campagna, quando i tedeschi sono ormai i vincitori ed i padroni indiscussi, ed ogni casa del paese ha l'obbligo di ospitare un soldato nemico. L'ostilità dei francesi è totale, ma quei soldati tedeschi sono in fondo dei semplici ragazzi a loro volta strappati dalle proprie case, lontani da una madre anziana o da una novella sposa lasciata sola coi suoi sogni. Ragazzi che stanno sacrificando la propria vita, la propria gioventù, rinunciando ad ogni aspirazione personale, perché costretti a rispettare la logica dell'alveare, rincorrendo i sogni di qualcun altro, di un ideale collettivo che non ammette individualità. Allora capita che, nonostante le barriere culturali e linguistiche, uno di questi giovani mostri ai francesi la foto dei propri genitori, o di quel bimbo appena nato che adesso chissà già quanto sarà cresciuto; ed i francesi, che a loro volta hanno sempre un giovane lontano, impegnato chissà dove, per il quale pregano giorno e notte, quei francesi un po' si commuovono e allora si beve qualcosa tutti insieme per dimenticare almeno un secondo tutto quell'insensato dolore. In particolare, all'interno di Dolce ci spostiamo tra casa Angellier, dove Lucile vive sola con la suocera e dove viene stabilito il tenente Bruno von Falk, un uomo buono, gentile e sempre rispettoso; e la fattoria dei Labarie.

Il paragrafo che però più in assoluto mi ha fatto saltare all'occhio la bravura della Némirovsky parla di un gatto. Ebbene sì, di un gatto, estraneo, ignaro ed incurante delle guerre degli uomini. Un gatto di casa, che gode del posto d'onore sul letto ai piedi della padroncina e che, non appena la casa dorme, viene incuriosito da un odore che s'infiltra dalla finestra aperta e che gli stuzzica le narici. Allora lui, furtivamente, si alza e senza farsi notare da nessuno sgattaiola fuori. Salta per i tetti ed i davanzali, fino a raggiungere la strada con un salto misurato e sicuro. E lì resta per un attimo fermo, i baffi e le orecchie tese a percepire l'intera città. Ecco, in quel paragrafo il lettore diventa il gatto, e prima ancora - scrivendolo - Irène Némirovsky si era fatta gatto. Può sembrare un momento frivolo, rispetto a contenuti più importanti del libro, eppure credo sarà ciò che mi rimarrà più a lungo impresso, perché il modo in cui è scritto e descritto è semplicemente sublime.

La prima e la seconda parte, comunque, sono collegate da un filo sottilissimo, che ci viene mostrato soltanto per brevi istanti. Come se l'autrice ci mostrasse i due capi, le due estremità, ma poi tendere quel filo è un lavoro che spetta unicamente a noi. Tuttavia, non posso far a meno di chiedermi - con un po' di rammarico - cosa ne sarebbe stato di Suite francese se Irène (perdonami la confidenza, ma ormai ti sento già un po' più amica) avesse potuto terminarlo. Forse Dolce sarebbe stato soltanto un altro necessario passaggio, e pian piano quel filo sarebbe passato per altre estremità, collegando tutti i punti disseminati tra una pagina e l'altra. Purtroppo non lo sapremo mai, e dovremo accontentarci di un finale che non è il vero finale, eppure non lascia insoddisfatti nel bel mezzo della frase: anzi, il finale è stato proprio il momento che mi ha ripagata di una lettura non semplicissima. Perché devo ammettere di averci messo un sacco di tempo a leggere Suite francese, che almeno nei miei confronti si è imposto come uno di quei romanzi che non ammettono la fretta, la superficialità, la scarsa attenzione; è stato uno di quei libri che decide al posto mio il ritmo di lettura e che mi impone di andare piano - piano - e di ascoltare senza interrompere. E' stato faticoso a volte, ogni tanto avrei voluto dire la mia oppure fare una pausa o ancora, che ne so, ricevere in premio un momento di leggerezza. Invece no, nessuna concessione fino a questo finale che per me è stato il momento più alto di tutto il libro. Una riga dopo l'altra, cominciavo a sentirmi come riempita, per poi infine sciogliermi in pianto. Era tanto che non piangevo con un libro, ed è stato inaspettato perché in fondo non mi ero affezionata particolarmente a nessuno dei personaggi, ma al contempo è stato inevitabile ed anche molto bello.

