«Improvvisamente si mise a scrivere un romanzo. Stava a tavolino interi giorni e parte della notte. Non diceva una parola di quello che scriveva; alle mie domande rispondeva di malavoglia e laconicamente; conoscendo il suo riserbo smisi di fargli domande».
Questo ricordo è di D.V. Grigorovič, coinquilino di Dostoevskij nel 1844, l'anno in cui un Fëdor ancora pressoché sconosciuto al mondo delle Lettere e brillante studente dell'Istituto Superiore d'Ingegneria si mette per l'appunto a tavolino per scrivere il suo primo romanzo: Povera gente. Lo scrive praticamente di getto ma poi lo copia, lo ricopia, lo corregge, lo rivede; sembra non riuscire ad esserne soddisfatto, fin quando non decide di promettere a se stesso di non toccarlo più. Quando il romanzo viene pubblicato, nel 1846, Dostoevskij ha venticinque anni e si ritrova catapultato al centro di furiose polemiche tra i critici pietroburghesi. Checché se ne dicesse, però, la pubblicazione di Povera gente costituì l'evento dell'anno e, soprattutto, segnò l'inizio della grande carriera letteraria dell'autore russo.
Dostoevskij è uno di quegli autori per i quali mi sono imposta di leggere tutto in ordine cronologico. Il mio primo approccio con questo autore è stato quasi casualmente con Le notti bianche, racconto letto a diciannove o vent'anni, l'età giusta per sentirsi in linea col Sognatore, cosa che forse più tardi riesce più difficile. Comunque, grazie a quest'evento mi ero impuntata anche sull'idea di leggere tutto Dostoevskij prima dei trent'anni. Quindi mi restano poco più di cinque anni (manca così poco ai trenta? magone) per restare fedele ai miei propositi squilibrati.
Dunque, Povera gente. Innanzi tutto si tratta di un romanzo epistolare, un regolare ma non fittissimo scambio di lettere tra Makar Djevuskin e Varvara Dobrosjelova, uniti da un qualche legame di parentela e che prendono a scriversi nel periodo in cui si trovano ad abitare l'uno di fronte all'altra.

Se andrete a cercare le opinioni dei lettori su questo libro, troverete una sorprendente quantità di recensioni negative: i lettori dicono che è noioso, scialbo, inutile, che tutti quei nomignoli usati dai protagonisti sono insopportabili e che alla fin fine non c'è un granché da leggere, in queste pagine. Non ho dubbi che questo è quanto potrebbe suscitare la lettura di Povera gente, l'esordio di Dostoevskij, in chi ha già conosciuto Dostoevskij “il grande”, quello dei romanzi più tardi e corposi sia di mole che di contenuto. Ebbene, io quel Dostoevskij lì non l'ho ancora conosciuto e queste pagine non mi hanno affatto annoiata: ho trovato qui una magnifica e tragica descrizione dei ceti più bassi della società in cui egli viveva, un fervido racconto della miseria più nera, quella in cui i bambini muoiono perché i genitori non hanno nulla da dargli da mangiare. Ho trovato un sapiente e raffinato racconto di un uomo che non sapeva distinguere un buon libro da un libro pessimo e che, leggendo, impara a farlo. In quanto allo stile delle lettere, è lo stesso Dostoevskij a chiarire che per questo romanzo non poteva usare il proprio stile, se a scrivere è un uomo come Makar: la voce doveva essere la sua, doveva essere credibile e doveva testimoniare questa sua ricerca di uno stile. Il tutto, a mio parere, è perfettamente riuscito.
«(...) In primo luogo, ho avuto il mal di testa tutto il giorno, e sono uscito a passeggio lungo la Fontanka per prendere un po' d'aria; la sera era molto scura, umida: alle cinque cominciava già a far buio; ecco, ora è così! Non pioveva, però c'era una nebbia non migliore di una buona pioggia; le nuvole, in lunghe e ampie fasce, vagavano per il cielo; la gente camminava in folla per il lungofiume e, a farlo apposta, aveva visi paurosi che davano tristezza, contadini ubriachi, donne finlandesi dai nasi camusi, con gli stivali e la testa nuda, artigiani, carrettieri, funzionari per qualche necessità; ragazzacci, un apprendista fabbro con la vestaglia a strisce, magro, deperito, col viso intriso di grasso affumicato, una serratura in mano; un soldato in congedo, alto due metri circa, che aspettava un mercante per vendergli un temperino e un anellino di bronzo: ecco qual era il pubblico; a un'ora simile, evidentemente, non ce ne può essere uno differente. E' un canale navigabile, la Fontanka; vi si vede una tal quantità d'imbarcazioni, che non si capisce dove possano trovar posto tutte; e sui ponti vi sono donne con panpepati fradici e con mele guaste, tutte sono molto sporche, bagnate. Che noia passeggiare per la Fontanka: pietre umide sotto i piedi, ai lati case alte, nere, affumicate; sotto i piedi nebbia, sopra la testa pure nebbia. Era tanto triste, tanto buia la sera, oggi!
Quando ho svoltato nella Gorohovaka era già buio ovunque e cominciavano ad accendere il gas; da un pezzo non vi ero andato, non vi riuscivo più. Che via rumorosa, che botteghe ricche, che ricchi magazzini: qui tutto brilla, splende: le stoffe, i fiori dietro le vetrine, i cappellini di tutte le fogge, con nastri. Si crede che tutte le cose vi siano disposte per bellezza, ma non è così: il fatto è che vi sono persone che comprano tutte queste cose e fanno regali alle loro donne. Che via ricca! Nella Gorohovaja abitano molti panettieri tedeschi, e anch'essi devono essere gente molto agiata. Quante carrozze passano ogni momento; e il selciato vi resiste: equipaggi molto lussuosi, vetri come specchi, broccati e sete all'interno, servitori di palazzo con spalline e spadino. Ho gettato un'occhiata in ogni carrozza, vi siedono sempre signore molto eleganti, forse anche principesse e contesse; del resto era l'ora in cui si affrettavano ai ricevimenti e ai balli. Dev'essere interessante vedere da vicino una principessa e, in generale, una gran dama: dev'essere molto bello; non ne ho mai viste, se non così, – come adesso – gettando uno sguardo nelle carrozze. Allora mi sono ricordato di voi. Ah, passerottino mio, cara, quando mi ricordo di voi, il cuore mi langue di pena. (...)»
Questo ancora mi manca del buon vecchio caro Dosto, ma voglio recuperare presto ^^
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