Anna Karénina, Lev Tolstòj, Russia 1875-77 – ma anche qualsiasi altro luogo e tempo dacché esistono l’uomo e la donna.
Il commento
al romanzo con l’incpit universalmente riconosciuto come il più bello della
letteratura mondiale – “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni
famiglia infelice è infelice a modo suo” – meritava un’apertura altrettanto
incisiva. Ma non è soltanto per far colpo su chi eventualmente mi sta leggendo
che, nel momento in cui questa frase di apertura mi è venuta in mente, mi sono
affrettata ad appuntarla prima che mi passasse di mente: è un pensiero onesto e
sincero, che la penna di Tolstòj mi ha suscitato pagina dopo pagina.
Quest’opera mi ha aspettata pazientemente, su uno scaffale della mia libreria,
per anni. E’ un fatto curioso, ma per almeno gli ultimi due o tre mi
ripromettevo di leggerlo a febbraio: chissà perché proprio il mese più corto
dell’anno mi sembrava quello giusto per un romanzo così lungo e corposo. Alla
fine comunque è stato davvero in febbraio che mi sono imbarcata per la
sconfinata Russia, scoprendo luoghi da cui non avevo mai veramente voglia di andar
via. La lettura di Anna Karénina sarà per sempre legata al tepore del
fuoco, anche quando febbraio scivola in marzo e paradossalmente alle prime
giornate di sole seguono serate ancora più fredde. E avrà il sapore di quelle
serate, segnate dalla ricerca costante di silenzio per non perdere alcun
dettaglio tra le righe, accompagnate dal sorseggiare lento di una tisana calda
o di un calice di vino rassicurante.
In queste pagine si entra in punta di piedi, resi timidi da un certo timore reverenziale
per questo autore che, in vita, fu osannato come un profeta e che da morto non
gode certo di minor fama. Ma la timidezza non dura a lungo, ce la si dimentica
ben presto sulla soglia del primo capitolo, perché fin da subito tutto è così
vivo, movimentato, i personaggi descritti tanto magistralmente che è
impossibile opporre alcun tipo di resistenza. Si viene catapultati al centro di
un vortice di luoghi, eventi, persone, sentimenti che sembra di non aver mai
visto prima – talmente potenti, così ben scritti – eppure di riconoscere alla
perfezione come qualcosa di visto o vissuto. Un paradosso irrisolvibile ma
chiarissimo, perché Tolstòj parla di tutti noi con una capacità
di osservazione fuori dal normale ed una conoscenza intima di un caleidoscopio
di caratteri, e lo fa scrivendo come probabilmente non ha mai scritto nessuno né prima
né dopo. E’ impossibile, secondo me, dire che un autore sia il migliore mai
esistito. Di Tolstòj mi sento però certamente in grado di dire che egli è stato
unico e che semmai fosse possibile fare una radiografia dell’anima – beh, lui
c’è andato molto vicino.
I personaggi
I personaggi
di Anna Karenina sono tutti collegati tra loro da rapporti di
parentela, amicizia o amore. Il primo che incontriamo è Stepàn Arkàd’ič,
da tutti chiamato Stìva, ed è con lui che assistiamo al primo
tradimento. Egli non è pentito del proprio comportamento, il suo unico
rammarico è anzi quello di essere stato scoperto. Stìva è lo stereotipo
dell’uomo leggero e mediocre, che Tolstòj riesce a descrivere in modo
sintetico ma centrando in pieno il punto in passaggi come questo:
“Si
atteneva fermamente alle opinioni sostenute dalla maggioranza e dal suo
giornale e le cambiava solo quando la maggioranza le cambiava, ovvero, per
dirla meglio, non era lui a cambiare le opinioni, ma loro stesse a cambiarsi
inavvertitamente in lui.”
A dimostrare
ulteriormente la superficialità di Stìva viene spesso ribadito come egli fosse
amico di tutti, come venisse accolto con gran gioia ovunque andasse, nonostante
probabilmente tutti questi amici non avrebbero saputo dire quali fossero le sue
effettive qualità. Proprio per questi motivi all’inizio si ha – se non una vera
antipatia – quanto meno una certa diffidenza nei suoi confronti, ma si finisce
chissà come con l’accettarlo per quello che è, riservandogli la medesima
benevolenza nutrita da quelli che lo circondano, perché è instancabilmente
allegro e di buonumore e nei suoi infiniti difetti e mancanze cerca spesso di
fare del bene.
