Devo ammetterlo, forse commetto un errore. L’errore di avere un’opinione così alta ed un tale rispetto verso i classici della letteratura mondiale – e quella ottocentesca in particolare – da attribuir loro quasi la caratteristica dell’infallibilità. Dimentico a volte che quello che oggi è un grande classico è stato un tempo un libro come un altro, un romanzo fresco di pubblicazione verso il quale il lettore comune non nutriva i sentimenti che oggi circondano e ammantano la fama di certi titoli. Vero è però che il mio culto per i classici non nasce dal nulla, ma dal fatto che ormai – seppur me ne mancano ancora tantissimi, e di fondamentali – posso anche affermare di averne macinati parecchi sino ad oggi ed un classico che mi avesse completamente delusa non lo avevo ancora incontrato. Ce n’è stato qualcuno che non mi è piaciuto, certo, come ad esempio Effie Briest di Theodor Fontane – noiosissimo, con dei personaggi antipatici costruiti male ed una visione delle cose retrograda anche per la sua epoca (1894-95) – o Il sosia di Dostoevskij che sono certa di non aver capito. Ma anche in questi casi, pur non comunicando con i miei gusti e la mia sensibilità, ho chiuso quei testi con la sensazione di aver imparato qualcosa, di uscirne arricchita ed in qualche misura appagata. Dopo un intero mese passato a leggere le 1205 pagine che compongono Il Conte di Montecristo, invece, sono esattamente la stessa persona che ero prima di cominciarlo ed oltre alle varie questioni su cui mi dilungherò a breve, su ciò che questo romanzo contiene l’unica domanda che sarei riuscita a farmi sarebbe stata: e quindi?! Ma andiamo con ordine.
Di cosa parla Il Conte di Montecristo.
Il romanzo si apre sul ritorno a Marsiglia, dopo mesi trascorsi in mare aperto, della nave Pharaon, il cui capitano si era ammalato e poi morto durante il viaggio. Per questo, il comando era stato preso in via provvisoria da Edmond Dantès, giovane ed abilissimo marinaio molto amato dagli uomini al suo servizio. Dantès si configura subito come un ragazzo semplice, dal cuore puro, guidato da saldi principi e valori onesti, incapace di secondi fini e pertanto indifeso contro la malizia altrui. Al momento dello sbarco, giudicato ottimo il lavoro da lui svolto, il proprietario della nave – l’armatore Morrel – si sbilancia nel dirgli che ci sono ottime possibilità che venga subito promosso a capitano. Dantès, col cuore colmo di gioia e riconoscenza, sogna già questa prospettiva, che renderebbe più facile la sua vita e quella di coloro che ama, ovvero due sole persone al mondo: il vecchio padre, che vive di ciò che il figlio guadagna, stringendo la cinghia durante le sue lunghe assenze, e la bellissima catalana Mercedes, che aspetta pazientemente il ritorno del suo innamorato. Dantès sta quindi per coronare le sue umili ambizioni – una posizione lavorativa rispettabile e ben retribuita, il matrimonio con la donna che ama e la tranquillità per suo padre – ma c’è chi, nonostante lui non abbia fatto nulla per meritarlo, cova nei suoi confronti odio e gelosia. C’è chi lo invidia per l’avanzamento di carriera, chi lo considera un rivale in amore, chi nutre per lui una grande antipatia. Da quest’avversione comune nascerà un complotto ai danni di Edmond, destinato a stravolgere il corso della sua vita. A causa di una falsa denuncia anonima che lo accusa di bonapartismo nel periodo in cui Napoleone è esiliato all’Elba e la monarchia francese si è ristabilita sul proprio trono, Dantès viene arrestato; ad interrogarlo è il procuratore del re Villefort, che comprende subito l’innocenza del ragazzo, ma ha i suoi interessi personali nell’insabbiare più in fretta possibile tutta questa storia. Così, il povero Dantès viene gettato nelle segrete del castello d’If, dove resterà per ben quattordici anni. Periodo durante il quale, ad un certo punto, avrà la fortuna (ed è il caso di sottolineare questa parola) di conoscere l’abate Faria, creduto da tutti un povero vecchio pazzo perché continua a promettere un immenso tesoro in cambio della propria libertà. Dantès scopre ben presto che Faria è tutt’altro che pazzo, ma al contrario un uomo dalla cultura vastissima e dotato di grande ingegno, che invece di abbandonarsi alla disperazione – come lui invece stava facendo – aveva incessantemente lavorato di mente e di braccia per trovare un modo per evadere. Gli anni di prigionia diventano così immensamente preziosi, perché Edmond si farà insegnare da Faria tutto ciò che sa ed il vecchio, che finisce con l’amarlo come un figlio, gli svela tutti i segreti circa il suo famoso tesoro, lasciandoglielo in eredità se mai fosse riuscito ad uscire vivo di lì. E’ grazie a questi presupposti – cultura, conoscenza e denaro – che Edmond Dantès si trasformerà nel Conte di Montecristo, sposando come unico scopo della propria esistenza quello di vendicarsi dei colpevoli della propria sorte.