In definitiva, non credo che consiglierei Suite francese a chiunque. Se ci penso, vedo molti lettori e lettrici che potrebbero arrancare attraverso tutte queste pagine, spesso faticose e che non sempre fanno la grazia di ricevere la ricompensa. C'è chi senza dubbio si sorprenderebbe a sbadigliare, con la sensazione che non succeda niente o che le stesse cose continuino a ripetersi. Però, c'è una fetta di pubblico per il quale Suite francese potrebbe rivelarsi una lettura forse non fondamentale, ma comunque imprescindibile. Penso a quel tipo di persone che Leopardi definiva anime sensibili, quelle che sanno cogliere il senso meno ovvio della bellezza, quelle che per natura si spingono a scavare più a fondo nelle cose. Ecco, per un animo sensibile leggere Suite francese è qualcosa di quasi inevitabile, anche se non so spiegarne il motivo. Perché io per prima non l'ho amato follemente, non ci sono entrata dentro con tutte le scarpe come succede in altre occasioni; forse perché sembrava tutto troppo reale, ed alla vita vera non ci si appassiona come ad un telefilm: la si osserva, la si comprende e quando non ci riguarda in prima persona ce ne teniamo a cortese distanza per evitare di infiammarci troppo ed inutilmente. Questo è quello che sento nei confronti di Suite francese, un romanzo troppo vero per essere soltanto un romanzo. E sento, in ogni caso, di aver aggiunto un tassello importantissimo al mio percorso da lettrice.

lunedì 11 giugno 2018

"Quali sono i tuoi jeans preferiti?" - Quelli che mi entrano.

Io sono una Donna a Pera. Per coloro che non si fossero mai addentrati nell'affascinante mondo della definizione del corpo della donna secondo precisi parametri fruttiferi, spiego cosa significhi essere una donna a forma di pera. Caratteristiche principali: disequilibrio, una sproporzione tra la parte alta e la parte bassa del corpo, nello specifico spalle e torace tendenzialmente più piccoli dei fianchi. Detto in parole povere, essere una donna a pera significa che non hai le tette ma in compenso cosce e sedere abbondano. Ciò potrebbe diventare interessante, se fossi una donna tipo Jennifer Lopez o una Kardashian (che sull'abbondanza delle chiappe ci hanno tirato su un business!), ma quando sei una ragazza normalissima come me, che non nutre neanche grandi simpatie verso il mondo dell'attività fisica, avere un corpo a forma di pera presenta sicuramente più svantaggi che attrattive. Innanzi tutto, avere il corpo a pera fa sì che anche se mangio una mentina, questa si depositerà sempre e soltanto sul sedere e sui fianchi. I problemi maggiori, però, vengono sicuramente nel momento in cui bisogna vestirsi. Solo negli ultimi anni - dopo un'intera vita passata ad avere crisi isteriche pensando che non mi stesse bene nulla - mi sono decisa a studiare la questione, per capire finalmente come accidenti dovrei abbigliarmi per risultare per lo meno decente. Ho scoperto che la mia epoca erano gli anni Cinquanta  (grazie, grazie molte) ed ho scoperto anche una punta di cattiveria da parte delle Donne Mela, Donne Banana, Donne Rettangolo, Donne Clessidra e via dicendo, che affermano cose come: voi, Donne Pera, vi siete prese tutti gli anni Cinquanta, ora tocca a noi! Ah, okay, scusate, avrei voluto mormorare io, rammaricata per aver rubato la scena e monopolizzato la moda quando neanche ero nata. Gli anni Cinquanta, a quanto pare, erano l'epoca perfetta per le Donne Pera, perché il nostro punto di forza, il Pregio Supremo sul quale concentrare tutta la nostra immagine, è il punto vita; perciò noi Donne Pera vestendoci dobbiamo pensare a come mettere in risalto la nostra vita sottile, concentrando lo sguardo di chiunque incontreremo su quella, distraendolo abilmente dai fianchi e dalle cosce che, poco più sotto, si espandono senza misura. Negli anni Cinquanta giocare con questo trucco era fin troppo facile, con quegli abiti svolazzanti che facevano tutto al posto nostro: erano già ripresi in vita, per poi allargarsi in gonne ampie che nascondevano tutto ciò che c'era da nascondere.