Vittima di
questo primo tradimento è sua moglie, Dàr’ja Aleksàndrovna, detta
semplicemente Dolly. La prima immagine che abbiamo di lei è per ovvi
motivi quella di una donna fragile, ferita e che si fa rappresentante di
un’esperienza comune – almeno una volta nella vita – a tutte le donne del
mondo: la caduta delle illusioni amorose, quel momento in cui il
velo si squarcia e gli occhi che hanno guardato ingenuamente (e puramente)
all’uomo amato sono costretti a vedere che egli è diverso da quello che si
credeva. Per molti versi, Dolly rappresenta il tipico angelo del focolare,
ma col proseguire del romanzo dimostra di essere anche una donna molto forte, estremamente
pratica, razionale, capace di accettare la realtà e soprattutto di trarre il
meglio da ciò che possiede e che è in suo potere. Per queste ragioni, per la
sua profondità, la capacità di fare lo sforzo di comprendere l’altro e per
certi versi anche la sua apertura mentale, è un personaggio che mi è piaciuto
molto.
Sorella di
Dolly è Ekaterìna Aleksàndrovna, chiamata dagli intimi semplicemente Kitty.
Kitty è una ragazza giovane, tutta intenta a compiere i primi passi verso
l’intricato mondo degli adulti. Nel suo tempo e nella sua società, questo
significa per lo più poter – e dovere – prendere parte agli eventi mondani e,
neanche a dirlo, fare colpo su un buon partito. Kitty, in questi suoi primi
passi, ci appare molto ingenua, e proprio a causa della sua evidente
inesperienza commette degli errori. Errori innocenti, ai nostri occhi, ma per i
quali lei non riuscirà a perdonarsi facilmente. Kitty si allontana
temporaneamente insieme ai genitori, per una di quelle vacanze ristorative di
spirito e salute di cui leggiamo sempre nei romanzi ottocenteschi; in questa
sua parentesi di riposo, però, ho visto in realtà il suo percorso di
ricerca di sé: trovando un modello in una nuova amica, Kitty si
interroga su se stessa e compie senza ombra di dubbio una di quelle evoluzioni
invisibili e silenziose che tanto piacciono a me. In tutto il resto del
romanzo, Kitty dimostra una spiccata sensibilità e di sapere il fatto suo.
Similmente alla sorella Dolly, Kitty è un personaggio femminile,
nel senso più nobile del termine. E’ dolce, romantica, ha un forte senso
materno ed un’istintiva capacità di agire, che la rendono capace di prendersi
cura dell’altro anche sotto pressione o in frangenti delicati. Se non si
fosse già capito, Kitty è uno dei miei personaggi preferiti.
Stìva invece è niente meno che il fratello della nostra protagonista, Anna Arkàd’evna Karénina, la quale fa nel romanzo un ingresso trionfale: arriva a Mosca per tentare di riportare la pace tra il fratello e la cognata (Dolly) – ed è un po’ assurdo che Tolstòj affidi proprio a lei questo compito. Sin dalla prima riga la si percepisce come una figura molto carismatica, bellissima ed elegante in modo diverso dalle altre donne, in una parola: affascinante. Fin dal viaggio di ritorno a casa però, a San Pietroburgo, la sua immagine cambia radicalmente: è come se perdesse le energie, la vediamo afflosciarsi al pari di un fiore rimasto senz’acqua. Anna Karénina è un personaggio sfuggente ed ambiguo, che non si riesce a condannare del tutto – perché chiunque proverebbe comprensione per la sua infelicità – ma nemmeno si sta dalla sua parte incondizionatamente. I suoi comportamenti, infatti, sono spesso a dir poco discutibili, il più delle volte sembra una persona che non sa cosa vuole e che nemmeno compie lo sforzo di provare a capirlo una volta per tutte. Uno degli strappi fondamentali della sua esistenza è sicuramente la lacerazione che viene a crearsi in lei tra il senso ed il dovere della maternità, e la passione. Nel vuoto che si crea da questo strappo si colloca la sua scelta di abbandonare l’amato figlio, una scelta per cui Anna non va certo demonizzata, ma ancora una volta lei non sembra convinta fino in fondo delle proprie azioni e sembra quasi che non faccia altro che fare passi avventati sulla spinta di emozioni proprie o – peggio ancora – altrui. Nessuno potrebbe negare, credo, che Anna Karénina sia uno dei personaggi più emotivi della storia.