Pubblicato a puntate a partire dal 1844, Il Conte
di Montecristo si inserisce a pieno titolo nel filone del feuilleton
– tanto in voga a quell’epoca – ovvero il romanzo d’appendice, un genere
letterario che aveva come obiettivo principale quello d’intrattenere le masse,
e per questo presentava di solito trame avventurose e grandi intrecci che
avrebbero mantenuto vivo l’interesse nonostante la pubblicazione episodica.
I motivi per cui questo romanzo non mi è piaciuto per niente.
1. La
superficialità di Alexandre Dumas, ed il suo stile di scrittura.
Fin dalla prima pagina la scrittura di Dumas mi è parsa molto semplice, tant’è che la prima cosa che vien da pensare, leggendolo, è quanto sia scorrevole. Dal canto mio però credo che l’aggettivo scorrevole non sia nulla di particolarmente lusinghiero: da un romanzo scritto bene quasi mi aspetto che sia scorrevole, così come esistono libri assolutamente mediocri di cui si può comunque dire che siano scritti in modo scorrevole. Se fossi stata onesta con me stessa avrei storto un po’ di più il naso fin dal principio, ma ben conoscendo l’entusiasmo generale che circonda i romanzi di Dumas mi son detta di dargli un po’ più di tempo. Ebbene, il tempo non ha fatto altro che peggiorare sempre più la mia percezione della sua penna: lo stile di Dumas non è semplice – qualità che spesso apprezzo moltissimo – ma sempliciotto, ai limiti del banale e del grossolano. Non c’è stato un singolo momento in 1205 pagine in cui io possa dire di essermi veramente emozionata, qualsiasi momento o personaggio egli stia raccontando il tono è sempre il medesimo, incredibilmente piatto. Ed a questo si deve, evidentemente, il piattume dei suoi personaggi: benché ce ne sia qualcuno riuscito meglio (e più tardi ne parlerò) in linea di massima hanno tutti lo spessore delle comparse. Anche verso quelli principali, si sviluppa una certa familiarità solo a forza di vederli ricomparire ed a causa dell’importanza che rivestono all’interno della trama, ma mancano tutti del più vago senso di tridimensionalità. Non c’è costruzione emotiva né scavo psicologico, e di tutti loro alla fine non sappiamo molto di più di quanto ne sapessimo all’inizio. Non c’è vera e propria crescita o evoluzione: non sono i personaggi a muoversi ma soltanto le cose attorno a loro e loro restano, in fin dei conti, sempre uguali.
Non riesco a pensare ad una sola frase interessante
dal punto di vista letterario, un guizzo in qualche scelta lessicale o
costruzione sintattica (e no, non è colpa del traduttore perché, grazie alla
scelta di leggerlo in compagnia, ho potuto confrontarmi con chi teneva in mano
edizioni e traduzioni diverse dalla mia). Semmai rabbrividisco ancora – dalla
noia e dalla bruttezza – di certe pagine fatte solo da dialoghi sterili ed un
po’ inutili che hanno il solo scopo di far camminare la trama, ma che dubito
possano soddisfare chiunque apprezzi una scrittura un minimo più sofisticata.
La superficialità di Dumas emerge tutta
nel suo modo di gestire la materia storica, che ha voluto
per forza buttare all’interno del romanzo ma dalla quale – secondo me – sarebbe
stato molto meglio se si fosse tenuto lontano. Nella parte iniziale il contesto
storico è – anche se sarebbe più corretto dire che sarebbe stato – di fondamentale
importanza, ma Dumas non fa il minimo sforzo né per costruire veramente il
contesto che ha deciso di usare né tanto meno di approfondire le questioni di
cui si è voluto servire. Non pretendo un’accurata digressione storica da un
romanzo d’intrattenimento, ma sono dell’idea che se decidi di usare come comparsa
Napoleone in persona, e di usare elementi di un periodo delicato come quello
post-Rivoluzione francese o lo fai bene, oppure meglio evitare. Mi chiedo
come potrebbe, una persona che ha scarsa conoscenza del periodo, comprendere
tutta una serie di cose di cui si parla, un po’ alla rinfusa, nella prima parte
del romanzo e soprattutto come potrebbe capire perché essere accusati di
bonapartismo in quel momento sia un’accusa tanto grave da essere sbattuti nelle
segrete di un castello-prigione. Certo, esiste sempre l’opzione “se non sai le
cose e vuoi capire te le vai a cercare da te” ma io mi chiedo: il bello di
leggere romanzi di altre epoche non consiste anche proprio nell’imparare da
essi, nella possibilità di approfondire nozioni fredde e distanti grazie ad una
storia che le rende vive?