Purtroppo però sono una Donna a Pera di epoca moderna, ed anche una donna che ama vestirsi in modo sì stiloso, ma pratico e comodo: ergo, preferisco i pantaloni ed i jeans ai vestiti ed alle gonne, che restano per me indumenti da sfoggiare per le Occasioni Speciali. Le linee guida per la sopravvivenza della Donna a Pera dicono che devo indossare pantaloni a vita alta, rigorosamente neri o scuri, da abbinare per contrasto a maglie e camicie dai toni chiari, volendo anche super colorate. Della serie: acceca il nemico con un colore talmente acceso che lo colpirà come un pugno dritto in un occhio, e non avrà più alcun modo per accorgersi del sedere abbondante. A patto che la suddetta maglietta sia infilata ad arte dentro i pantaloni per evidenziare la vita sottile, altrimenti il piano fallisce.

La mia vita è complicata.

E si complica ulteriormente quando arriva il terribile, tremendo, spaventoso momento di comprare un paio di jeans. Forse, voi donne che somigliate ad altri frutti, non conoscete e non immaginate le mille difficoltà cui va incontro una povera Donna a Pera come me. Già, perché puntualmente, qualsiasi modello di jeans io scelga, non avrà mai senso. La prima grande prova avviene proprio nel camerino: mentre li infilo e sono ancora ad altezza polpacci, sudando freddo mi chiedo riusciranno questi bellissimi jeans a superare i fianchi? Ma anche quando questo accade - quando la prima temibile prova viene superata - il dramma non è ancora finito. Perché di solito, se i jeans si chiudono sono troppo lunghi, e cadono malissimo sulle mie gambe sproporzionate. Quando invece sono perfetti di lunghezza, non c'è verso che il bottone si chiuda.

Ecco perché, quando tempo fa ho fatto la follia di acquistare un paio di jeans online, li ho attesi con la stessa angoscia con cui si aspetta il risultato di un esame importante. Quando una mattina mi sono alzata ed il pacco era arrivato, l'ho aperto piena di paure e di speranze; mi sono spogliata in salotto, non potendo attendere neanche un secondo per sapere la verità. I nuovi jeans sono scivolati tranquilli oltre i polpacci, oltre le ginocchia, le cosce, contenendo senza troppi sforzi anche quell'abbondante sedere tipico della Donna a Pera, ed infine...

...il bottone che si chiude, la cerniera che si tira su liscia come l'olio.

Ho un nuovo paio di jeans.

domenica 3 giugno 2018

I parassiti, Daphne Du Maurier

Io lo sapevo, che avrei dovuto buttar giù il mio commento su I parassiti di Daphne Du Maurier appena terminata la lettura, cosa avvenuta verso la metà di maggio. Uno di quei commenti a caldo, appassionati, in cui non ho proprio idea di cosa avrei scritto ma sicuramente sarebbe stato viscerale, pieno di trasporto verso un romanzo che - in maniera totalmente inaspettata - mi aveva inghiottita nelle sue pagine per poi risputarmi fuori senza pietà soltanto alla fine, con la sensazione di esser stata masticata senza pietà.

Già, perché questo è un romanzo che non offre consolazione. Un romanzo sfarzoso pieno di desolazione emotiva, nella quale il lettore entra in punta di piedi per poi trovarsi in piedi al centro di un salotto, in mezzo ad una specie di famiglia mai vista prima. Conoscete quel disagio? Il disagio di essere l'unico estraneo tra persone che si conoscono benissimo, che si capiscono al più lieve vibrare di un sopracciglio, eccola la prima sensazione che ho avuto. C'era un salotto, e c'erano Niall e Mary e Celia che parlavano, che stanchi ed infaticabili rivangavano un passato comune, comune a loro ma non a me. Fin quando pian piano, un pigmento alla volta, il quadro ha cominciato a prendere forma, ed ho imparato a conoscere Mamma e Papà e la storia tutta.

Una storia che parla di una famiglia, anzitutto, una famiglia itinerante e certamente atipica. Famiglia d'arte, senza regole all'infuori del sacro rispetto per i palcoscenici dei teatri, senza altro rispetto che quello per le prove ufficiali di ogni spettacolo. Una famiglia in cui infanzia è sinonimo di libertà selvaggia, e crescere diventa di conseguenza qualcosa di ancor più spaventoso - l'età adulta un luogo ostico ed ostile, scomodo, fastidioso; ma loro, Niall e Mary e Celia forse non sono mai cresciuti veramente, non come capita agli altri: loro son rimasti dei bambini insoddisfatti e capricciosi dentro corpi più grandi, incapaci di guardare oltre se stessi e di risolvere i propri contenziosi psicologici.