Parte dei problemi di Anna derivano dal suo essere infelicemente sposata
ad Alekséj Aleksàndrovic Karénin, che inaspettatamente
ho trovato essere uno dei personaggi più interessanti dell’opera. Egli è
l’esatto opposto di Anna, è un uomo dominato dalla razionalità, un burocrate da
sempre dedito alla carriera, che lei percepisce come freddo, noioso, incapace
di provare qualunque sentimento. Ma se a primo impatto è fin troppo facile
mettersi dalla parte di Anna e giudicarlo allo stesso modo, proseguendo nella
lettura si scopre che non è affatto vero: pur essendo di sicuro molto razionale
e poco passionale, Karénin è profondamente umano e trovo che lui capisca lei
molto più di quanto lei non capisca lui. Egli cova i propri pensieri e
sentimenti e più di una volta compie anche il tentativo di comunicarli alla
moglie, stabilendo con lei un vero dialogo; ed è lei che, col suo atteggiamento
prevenuto e giudicante, lo fa ritrarre istintivamente. A questo punto lui
adotta modalità sarcastiche e minimizzanti per autodifesa. Come padre, invece,
è un totale disastro: quando si trova da solo col figlio si rivolge ad un bambino
ideale e non al bambino in carne ed ossa che ha davanti, e che si trova in
estrema difficoltà.
Per certi versi distaccato da tutti loro, ma legato da amicizia prima e
parentela acquisita poi, c’è un personaggio che ho scoperto dividere nettamente
i lettori, tra chi lo adora e chi l’ha mal sopportato al punto di saltare a
volte le pagine che riguardavano lui solo: sto parlando di Lèvin che io – indovinate un po’ – ho amato tantissimo
sin dalla sua prima apparizione. Oltre all’affetto che nutro per lui però, è un
personaggio particolarmente importante, perché è lui ad essere specchio e
portavoce di Tolstòj. Basta leggere anche le brevi note biografiche dell’autore
ad inizio o fine romanzo per ritrovare tantissime comunanze, di pensiero o di
vissuto. Lèvin si distingue da tutti gli altri personaggi per il suo rifiuto della vita mondana: egli è infatti dedito alla vita
bucolica ed al lavoro, tormentato da una spaccatura interiore tra l’agio di cui
gode per la propria condizione sociale di nascita, ed i propri valori e
principi che lo portano vicino alla condizione miserevole dei contadini russi.
A livello personale, invece, Lèvin non ha altro che un forte desiderio di una
propria vita famigliare e domestica tranquilla e felice. Sempre mosso da
sentimenti veri ed onesti, incapace di sotterfugi e finzioni, è un uomo puro, a
tratti ingenuo, dolce, caparbio, capace di ricredersi e di amare.
Karénin e Lèvin avranno un rivale in comune: il conte Vrònskij. Anche lui è un personaggio sorprendente, perché se
all’inizio l’ho odiato senza riserve, ne ho pian piano scoperto la
stratificazione che, se non me lo ha reso simpatico, ne ha fatto come nel caso
di Karénin una figura più interessante di quanto sembrasse. Egli si configura
dapprima come un uomo frivolo e superficiale, un po’ come Stìva ma connotato da
un tratto meschino. Si innamora di Anna e, contrariamente a ciò che ci si
aspetta dalla sua natura di donnaiolo, è capace di restarle fedele nelle
traversie, ed anche di compromettersi e fare rinunce pur di restarle accanto. Il
però sta nell’evidenza che Vrònskij è una di quelle persone che ha
bisogno del desiderio e della
fatica necessaria a raggiungere l’oggetto del desiderio, che una volta ottenuto
viene a noia. Se ciò non è evidente già nel suo rapporto con Anna, lo diventa
senz’altro nel suo rapporto con l’arte, alla quale si dedica proprio nel
momento in cui la passione amorosa non è più la stessa dei primi tempi. Anche
il disegno, una volta fatto il massimo che la propria capacità gli consentiva,
viene abbandonato perché non ha altro da dargli. Per gran parte del romanzo mi
son chiesta cosa mai avesse Vrònskij per conquistare Anna al punto da
stravolgere la propria esistenza. Senz’altro ha quel tratto passionale mancante
al marito, ma oltre questo?
