![]() |
Arthur Schnitzler, 1862-1931 |
Sono tornata ad uno dei miei autori preferiti, lo scrittore-medico viennese Arthur Schnitzler del quale vi ho già parlato diverse volte, per la precisione recensendo la sua opera più conosciuta, ovvero Doppio sogno – da cui è tratto anche il film capolavoro di Stanley Kubrick, Eyes wide shut – ed il breve ma intensissimo racconto Geronimo il cieco e suo fratello. Vi invito a dare un’occhiata ai post che scrissi allora – ve li ho linkati appositamente – perché in quelle occasioni mi presi il tempo di raccontarvi qualcosa anche dell’autore e del particolare rapporto che lo legò a Sigmund Freud: i due erano contemporanei, vivevano e lavoravano nella capitale austriaca, eppure si stimarono reciprocamente a cortese distanza senza mai incontrarsi. E’ difficile introdurre un’opera di Schnitzler senza accennare a questi fatti, senza spiegare ai lettori che forse non lo conoscono come le sue storie siano immerse, intrise, affogate nel fango degli aspetti più torbidi della psicologia umana. Schnitzler ci mette con le spalle al muro, ci spoglia delle nostre maschere e ci costringe a guardare proprio in quegli angoli bui in cui evitiamo accuratamente di addentrarci.
Ogni essere umano impara a capire, nella vita, che
dentro ci portiamo una certa quantità di ombre. Quanto siano oscure e
pericolose, e quanto vengano percepite dall’esterno, questo dipende dal nostro
vissuto, dal nostro carattere, dal modo in cui impariamo o meno a gestirle. Ma
tutti abbiamo zone oscure che faremmo volentieri a meno di frequentare – invece
Schnitzler prendeva un foglio, la sua penna e metteva nero su bianco parole che
avrebbero costretto i suoi lettori a fare i conti con la pericolosità di certi
pensieri, con le conseguenze di certe azioni, col baratro che è pronto a
spalancarsi se per un attimo smettiamo di stare attenti. E come se tutto questo
non bastasse, la penna di Schnitzler va spesso a colpire quanto per le persone
c’è di più caro: i rapporti personali, i legami affettivi, quelli che
dovrebbero essere il punto fermo delle nostre precarie esistenze, il caposaldo
nella confusione dei giorni peggiori, l’unico barlume di purezza in un mondo
spesso troppo sporco. Invece no, Schnitzler cancella una dopo l’altra tutte le
bugie e le illusioni che sappiamo crearci riguardo le persone a noi care ed il
rapporto che faticosamente e con cura cerchiamo di costruire con esse; anzi, è proprio lì che si annidano i segreti
più loschi, che stanno in agguato le sofferenze maggiori!, sembra
sussurrarci l’autore tra una riga e l’altra. Il rapporto di coppia in Doppio sogno, il rapporto tra
fratelli in Geronimo il cieco e suo fratello, ora persino quello intoccabile
tra una madre e suo figlio.
Ve lo dico subito, Beate e suo figlio è il
libro di Arthur Schnitzler che finora mi ha coinvolta meno e mi è piaciuto meno,
ma ciò vuol dire ben poco visto che il livello di apprezzamento delle opere
precedenti è altissimo. Anche questa volta il libro è breve – 124 pagine, anche
se piuttosto fitte – ambientate in una località di villeggiatura dove la
quotidianità scorre placida, il tempo sembra quasi fermo e gli impegni son
quelli di poca reale importanza, come cene, partite a tennis o a carte, sortite
notturne in barca sulle acque immobili di un lago. Il luogo sembra incantevole
e piccolo, quasi autosufficiente e sospeso nel nulla, se non fosse per quei
minimi richiami che lo ricollocano nel nostro mondo, come la ferrovia e la
stazione o la posta. I villeggianti appartengono tutti alla borghesia
medio-alta, qualcuno ha titoli aristocratici, si conoscono tutti perché sono
gli stessi da anni. La nostra protagonista si chiama Beate, è una donna di mezza età, vedova di un famoso ed amatissimo
attore di teatro e madre di Hugo, un
ragazzo di diciassette anni bello, sano e studioso. Beate è sicuramente una
donna affascinante, più di un uomo nella cerchia di persone che frequenta non
fa mistero di essere attratto da lei, ma lei, Beate, sembra essere
irriducibilmente fedele alla memoria del marito, unico uomo ad aver posseduto
il suo amore ed il suo corpo e del quale continua a sentire un’incolmabile
nostalgia.