C'è qualcosa che spacca anche loro tre, Niall e Mary da una parte e Celia dall'altra. Una separazione netta, come un solco che divide a metà la terra e che non può essere oltrepassato con un balzo. Una separazione che ha a che fare con qualcosa di indefinibile, perché tutti e tre son soltanto fratellastri, è a metà anche lo stesso sangue che scorre nelle vene di Niall e di Mary; eppure loro sembrano la stessa persona maldestramente distribuita in due corpi, sembrano uno scherzo del destino perché due tipi così avrebbero dovuto amarsi fino a farsi male, impetuosamente e come due amanti, non come fratello e sorella. Eppure è andata così, e Niall e Mary si sono lo stesso amati impetuosamente, ma senza scenate, senza gelosie, senza nessuna espressione carnale. Come due anime che si trovano, si riconoscono tra tante, e non si lasciano più andare. Perché nessun altro conosce e capisce Mary come Niall, e Niall pensa soltanto a lei quando compone le sue canzonette da quattro soldi.

Dall'altra parte del solco, sta in piedi da sola Celia. Bambina goffa, premurosa, dolce e grassottella, che rincorre gli altri due ma non riesce mai ad essere sulla stessa lunghezza d'onda. Sempre uno o due passi indietro. Che brava bambina Celia, la più buona dei tre. Tanto buona da non poter fare a meno di prendersi cura di Papà, di stargli accanto fino all'ultimo e per sempre, contenendo tutte le sue insicurezze, le sue sofferenze e le sue manie. Ed i tuoi disegni, Celia? Che fine hanno fatto i tuoi disegni? Sono lì, proprio lì in una cartellina, li riprenderò presto. Intanto Mary calca il palcoscenico, Niall è dietro un pianoforte tra la Francia e l'Inghilterra ed il tempo passa.

I parassiti non parla di molte cose, ma è il modo in cui ne parla a travolgere il lettore, soprattutto quando arriva a questo libro come ci sono arrivata io, senza aspettative e senza pretese. E' stato il mio primo approccio a Daphne Du Maurier, incontro che ha provocato scintille e che mi lascia ben sperare per il percorso di scoperta che ho intrapreso nell'opera dell'autrice.

L'atmosfera decadente, la minuziosa indagine psicologica dei personaggi, la storia di un'eredità artistica e delle lotte interiori con un presunto talento. Il fascino di questo romanzo ai miei occhi è indescrivibile, anche perché lo stile della Du Maurier mi ha spiazzata: scritto nel 1949, è di una modernità incredibile. Inoltre anche la tecnica con cui il romanzo è costruito - l'architettura su cui poggia la trama - dimostra una maestria degna di nota. Reputo molto complicato da gestire il modo in cui l'autrice ha distribuito la narrazione, mescolando e scoprendo le carte del passato e del presente senza mai creare confusione o far perdere la bussola al lettore. Il suo gioco dei salti temporali per me è stato molto stimolante, perché il presente diventava in continuazione un tizzone che stuzzicava la fiamma della mia curiosità.

Venendo poi ad un dettaglio prettamente personale, il personaggio cui mi sono più affezionata è stata Celia, ebbene sì, la trascurabile Celia. Il modo in cui la penna della Du Maurier l'ha tratteggiata è magistrale, anche perché Celia è tutt'altro che banale o scontata, proprio al contrario: forse è il personaggio più ambiguo tra tutti e tre. Perché Mary e Niall, nel bene e nel male, tra tutte le fessure e le stranezze del loro animo, si mostrano e soprattutto si vivono per quel che sono. Celia, al contrario, è una finta vittima. Ha subito una lunga serie di eventi, ma prima ancora ha accettato di subirli per paura dell'alternativa. Alternativa che sarebbe stata, semplicemente, vivere la propria vita. Percepirsi come individuo con il proprio bagaglio di sogni, di gusti, di esigenze e di fragilità e di farsi percepire dal resto del mondo come tale, con le conseguenze del caso - fischi, oltre agli applausi, ed il rischio di essere delusi, feriti e tutto il resto. Sinceramente, Celia è stata anche capace di commuovermi.