Anna vs. società
L’ambientazione si sposta continuamente tra i due poli cittadini di Mosca e San Pietroburgo, dalle quali si hanno parentesi di pausa ed a cui – soprattutto – si contrappone il modello della vita in campagna, in cui la natura ed il lavoro fisico rappresentano delle vere e proprie possibilità alternative, salvifiche per l’uomo che non si rispecchia e che non vuole inserirsi nel contesto offerto dalla routine mondana. Lo sguardo, l’esempio e la lente d’ingrandimento sulla vita bucolica li dobbiamo ovviamente a Lèvin; tornando invece al discorso sulle città, entrambi i due grandi poli russi si fanno teatro della rappresentazione di una vita mondana totalmente frivola, dominata dai salotti dell’alta società nei quali regna sovrano il pettegolezzo: l’alta società russa risulta intrisa di falsità, abbondano i matrimoni di facciata – quasi tutti i mariti hanno l’amante, i tradimenti sono risaputi ma accettati finché vengono salvate le apparenze.
Verrebbe da chiedere: e perché Anna allora fa eccezione?
Proprio perché lei va oltre, rendendo palese e lampante la sua relazione
extraconiugale con Vrònskij fino al punto di fuggire con lui,
auto-condannandosi ad essere una donna perduta. Il punto di non ritorno
nella sua condotta è rappresentato da una scena in cui, proprio in uno di quei
salotti alto-borghesi, Anna si apparta a parlare col suo amante in privato, a
lungo, sotto gli occhi di tutti scatenando subitaneamente bisbigli ed indignati
commenti sottovoce. Ma cos’è che allora viene
effettivamente condannato dalla società, il tradimento in sé o piuttosto
il coraggio di essere trasparente, coerente con se stessa e la forza di
assumersi la responsabilità delle proprie scelte ed azioni? La società
– o meglio i suoi membri – vivono infatti secondo convenzioni e convenienze,
scegliendo sempre ciò che risulta più semplice, vantaggioso, che comporta meno
sacrificio; Anna, in un certo senso, col suo comportamento sbatte in faccia a
tutti l’ipocrisia che domina
le loro esistenze ma, come spesso accade, piuttosto che accogliere l’elemento
critico, di rottura, come possibilità di riflessione ed evoluzione, esso viene
allontanato e stigmatizzato, al fine di non mettersi in discussione e non
rischiare.
D’altro canto, Anna – come Emma Bovary – sembra già in partenza
votata all’infelicità, senza molte possibilità di salvezza. Come accennato
precedentemente, mi son chiesta più volte durante la lettura del romanzo se lei
amasse davvero Vrònskij, o se lo amasse solo in quanto antitesi di ciò che
ormai odiava nel marito. In quest’ottica, Vrònskij diventerebbe poco più che
uno strumento per evadere dalla prigione del matrimonio.
