sabato 10 marzo 2018

Beate e suo figlio, Arthur Schnitzler

Arthur Schnitzler, 1862-1931

Sono tornata ad uno dei miei autori preferiti, lo scrittore-medico viennese Arthur Schnitzler del quale vi ho già parlato diverse volte, per la precisione recensendo la sua opera più conosciuta, ovvero Doppio sogno – da cui è tratto anche il film capolavoro di Stanley Kubrick, Eyes wide shut – ed il breve ma intensissimo racconto Geronimo il cieco e suo fratello. Vi invito a dare un’occhiata ai post che scrissi allora – ve li ho linkati appositamente – perché in quelle occasioni mi presi il tempo di raccontarvi qualcosa anche dell’autore e del particolare rapporto che lo legò a Sigmund Freud: i due erano contemporanei, vivevano e lavoravano nella capitale austriaca, eppure si stimarono reciprocamente a cortese distanza senza mai incontrarsi. E’ difficile introdurre un’opera di Schnitzler senza accennare a questi fatti, senza spiegare ai lettori che forse non lo conoscono come le sue storie siano immerse, intrise, affogate nel fango degli aspetti più torbidi della psicologia umana. Schnitzler ci mette con le spalle al muro, ci spoglia delle nostre maschere e ci costringe a guardare proprio in quegli angoli bui in cui evitiamo accuratamente di addentrarci. 

Ogni essere umano impara a capire, nella vita, che dentro ci portiamo una certa quantità di ombre. Quanto siano oscure e pericolose, e quanto vengano percepite dall’esterno, questo dipende dal nostro vissuto, dal nostro carattere, dal modo in cui impariamo o meno a gestirle. Ma tutti abbiamo zone oscure che faremmo volentieri a meno di frequentare – invece Schnitzler prendeva un foglio, la sua penna e metteva nero su bianco parole che avrebbero costretto i suoi lettori a fare i conti con la pericolosità di certi pensieri, con le conseguenze di certe azioni, col baratro che è pronto a spalancarsi se per un attimo smettiamo di stare attenti. E come se tutto questo non bastasse, la penna di Schnitzler va spesso a colpire quanto per le persone c’è di più caro: i rapporti personali, i legami affettivi, quelli che dovrebbero essere il punto fermo delle nostre precarie esistenze, il caposaldo nella confusione dei giorni peggiori, l’unico barlume di purezza in un mondo spesso troppo sporco. Invece no, Schnitzler cancella una dopo l’altra tutte le bugie e le illusioni che sappiamo crearci riguardo le persone a noi care ed il rapporto che faticosamente e con cura cerchiamo di costruire con esse; anzi, è proprio lì che si annidano i segreti più loschi, che stanno in agguato le sofferenze maggiori!, sembra sussurrarci l’autore tra una riga e l’altra. Il rapporto di coppia in Doppio sogno, il rapporto tra fratelli  in Geronimo il cieco e suo fratello, ora persino quello intoccabile tra una madre e suo figlio.



Ve lo dico subito, Beate e suo figlio è il libro di Arthur Schnitzler che finora mi ha coinvolta meno e mi è piaciuto meno, ma ciò vuol dire ben poco visto che il livello di apprezzamento delle opere precedenti è altissimo. Anche questa volta il libro è breve – 124 pagine, anche se piuttosto fitte – ambientate in una località di villeggiatura dove la quotidianità scorre placida, il tempo sembra quasi fermo e gli impegni son quelli di poca reale importanza, come cene, partite a tennis o a carte, sortite notturne in barca sulle acque immobili di un lago. Il luogo sembra incantevole e piccolo, quasi autosufficiente e sospeso nel nulla, se non fosse per quei minimi richiami che lo ricollocano nel nostro mondo, come la ferrovia e la stazione o la posta. I villeggianti appartengono tutti alla borghesia medio-alta, qualcuno ha titoli aristocratici, si conoscono tutti perché sono gli stessi da anni. La nostra protagonista si chiama Beate, è una donna di mezza età, vedova di un famoso ed amatissimo attore di teatro e madre di Hugo, un ragazzo di diciassette anni bello, sano e studioso. Beate è sicuramente una donna affascinante, più di un uomo nella cerchia di persone che frequenta non fa mistero di essere attratto da lei, ma lei, Beate, sembra essere irriducibilmente fedele alla memoria del marito, unico uomo ad aver posseduto il suo amore ed il suo corpo e del quale continua a sentire un’incolmabile nostalgia.