Daphne Du Maurier
Insomma, questo romanzo si prende da parte mia cinque stelle piene. Come forse qualcuno di voi saprà, ho tentato di avviare un gruppo di lettura per questo romanzo, pur essendo consapevole che avendo ben poco seguito non poteva esserci chissà quale riscontro. Sono comunque felice che almeno un paio di persone sono attualmente occupate nella lettura, e spero vivamente che ne usciranno entusiaste quanto me. Nel frattempo, penserò a quale libro della Du Maurier dedicarmi durante il mese di giugno. Vi ricordo che, qualora vogliate partecipare, potete segnalarlo usando l'hashtag #unadaphnealmese.

Vi auguro un buon inizio di settimana,
e buone letture!

sabato 12 maggio 2018

Fornelli

Tra tutte le faccende domestiche, una che trovo particolarmente irritante è pulire i fornelli. Ammetto di essere una persona abbastanza pigra, che non si dedica ogni giorno con impegno e dedizione alla manutenzione delle mura domestiche; anzi, prima di questa mattina le mura domestiche in questione rischiavano l'auto-combustione, per il livello di disordine ed incuria cui si era arrivati. In realtà ora la situazione non è ancora migliorata più di tanto, perché ho esaurito la voglia e le energie per pulire a fondo la cucina, che al momento era la zona più in crisi, dalla quale ormai arrivavano segnali lampeggianti di allarme rosso
Tutto ciò contrasta col mio essere in fondo un po' maniaca dell'ordine, ma il problema è intanto che ho reso un gioiellino splendente il bagno, la camera da letto è sommersa di vestiti, con gli acari in festa che ci ballano sopra. Mettiamoci poi che il mio fidanzato – col quale convivo – è invece un maniaco della pulizia, però piuttosto disordinato; beh, perfetto, vi completate ed insieme ottenete il risultato perfetto, no? No, al contrario, ci diamo urto a vicenda: io annoiandolo per tutto ciò che lascia in giro o minacciandolo di tortura quando apro un cassetto dei suoi vestiti e ci trovo dentro delle lenzuola che credevo ormai irrimediabilmente perdute (!), e lui irritandomi quando lo vedo girare con l'alcol etilico pronto ad igienizzare qualunque superficie gli capiti a tiro.

Comunque, stavo parlando del pulire i fornelli. Non so cos'è che mi snerva tanto di questa mansione, fatto sta che continuo ad ignorare le macchie di sugo zampillate fuori dalla pentola ed i residui vari di cibo fin quando non temo seriamente che prendano forma e tornino in vita, facendomi temere brutali aggressioni notturne. Pulire i fornelli è terribilmente noioso ed è irritante che una cosa così banale richieda tutto quel tempo: bisogna smontare tutta l'impalcatura, togliere la sporcizia più grossolana (e rivoltante) con dei pezzi di carta asciutta (il famoso pannocarta che si fa sempre passare Cannavacciuolo) e poi tornarci, più e più volte – a seconda della gravità della situazione – con pezzette, straccetti, spray multiuso, lanciafiamme, facendo avanti e indietro dal piano cottura al lavandino – che per fortuna, nella grande maggioranza dei casi, sono collocati a pochi passi di distanza l'uno dall'altro. Nel mio caso poi piazzateci un adorabile golden retriever esattamente nel mezzo, nel punto esatto in cui ogni singola volta rischi di ammazzarti, perché Daisy ha un talento unico nel captare qual è il solo spazio – su una superficie vasta, vastissima, libera ed a sua totale disposizione per qualunque sonnellino in qualunque momento della giornata – nel quale, piazzandoci la sua mole morbida e coccolosa, ti renderà difficile – se non impossibile – muoverti. Neanche a dirlo, che se provi a chiederle gentilmente di spostarsi ti guarda come fosse appena stata abbandonata in autostrada.