Silenziose corrispondenze: Anna e Lèvin
Una delle cose che mi hanno più colpito, e sulle quali mi sono soffermata
a riflettere, è che ho riscontrato un’inaspettata forte somiglianza nei personaggi
di Anna e Lèvin. Entrambi infatti subiscono un cambiamento
interiore innescato da uno spostamento fisico: Anna che
si reca a Mosca in aiuto del fratello e della cognata, Lèvin che va in città
colmo di dubbi e speranze per chiedere la mano di una donna; prima di subire
questo cambiamento fondamentale sono accomunati – secondo me – da un tratto che
li rende due sognatori. Entrambi, proprio nel momento in cui sono
lontani dalle rispettive quotidianità, si concedono di far vivere quel sognatore
che alberga in loro. Al momento del ritorno a casa entrambi, facendo i
conti coi propri desideri frustrati, tentano di nuovo di rinchiudere e
soffocare dentro di sé il sognatore, e lo fanno proprio mediante il
ritorno meticoloso alla quotidianità brevemente lasciata. Tolstòj dedica tanto
all’uno quanto all’altra paragrafi in cui descrive meticolosamente le stanze –
non posso dimenticare lo studio di Lèv, lo scrittoio di Anna – in cui entrambi,
raccontandosi di essere indaffarati con carta e calamaio, fanno del proprio
meglio per autoconvincersi che quella sia la loro unica vita possibile,
faticando a dominare una mente – un cuore – che invece desidera ardentemente
ben altro. Questo ritorno quindi, nella penna di Tolstòj, passa attraverso i
cinque sensi, attraverso il contatto fisico con gli oggetti conosciuti
contenuti nella casa, che però
– per entrambi – sembra avere una connotazione ambivalente: quella della familiarità,
che da un lato porta la consolazione delle cose note, conosciute, rassicuranti,
ma dall’altro è contenitore di assenza di novità, stimoli, di sentimenti che
facciano sentire vivi.
In questo ritorno sia Anna che Lèv tentano di re-inserirsi, ma lo
fanno cercando di spegnersi e rendersi quasi un semplice accessorio in più
dell’ambiente cui appartengono. Una rassegnazione che però ben presto si rivela
impossibile, perché loro per primi sono tutt’altro che convinti di rinunciare
per sempre ai propri desideri. Ed è a questo punto che scatta prepotente la ribellione, che in Anna si manifesta
naturalmente nella relazione e poi nella fuga con Vrònskij, mentre Lèvin getta
tutto se stesso – anima e corpo – nel lavoro, cercando di convincersi che
esistere in questo ambito gli sarà sufficiente – illusione distrutta
istantaneamente nel secondo esatto in cui all’improvviso rivede la donna amata
(e quelle, se me lo chiedete, sono tra le pagine più belle di tutto il
romanzo).
Questa somiglianza, che almeno io ho riscontrato, è però spezzata da una
differenza sostanziale: il sogno di Lèvin è puro, legittimo, non nuoce a
nessuno e lui non fa del male nel tentativo di raggiungerlo – al contrario, nel
momento in cui gli pare irrealizzabile si ritira in solitudine impegnandosi a
dimenticare. Il suo sogno sarà infatti coronato. Quello di Anna, al contrario,
è impossibile fin dal principio: anche lei lo realizzerà, ma ad un
prezzo altissimo, ovvero ferire tutti quelli che la circondano – in primis
l’adorato figlio – e sarà quindi un sogno realizzato senza vera felicità,
macchiato da vergogna, rifiuto, rinuncia, mancanze, rancore.
L'assenza di un divenire.
Ultima questione che mi premeva sottolineare riguarda ancora il
personaggio di Anna. Conversando per delle ore al telefono con una cara amica
abbiamo convenuto su un’impressione, ovvero che Anna Karénina è quel
tipo di persona che ha un bisogno viscerale di una propria realizzazione
personale, di incanalare tutta la propria energia e passionalità in qualcosa di
concreto, di importante e significativo. Non so perché, ma la immaginavo
benissimo come un medico di grande successo – oppure con una carriera in
campo politico, suggeriva la mia amica riflettendo sul suo eccezionale
carisma. Il punto è che, a prescindere dall’uomo di turno, per una come lei non
poteva essere sufficiente essere la “moglie di”, “l’amante di”, “la madre di”.
Ed è solamente questo, secondo me, il motivo della sua insanabile infelicità,
il dramma misterioso che da donna bella ed intrigante la trasforma in anima
tormentata, lunatica, irrazionale. La conosciamo solo in questa fase della sua
vita, ma non mi sarei affatto stupita se anche in fasi precedenti ella fosse
stata preda di profonde crisi, di insoddisfazione, di inspiegabile
frustrazione. Ed in quest’ottica – pensando alle sue possibilità mancate, alla
persona che forse sarebbe stata se avesse avuto delle scelte – la pena che
provo di fronte al suo dolore è inquantificabile.