Io son proprio di quest’idea, tant’è che mentre
affrontavo queste pagine in cui si parla a vanvera di bonapartismo e realismo
trovandole incredibilmente noiose – e noiose proprio perché superficiali, poco
approfondite, scritte male – il pensiero andava da sé al lavoro straordinario
svolto da Charlotte Bronte, che nel suo Shirley, avendo
deciso di usare come periodo in cui ambientare la propria storia quello della
Rivoluzione industriale, ha saputo ricrearne perfettamente tutte le tensioni,
facendomi comprendere come mai avevo potuto capire prima che cosa comportasse
nella vita quotidiana di un piccolo imprenditore inglese il blocco
napoleonico – e guarda caso torna proprio la figura di Napoleone, forse è
da questo che scaturisce il mio confronto – e perché l’avvento dei macchinari
nell’industria scatenò tanta divisione e tante difficoltà. Eppure, neanche
quello è un romanzo storico.
L’idea che Dumas fosse un autore un tantino
superficiale viene poi avvalorata da due informazioni. La prima è che venne
ripetutamente citato in tribunale per questioni legate ai diritti d’autore,
dal collega Auguste Maquet, anch’egli scrittore e drammaturgo. Dumas si
era affidato a lui durante la stesura di tutti i suoi romanzi, ricevendo da
Maquet un contributo fondamentale per quanto riguarda la costruzione storica e
l’ambientazione delle proprie opere. Che si sia però dimenticato di lui, dopo
aver ottenuto il successo sfruttando le sue conoscenze? Tra gli esperti c’è chi
sostiene che Maquet abbia scritto interi capitoli dei romanzi di Dumas, chi
dice che “Maquet realizzava ciò che Dumas non riusciva a scrivere” – fatto sta
che in seguito alle guerre in tribunale Maquet ottenne un rimborso di 145.200
franchi, perdendo però i diritti sulle opere che aveva contribuito a scrivere.
La seconda informazione che alimenta il mio giudizio
di superficialità sull’approccio che Dumas aveva nei confronti del proprio
lavoro, è che il manoscritto de Il Conte di Montecristo è famoso
anche per essere pieno di refusi, sviste, imprecisioni, trascuratezze. Sono
dettagli che non inficiano in particolar modo la lettura, spesso anzi solo il
lettore sempre vigile e meticoloso se ne accorgerebbe. Nella mia edizione – I
grandi classici di Bur – però questi momenti venivano sempre segnalati con
una nota a piè di pagina, perciò è stato inevitabile ad un certo punto rendermi
conto di come a Dumas non importasse più di tanto se certi dettagli della
propria costruzione narrativa fossero corretti o meno.
Il Conte di Montecristo si
regge solo ed unicamente sulla trama e sul susseguirsi degli eventi. Non dovrei
aspettarmi altro da un romanzo d’appendice di destinazione popolare, forse –
invece mi aspetto molto, ma molto di più, perché purtroppo non è la
prima opera riconducibile a questo filone che leggo. E se penso che Charles
Dickens o il suo amico e collega Wilkie Collins operavano con le
stesse modalità non posso che mettermi le mani nei capelli per la distanza che
separa una qualunque delle loro opere dal capolavoro di Dumas in termini di
qualità – sotto ogni punto di vista, ma soprattutto quello stilistico e
letterario. Prendete un personaggio qualunque a caso, anche uno che compare una
volta sola, in un’opera qualunque di questi due autori e sarà mille volte
caratterizzato meglio dello stesso Dantès.
2. Edmond
Dantès alias Conte di Montecristo.