Insomma stamattina ho pulito i fornelli, e mi sento come se meritassi una medaglia al valore, un attestato di merito, un riconoscimento ufficiale. Che poi, in casa nostra, una strana casualità – divenuta ormai una leggenda – vuole che proprio il giorno in cui mi lancio in quest'impresa, per cena cuociamo del riso. Embè?, direte voi, che c'entra. C'entra, perché quando noi cuciniamo del riso di solito è di accompagnamento per qualche portata dal sapore orientale, ed il mio fidanzato – che ha gli occhi a mandorla, e dunque la saggezza orientale scorre nelle sue vene assieme alle direttive per ottenere il riso perfetto – fa cuocere il riso alla maniera asiatica, cioè a fuoco lento e per assorbimento. Il che, puntualmente, significa acqua che gocciola come non ci fosse un domani ogni volta che si alza il coperchio, e chicchi di riso che vengono sparsi senza pietà su tutto il piano di cottura. Così nel giro di un pasto si è tornati punto e a capo. Mia madre pulisce i fornelli quasi ogni giorno, e non so dove trovi la forza spirituale per farlo.

L'ho già detto che sono pigra, però ho anche la mia piccola dose di buona volontà, al punto che un periodo, per trovare la motivazione per pulire casa, mi sono chiusa a guardare su youtube le house cleaning routine delle giovani e volenterose donne di tutto il mondo. Su youtube esiste un intero mondo riguardo QUALUNQUE cosa, ed esiste anche l'universo dei canali dedicato alla perfetta gestione della casa ed al tirare su la famiglia del Mulino Bianco. Famiglie alle quali arrivano sulla soglia di casa pacchi di prodotti per le pulizie, esattamente come alle beauty guru regalano quantità industriali di prodotti per il corpo e di make-up. A ciascuno il suo, insomma. Una di queste casalinghe 2.0 era talmente convincente che ho persino preso appunti illudendomi di avere una chance di seguire il suo schema di mantenimento dell'ordine. Pff!

Tanto lo so che non sono l'unica.

...vero?







giovedì 10 maggio 2018

Temporali

Piove ogni giorno, qui dalle mie parti. Verso le due del pomeriggio scoppiano certi temporali che poi vanno avanti fino a sera, lasciandomi giusto una parentesi di tempo di pioggia meno fitta e più clemente che mi permette di uscire con le mie figlie pelose. Daphne si ferma spesso guardandomi con l'aria interrogativa - andiamo avanti? Torniamo indietro? - stringendo spesso quei suoi occhi bellissimi quando le gocce d'acqua le cadono sul muso; a Daisy invece non interessa, lei va avanti incurante della mia lentezza e della pioggia, anche se il suo pelo lungo è quello che ne esce peggio e quando torniamo a casa sembra un pupazzo rimasto sotto le intemperie per giorni e giorni. I temporali di maggio iniziano con certi tuoni che più che tuoni sono esplosioni, uguale a quella che ho sentito dentro qualche notte fa. Sarà perché maggio è il mio mese, che i temporali primaverili ce li ho anche dentro. Forse per riprendermi. Risvegliarmi. Decostruirmi. Ricompormi.

Avevo un minuscolo pezzetto dentro, tanto tempo fa, che era bello come una pietra preziosa. Aveva tutti i bordi scheggiati e taglienti, però, ed io ero incauta. Lo ammiravo e lo mostravo, mi sembrava la parte più significativa di me. Maneggiavo quel pezzetto luminoso e affilato a mani nude, e lo mostravo a chiunque si avvicinasse, rischiando quasi sempre di farmi male e di fare male. Per questo un giorno decisi di metterlo via, di seppellirlo sotto un mucchietto di polvere e fare finta che non esistesse più. Non sono più tornata a cercarlo per anni, e finalmente ero diventata una ragazza come tante, una a cui bastano le cose semplici, felice con poco e senza quel fastidioso lacerante bisogno di esprimersi. Andava tutto bene, finalmente. Mi bastava leggere le parole degli altri, la sera potevo guardare la tv senza pensieri - niente più notti insonni a rincorrere un'idea, a vomitare un sentimento senza forma - niente più bisogno di isolarmi in luoghi bui in cui muoversi alla cieca, con l'inevitabile necessità di allontanare chi mi voleva bene. Sembrava tutto più facile, più sensato, più logico, più maturo e ragionevole. Andava tutto bene.