Altrettanto stupore mi ha suscitato la sua capacità di raccontare l’animo
e la sensibilità femminile. Ci sono scene, momenti, sottilissime pieghe del
sentire che non credo di esser mai riuscita veramente a spiegare ad un
uomo: vederli non solo compresi così a fondo, ma addirittura narrati in una
maniera così efficace da un uomo – vissuto tra l’altro secoli fa – mi ha
totalmente spiazzata. Sapere che poi, ad esempio, la moglie di Tolstòj ha avuto
tutt’altro che vita facile al suo fianco lascia piuttosto perplessi, ma questo
è un altro discorso, che forse affronterò il giorno in cui avrò letto i diari
di Sòf’ja.
Altri temi: un accenno
Anna Karénina è un romanzo non solo
corposo nella mole, ma così ricco di temi, di questioni che non soltanto lo
rileggerei volentieri – io che non sono propensa alle riletture – ma di cui
sento che non si finirebbe mai di parlare. Per questa mia analisi ho scelto di
concentrarmi su alcuni punti, ma avrei potuto mettere in luce invece, ad
esempio, come attraverso i suoi personaggi e le coppie da loro formate Tolstòj
abbia rappresentato quattro diversi modelli di rapporto amoroso: quello tra
Stìva e Dolly, che somiglia ancora oggi a tantissimi matrimoni, in cui le cose
non funzionano più alla perfezione ma si decide di chiudere un occhio ed
accettare compromessi; Anna e Karénin, dove invece la disfunzione non viene
accettata e si pone fine al rapporto facendosi del male a vicenda (ed anche a
chi non c’entra nulla, come i figli); Anna e Vrònskij, l’amore passionale che
esplode e non può essere domato, ma che forse sotto la fiamma non ha molto
altro da offrire; ed infine quello tra Lèv e Kitty, l’unico rapporto sano,
costruito un pezzo per volta, dolce e romantico, ma non esente dalle difficoltà
che sorgono mentre si fa lo sforzo di conoscersi e di capirsi, e di incastrare
la propria vita – i gusti, le abitudini, i desideri – con quelli di qualcun
altro. Il racconto dell’inizio della loro quotidianità di convivenza mi ha
ricordato tantissimo ciò che ho vissuto e provato io in quel momento, perciò mi
è parso estremamente reale e veritiero.
Infine, non posso non menzionare anche solo brevemente le pagine
dell’ultima parte, dedicate al climax di disperazione nel quale finisce per
versare Anna. L’ansia attanagliante, gli sbalzi vorticosi dei suoi pensieri
ormai privi di logica e razionalità, si trasmette fittamente dalla pagina a te
che leggi e credo, pur non essendo un’addetta ai lavori e quindi corro il
rischio di sbagliarmi, che Tolstòj compia in quel frangente una descrizione
abbastanza accurata di alcuni sintomi e sensazioni della depressione. Se
questa mia lettura fosse corretta, rendiamoci conto dell’avanguardia di
quest’uomo.
Come spesso mi succede quando leggo un libro acquistato molto tempo
prima, mi son sentita in realtà felice di averlo affrontato solamente adesso,
sentendo di averne colto a pieno la grandezza – cosa che forse sarei stata in
grado di fare anche da più giovane, o forse no. La lettura di Anna Karénina è
stata un’esperienza maestosa, che ho intenzione di cercare nuovamente nel corso
di quest’anno perché di certo non ne ho abbastanza della penna di Tolstòj.
Pochi romanzi mi hanno costretta a continuare a rimuginare per giorni e giorni
– mesi! –, a confronti così stimolanti ed inesauribili con chi aveva già letto
ed amato quest’opera. Cosa che spero si ripeta ora ed in futuro, con chiunque
dopo aver letto questo post avrà voglia di dirmi la sua.
Grazie, se hai letto sin qui.
Julia