Edmond Dantès riusciva almeno a farmi tenerezza. Chiunque
ne proverebbe per il giovane marinaio così puro, onesto e fiducioso e chiunque
proverebbe dispiacere per le sue prospettive spezzate a causa della malignità e
dell’arrivismo altrui. La mia antipatia profonda e radicata infatti non è tanto
verso Dantès – se lo identifichiamo col giovane innocente ingiustamente
incarcerato – ma per colui che riemerge dalle segrete del castello d’If, ovvero
il Conte di Montecristo.
Personaggio totalmente irrealistico, più piatto degli
altri, in preda ad un insanabile delirio di onnipotenza e con quello che
secondo me è un grave disturbo narcisistico della personalità.
Affermo questo perché sono incalcolabili i momenti in
cui egli afferma di essere strumento della Provvidenza, la quale
senz’altro esiste ma non sempre si palesa e concretizza sulla Terra, per questo
il buon Dio ci ha mandato lui, grazie al cielo. Siamo tutti d’accordo che abbia
subito delle profonde ingiustizie, per di più gratuite, e sebbene l’idea di
vendetta sia un sentimento distante anni luce dal mio modo d’essere – sono una
persona quasi incapace di portare del semplice rancore, figuriamoci – avrei
compreso il suo desiderio di restituire il male subìto a chi per primo lo aveva
causato. Ma il suo sentirsi/credersi/porsi come un essere superiore che ha
diritto di vita e di morte sugli altri proprio non riesce ad andarmi giù: chi
gli ha conferito tale diritto? Chi l’ha eletto a strumento divino sulla Terra?
Dalla sua bocca escono più di una volta espressioni
come la seguente:
“Per me il buon servitore è quello su cui ho diritto di vita e di morte”.
E qui non si rivolge neanche ai suoi nemici, ma per
l’appunto ai suoi servitori. Ed un personaggio che la pensa così è un
personaggio straordinario, che merita tutta l’ammirazione di cui gode? Non
riesco proprio a spiegarmelo e lo trovo al contrario totalmente indifendibile,
come nella storia del suo schiavo – e sottolineo schiavo – Alì, che non
approfondisco per non fare spoiler.
Il suo delirio non sta solo nella percezione di sé come strumento divino del bene con la missione di far
pulizia laddove ha agito il male; la sua follia si manifesta anche in contesti da lui percepiti come positivi: così come punisce quelli che gli hanno tolto tutto, allo stesso modo si prodiga per ricompensare quelli che, al contrario, hanno tentato per quanto possibile di aiutarlo. Ma il suo modo di elargire la ricompensa non appare come disinteressato, è tutto permeato di egocentrismo e narcisismo: nel momento in cui viene riconosciuto come benefattore egli gode smisuratamente dell’adorazione altrui. Infatti ciò che ho visto in determinati momenti del romanzo – quei momenti in cui sembrava doveroso sciogliersi dalla tenerezza per il buon cuore del Conte – io ho visto solamente un uomo pieno di sé che non ne aveva mai abbastanza di essere idolatrato da persone che – come del resto qualunque personaggio del libro – pendono dalle sue labbra.Ed ecco, parliamo di questo. Perché diamine tutti
pendono dalle sue labbra e vengono tramortiti all’istante dal suo carisma?!
Questa è un’altra cosa che faccio fatica a spiegarmi, perché se è vero che il
Conte, col suo aspetto fuori dal comune, i suoi modi ed abitudini frutto di
interminabili viaggi intorno al mondo, non lo fanno passare inosservato
nell’alta società piena delle sue convenzioni, mi sembra comunque eccessivo che
nessuno sia in grado di tenergli testa (anche perché io tutto questo
pozzo di scienza in lui non l’ho visto, ma vabbè).
Per me il Conte è un personaggio totalmente
irrealistico, perché Dumas gli attribuisce qualunque dote e qualità. Lo
descrive come bellissimo (però pallido e tenebroso), fortissimo, ricchissimo,
poliglotta, eccellente in qualunque attività, dottissimo in ogni disciplina!
Anche meno verrebbe da dire, no? A ben guardare, il Conte di Montecristo mi
sembra l’antesignano perfetto del protagonista maschile dello young adult medio.
A rendere poco credibile il suo personaggio non è
nemmeno l’eccessiva perfezione. La storia della letteratura, del cinema o delle
serie tv, così come anche la realtà storica è ricca di figure dal genio
smisurato, così grande in un campo solo o spalmato in diversi talenti; ma quasi
sempre ad una genialità smisurata, cui faremmo quasi fatica a credere, arrivano
a fare da contrappeso uno o più profondissimi punti deboli. La fragilità
umana, semplicemente, che non risparmia nemmeno i migliori tra di noi. E di
solito è proprio quella fragilità che ci permette di amare a pieno il genio
inarrivabile, perché lo avvicina a noi e questo accorciamento di distanza è lo
spazio in cui ha modo di nascere l’empatia.