Nelle storie di Schnitzler, per quanto ho letto
sinora, la vita dei protagonisti scorre nella sua normalità, fino a quando non
sopraggiunge un elemento disturbante che
getta il seme del dubbio, sconvolgendo quella normalità, ribaltandola e
rigirandola fino ai limiti del possibile. Gli esiti variano di volta in volta:
la crisi, per quanto profonda, può rivelarsi utile e portare alla crescita ed
al miglioramento; oppure, al contrario, può essere fatale e condurre soltanto a
desolazione e dolore.
Ecco, in questo caso l’elemento disturbante è una
donna, la contessa Fortunata. Donna
matura e voluttuosa, sposata ma sempre sola. C’è qualcosa nella persona di
Fortunata che porta Beate a covare dei sospetti nei suoi confronti, e
contestualmente un visibile cambiamento nel suo adorato Hugo, all’improvviso
così chiuso e solitario, così attento a rifuggire le attenzioni materne. La
sensibilità femminile di Beate le suggerisce di stare attenta, i segnali le
dicono che Fortunata ha messo gli occhi su suo figlio e pian piano si convince
che il suo Hugo, ancora così giovane e innocente, rischia di diventare – se non
lo è già diventato – l’amante della contessa.
Beate affronta Fortunata faccia a faccia e se il
confronto non le reca forse tutto il sollievo in cui poteva sperare, a
fornirglielo ci penserà l’arrivo di un caro amico di Hugo, Fritzl. Grazie alla sua compagnia ed alla sua allegria Beate vedrà
Hugo tornare quello di sempre, affettuoso e sorridente, impegnato in escursioni
ed altre sane attività col suo compagno. Tutto risolto, quindi? No, perché
Beate cederà al disperato desiderio mostrato da Fritzl nei suoi confronti.
Fritzl, amico e coetaneo di suo figlio – e lei, Beate, non molto più giovane
della contessa Fortunata.
In questo gioco subdolo e malizioso, dove ogni attore
custodisce i suoi segreti, c’è spazio per svelare anche quelli del passato e
nelle notti solitarie Beate può confessare a se stessa che forse in realtà quel
defunto marito, il grande Ferdinand
Heinold, lei non l’ha mai amato: ha amato profondamente ed
appassionatamente tutti gli altri uomini che lui era stato, Cyrano, Amleto e Re
Lear e tutti gli altri – ma non lui, non davvero, no. E certe conversazioni
sussurrate portano alle sue orecchie un altro dubbio: la possibilità che lei
per lui non fosse stata l’unica, come sempre aveva creduto. Che forse il suo
eroe, il suo immortale marito, l’avesse tradita.
Un baratro si apre sull’altro nella mite esistenza di
Beate e purtroppo difficilmente potranno richiudersi. Salvare suo figlio e
salvare se stessa, questa diventa la missione in quello che invece doveva
essere solamente un piacevole periodo di vacanza.
Queste sono le spaccature dell’animo umano che ha
voluto mettere in luce Schnitzler in Beate
e suo figlio, come si ricuciono e se
si ricuciono è qualcosa che ovviamente vi lascio il gusto di scoprire
affrontando personalmente la lettura. Tuttavia, se non avete mai letto prima
questo autore vi sconsiglierei di cominciare da questo racconto: pur avendovi
ritrovato l’inconfondibile impronta, a mio parere lo scavo psicologico in Beate e suo figlio è meno forte e meno
sconvolgente rispetto agli altri due libri che ho letto; forse la storia mi ha
coinvolta di meno o forse non sono entrata sufficientemente in empatia col
personaggio di Beate. Non sono rimasta profondamente turbata come invece mi era
accaduto con Doppio sogno e con Geronimo il cielo e suo fratello. Se
invece siete già dei lettori di Arthur Schnitzler, allora Beate e suo figlio è sicuramente un tassello da aggiungere alla
vostra esperienza di lettura.
Nessun commento:
Posta un commento