Solo ogni tanto mi coglieva questa sensazione di essermi persa qualcosa, di aver dimenticato per strada qualche dettaglio importante. Mi ricordavo - come momenti appartenuti ad un'altra vita - di un gomitolo di emozioni che mi sfidava a districarlo, di notti passate a camminare nella stanza con la musica giusta in sottofondo, e di come poi a volte la tastiera di un computer o una penna nera fossero gli strumenti che scioglievano la matassa, anche se ciò non serviva mai a stare meglio. Serviva ad aprire di più la ferita, a gettarci dentro del sale, ad infilarci dentro una matita appuntita e scavare più a fondo. Serviva soltanto - almeno questo - ad urlare, visto che ad urlare con la voce non avevo mai imparato. Infatti quando non ci riuscivo la frustrazione era talmente tanta che non potevo far altro che accendere una sigaretta rubata a qualcun altro, e fumarla con la finestra aperta. Al mattino ero sempre esausta, e se mi chiedevano delle mie occhiaie io non sapevo come spiegarle, perché chi le avrebbe capite quelle mie guerre solitarie. Era faticoso, questo sì, ma mi faceva sentire viva, e mi faceva capire chi potevo essere.

Quando ho messo via quel minuscolo pezzo, luminoso e tagliente, ho anche smesso di ascoltare la musica che amavo. Quella malinconica, cattiva, arrabbiata, quella che su poche note lascia correre un fiume di parole; quelle canzoni che mi facevano bene solo la metà di quanto mi facevano male, che mi davano ispirazione e mi stancavano come una seduta intensa dallo psicoterapeuta. Avevo smesso di ascoltare musica, e non sapevo bene il perché. Forse tutto questo non mi appartiene più, mi son detta spesso. Appartiene al passato, come molte altre cose, è soltanto un ricordo, sta già sbiadendo.

E' incredibile come ciò che ci appartiene davvero riesca, prima o poi, a farsi strada, ad attirare l'attenzione con delicatezza o con prepotenza. E' stato un cantautore a dirmi "Ehi, ti sei accorta di cos'hai? Proprio lì, in quell'angolo..." indicando quel pezzetto luminoso abbandonato tanto tempo prima, un po' più opaco adesso, ancora più scheggiato ed ancora più tagliente. Io ho continuato ad ignorarlo, ma il cantautore ormai l'aveva tirato fuori, e quello continuava a muoversi dentro di me smuovendo tutto il resto, urtava le pareti interne del torace continuando a ferirmi a tagliuzzarmi qua e là e non ho più potuto far finta di nulla. L'ho preso in mano, non sapevo proprio più come si maneggiava, subito mi sono provocata un bel taglio sul palmo che ha cominciato a sanguinare. Ho preso il telefono, un paio di cuffie, ho digitato un nome, fatto partire un video ed ho passato una due tre notti a piangere - solo poche lacrime per volta, niente di grave - ed a capire. Chissà se tutto questo servirà a qualcosa, io però lo devo fare.

Sono sincera, questo pomeriggio - mentre iniziava l'ennesimo acquazzone - ho avuto il breve impulso di aprire un altro blog, uno nuovo in cui versare questo nuovo capitolo di vita, durante il quale so bene che non avrò abbastanza tempo, energie, ma soprattutto voglia di scrivere ciò che finora ho scritto qui. Parlarvi di libri, di telefilm, delle cose belle che fanno gli altri. E' un periodo diverso, questo fatto di temporali primaverili, in cui scriverò tantissimo, ma devo parlare di tutt'altro. Di me, del cielo che ho sulla testa, dei chilometri che esistono tra Roma e Milano, dell'avere ventisette anni, del cambiare colore di capelli con le stagioni, dell'attesa per una persona o per una macchina, dell'imparare a sbattere una porta quando sei arrabbiata e delle verdure che cuociono a fuoco lento sul fuoco.

E poi però mi sono detta ma a che serve un nuovo blog. Scriverò di tutto questo qui, sulla carta, sui muri, in un messaggio su whatsapp. Talvolta scrivo soltanto per me stessa, in certe occasioni ho un bisogno disperato che qualcun altro legga e mi dica qualcosa, qualsiasi cosa, solo per dimostrarmi che non ho parlato da sola, che non ho gettato un'altra scheggia di quel pezzetto tagliente nel vuoto, in un dirupo, dalla soglia di un burrone. E' tutto così importante, ed al tempo stesso così insignificante, che non riesco a contenerlo ma neanche a buttarlo fuori.

Un passo alla volta. Devo imparare ad accontentarmi, e forse scriverò anche di questo.

Anna Karénina, Lev Tolstòj

Anna Karénina , Lev Tolstòj, Russia 1875-77 – ma anche qualsiasi altro luogo e tempo dacché esistono l’uomo e la donna. Il commento al rom...