Ecco, tra noi ed il Conte la distanza resta vastissima
e luoghi di empatia non se ne trovano. Il Conte non ha debolezze, è sempre
perfetto, impeccabile, tutto d’un pezzo, non ne sbaglia una. C’è un unico
momento in cui va in crisi – ma roba di un attimo, si ripiglia subito – e di
cui infatti non ero riuscita a comprendere il motivo.
// inizio spoiler //
Mi riferisco al momento in cui scopre la morte della
signora Villefort e di Edouard. Leggendo l’approfondimento a cura del
traduttore Guido Paduano ho potuto far chiarezza sul motivo della crisi, che
ovviamente è legato soltanto al delirio di onnipotenza: la crisi è infatti
dovuta al fatto che quelle due morti non era state premeditate né tanto meno
previste da lui, e questo fuori programma gli ricorda che non tutto è in suo
potere, trasformando il provvidenzialismo in fatalismo.
// fine spoiler //
Un’altra cosa che rende il Conte un personaggio
lontanissimo da qualunque cosa mi possa piacere è la divisione sempre
nettissima che esiste nella sua testa, nelle sue azioni e nella sua visione
della realtà in bianco e nero, bene o male. Forse dovrebbe essere tutto
così semplice, ma la realtà è che esistono sempre un milione di sfumature ed io
un personaggio che le sfumature non sa neanche cosa sono – e che infatti quando
gliene si presenta una è l’unico momento in cui dà di matto – non lo posso
amare né quasi concepire.
3. L’unica
cosa che avrei salvato e poi invece no.
In tutto questo, sì, c’era una cosa che avrei salvato:
okay – mi dicevo – non mi è piaciuto quasi niente, ma che Dumas abbia una
fantasia smisurata glielo possiamo concedere, la trama di per sé era avvincente
e l’ha tenuta su bene, almeno questo sì. Ecco, invece no, perché – udite udite
– di farina del suo sacco ce n’è ben poca. Il Conte di Montecristo è
ampiamente basato – per non dire copiato – su Le diamant et la vengeance (“Il
diamante e la vendetta”) di Jacques Peuchet, a sua volta basato su un fatto di
cronaca nera (1838). La coincidenza di fatti e personaggi tra l’opera di Dumas
e quella di Peuchet è talmente elevata che non potrei esporli senza fare
spoiler a chi non ha ancora letto il romanzo, ecco quant’è alta la percentuale
di cose identiche tra i due titoli in questione. Perciò no, nemmeno
l’inventiva di Dumas può riscuotere da parte mia particolare stima.
4. Cosa
salvo davvero.
Mi sento di salvare dal mio commento impietoso
solamente i personaggi ed il filone narrativo legato a casa Villefort. I personaggi
di questa famiglia sono gli unici tratteggiati discretamente, a mio avviso, nonno
Noirtier e Valentine su tutti e le vicende che si sviluppano in
mezzo a loro sono state le uniche che mi hanno dato forza sufficiente per
arrivare alla conclusione del romanzo quando veramente non riuscivo a
tollerarne più niente.
5. Per
concludere in bellezza:
nelle note biografiche sull’autore presenti a fine
volume ho potuto apprendere questo:
(Dumas)
acquista un terreno a Port-Marly, dove progetta di costruire la propria
residenza. Il Castello di Montecristo, inaugurato nel 1847, sarà un
ritrovo d’obbligo per la Parigi mondana dell’epoca e un simbolo
dell’incontenibile istrionismo del proprietario.
Ora, non so che percezione avete voi di un fatto del
genere, ma io non sono riuscita a trattenermi dal farmi qualche risata, perché
lo trovo assurdo e ridicolo. Questa è stata la ciliegina sulla torta, che ha
completato un immagine di Alexandre Dumas come un uomo forse un po’ mediocre ma
pieno di sé, che ha farcito il personaggio di Edmond Dantès con tutti gli -issimo
che avrebbe voluto essere, e che ha completato il suo vanaglorioso sogno ad
occhi aperti costruendosi addirittura un castello in cui continuare ad
autocelebrarsi davanti a tutti. Non ci posso credere.
Ma ora per favore, ditemi.
Cosa ci trovate voi tutti nelle pagine de Il Conte
di Montecristo?