Nelle storie di Schnitzler, per quanto ho letto sinora, la vita dei protagonisti scorre nella sua normalità, fino a quando non sopraggiunge un elemento disturbante che getta il seme del dubbio, sconvolgendo quella normalità, ribaltandola e rigirandola fino ai limiti del possibile. Gli esiti variano di volta in volta: la crisi, per quanto profonda, può rivelarsi utile e portare alla crescita ed al miglioramento; oppure, al contrario, può essere fatale e condurre soltanto a desolazione e dolore.

Ecco, in questo caso l’elemento disturbante è una donna, la contessa Fortunata. Donna matura e voluttuosa, sposata ma sempre sola. C’è qualcosa nella persona di Fortunata che porta Beate a covare dei sospetti nei suoi confronti, e contestualmente un visibile cambiamento nel suo adorato Hugo, all’improvviso così chiuso e solitario, così attento a rifuggire le attenzioni materne. La sensibilità femminile di Beate le suggerisce di stare attenta, i segnali le dicono che Fortunata ha messo gli occhi su suo figlio e pian piano si convince che il suo Hugo, ancora così giovane e innocente, rischia di diventare – se non lo è già diventato – l’amante della contessa.
Beate affronta Fortunata faccia a faccia e se il confronto non le reca forse tutto il sollievo in cui poteva sperare, a fornirglielo ci penserà l’arrivo di un caro amico di Hugo, Fritzl. Grazie alla sua compagnia ed alla sua allegria Beate vedrà Hugo tornare quello di sempre, affettuoso e sorridente, impegnato in escursioni ed altre sane attività col suo compagno. Tutto risolto, quindi? No, perché Beate cederà al disperato desiderio mostrato da Fritzl nei suoi confronti. Fritzl, amico e coetaneo di suo figlio – e lei, Beate, non molto più giovane della contessa Fortunata.
In questo gioco subdolo e malizioso, dove ogni attore custodisce i suoi segreti, c’è spazio per svelare anche quelli del passato e nelle notti solitarie Beate può confessare a se stessa che forse in realtà quel defunto marito, il grande Ferdinand Heinold, lei non l’ha mai amato: ha amato profondamente ed appassionatamente tutti gli altri uomini che lui era stato, Cyrano, Amleto e Re Lear e tutti gli altri – ma non lui, non davvero, no. E certe conversazioni sussurrate portano alle sue orecchie un altro dubbio: la possibilità che lei per lui non fosse stata l’unica, come sempre aveva creduto. Che forse il suo eroe, il suo immortale marito, l’avesse tradita.
Un baratro si apre sull’altro nella mite esistenza di Beate e purtroppo difficilmente potranno richiudersi. Salvare suo figlio e salvare se stessa, questa diventa la missione in quello che invece doveva essere solamente un piacevole periodo di vacanza.
Queste sono le spaccature dell’animo umano che ha voluto mettere in luce Schnitzler in Beate e suo figlio, come si ricuciono e se si ricuciono è qualcosa che ovviamente vi lascio il gusto di scoprire affrontando personalmente la lettura. Tuttavia, se non avete mai letto prima questo autore vi sconsiglierei di cominciare da questo racconto: pur avendovi ritrovato l’inconfondibile impronta, a mio parere lo scavo psicologico in Beate e suo figlio è meno forte e meno sconvolgente rispetto agli altri due libri che ho letto; forse la storia mi ha coinvolta di meno o forse non sono entrata sufficientemente in empatia col personaggio di Beate. Non sono rimasta profondamente turbata come invece mi era accaduto con Doppio sogno e con Geronimo il cielo e suo fratello. Se invece siete già dei lettori di Arthur Schnitzler, allora Beate e suo figlio è sicuramente un tassello da aggiungere alla vostra esperienza di lettura.



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