giovedì 10 maggio 2018

Temporali

Piove ogni giorno, qui dalle mie parti. Verso le due del pomeriggio scoppiano certi temporali che poi vanno avanti fino a sera, lasciandomi giusto una parentesi di tempo di pioggia meno fitta e più clemente che mi permette di uscire con le mie figlie pelose. Daphne si ferma spesso guardandomi con l'aria interrogativa - andiamo avanti? Torniamo indietro? - stringendo spesso quei suoi occhi bellissimi quando le gocce d'acqua le cadono sul muso; a Daisy invece non interessa, lei va avanti incurante della mia lentezza e della pioggia, anche se il suo pelo lungo è quello che ne esce peggio e quando torniamo a casa sembra un pupazzo rimasto sotto le intemperie per giorni e giorni. I temporali di maggio iniziano con certi tuoni che più che tuoni sono esplosioni, uguale a quella che ho sentito dentro qualche notte fa. Sarà perché maggio è il mio mese, che i temporali primaverili ce li ho anche dentro. Forse per riprendermi. Risvegliarmi. Decostruirmi. Ricompormi.

Avevo un minuscolo pezzetto dentro, tanto tempo fa, che era bello come una pietra preziosa. Aveva tutti i bordi scheggiati e taglienti, però, ed io ero incauta. Lo ammiravo e lo mostravo, mi sembrava la parte più significativa di me. Maneggiavo quel pezzetto luminoso e affilato a mani nude, e lo mostravo a chiunque si avvicinasse, rischiando quasi sempre di farmi male e di fare male. Per questo un giorno decisi di metterlo via, di seppellirlo sotto un mucchietto di polvere e fare finta che non esistesse più. Non sono più tornata a cercarlo per anni, e finalmente ero diventata una ragazza come tante, una a cui bastano le cose semplici, felice con poco e senza quel fastidioso lacerante bisogno di esprimersi. Andava tutto bene, finalmente. Mi bastava leggere le parole degli altri, la sera potevo guardare la tv senza pensieri - niente più notti insonni a rincorrere un'idea, a vomitare un sentimento senza forma - niente più bisogno di isolarmi in luoghi bui in cui muoversi alla cieca, con l'inevitabile necessità di allontanare chi mi voleva bene. Sembrava tutto più facile, più sensato, più logico, più maturo e ragionevole. Andava tutto bene.

Solo ogni tanto mi coglieva questa sensazione di essermi persa qualcosa, di aver dimenticato per strada qualche dettaglio importante. Mi ricordavo - come momenti appartenuti ad un'altra vita - di un gomitolo di emozioni che mi sfidava a districarlo, di notti passate a camminare nella stanza con la musica giusta in sottofondo, e di come poi a volte la tastiera di un computer o una penna nera fossero gli strumenti che scioglievano la matassa, anche se ciò non serviva mai a stare meglio. Serviva ad aprire di più la ferita, a gettarci dentro del sale, ad infilarci dentro una matita appuntita e scavare più a fondo. Serviva soltanto - almeno questo - ad urlare, visto che ad urlare con la voce non avevo mai imparato. Infatti quando non ci riuscivo la frustrazione era talmente tanta che non potevo far altro che accendere una sigaretta rubata a qualcun altro, e fumarla con la finestra aperta. Al mattino ero sempre esausta, e se mi chiedevano delle mie occhiaie io non sapevo come spiegarle, perché chi le avrebbe capite quelle mie guerre solitarie. Era faticoso, questo sì, ma mi faceva sentire viva, e mi faceva capire chi potevo essere.

Quando ho messo via quel minuscolo pezzo, luminoso e tagliente, ho anche smesso di ascoltare la musica che amavo. Quella malinconica, cattiva, arrabbiata, quella che su poche note lascia correre un fiume di parole; quelle canzoni che mi facevano bene solo la metà di quanto mi facevano male, che mi davano ispirazione e mi stancavano come una seduta intensa dallo psicoterapeuta. Avevo smesso di ascoltare musica, e non sapevo bene il perché. Forse tutto questo non mi appartiene più, mi son detta spesso. Appartiene al passato, come molte altre cose, è soltanto un ricordo, sta già sbiadendo.

E' incredibile come ciò che ci appartiene davvero riesca, prima o poi, a farsi strada, ad attirare l'attenzione con delicatezza o con prepotenza. E' stato un cantautore a dirmi "Ehi, ti sei accorta di cos'hai? Proprio lì, in quell'angolo..." indicando quel pezzetto luminoso abbandonato tanto tempo prima, un po' più opaco adesso, ancora più scheggiato ed ancora più tagliente. Io ho continuato ad ignorarlo, ma il cantautore ormai l'aveva tirato fuori, e quello continuava a muoversi dentro di me smuovendo tutto il resto, urtava le pareti interne del torace continuando a ferirmi a tagliuzzarmi qua e là e non ho più potuto far finta di nulla. L'ho preso in mano, non sapevo proprio più come si maneggiava, subito mi sono provocata un bel taglio sul palmo che ha cominciato a sanguinare. Ho preso il telefono, un paio di cuffie, ho digitato un nome, fatto partire un video ed ho passato una due tre notti a piangere - solo poche lacrime per volta, niente di grave - ed a capire. Chissà se tutto questo servirà a qualcosa, io però lo devo fare.

Sono sincera, questo pomeriggio - mentre iniziava l'ennesimo acquazzone - ho avuto il breve impulso di aprire un altro blog, uno nuovo in cui versare questo nuovo capitolo di vita, durante il quale so bene che non avrò abbastanza tempo, energie, ma soprattutto voglia di scrivere ciò che finora ho scritto qui. Parlarvi di libri, di telefilm, delle cose belle che fanno gli altri. E' un periodo diverso, questo fatto di temporali primaverili, in cui scriverò tantissimo, ma devo parlare di tutt'altro. Di me, del cielo che ho sulla testa, dei chilometri che esistono tra Roma e Milano, dell'avere ventisette anni, del cambiare colore di capelli con le stagioni, dell'attesa per una persona o per una macchina, dell'imparare a sbattere una porta quando sei arrabbiata e delle verdure che cuociono a fuoco lento sul fuoco.

E poi però mi sono detta ma a che serve un nuovo blog. Scriverò di tutto questo qui, sulla carta, sui muri, in un messaggio su whatsapp. Talvolta scrivo soltanto per me stessa, in certe occasioni ho un bisogno disperato che qualcun altro legga e mi dica qualcosa, qualsiasi cosa, solo per dimostrarmi che non ho parlato da sola, che non ho gettato un'altra scheggia di quel pezzetto tagliente nel vuoto, in un dirupo, dalla soglia di un burrone. E' tutto così importante, ed al tempo stesso così insignificante, che non riesco a contenerlo ma neanche a buttarlo fuori.

Un passo alla volta. Devo imparare ad accontentarmi, e forse scriverò anche di questo.

2 commenti:

  1. Cara Julia, non ci sono molte parole per descrivere quanto mi sia piaciuto questo post. Mi è piaciuto così tanto che mi sembra quasi organizzato a strati, questo piacere, e dovrei dirti per ogni strato cosa, come e quanto mi sia piaciuto. Ma questo significherebbe scriverti un tomo di 100 pagine, cosa che ti risparmierò. Per cui ti dico solo che ho trovato frasi intere che vorrei annotare sui muri ma che invece ho già annotato negli occhi, come una nuova lente a contatto, e che ho sentito il temporale primaverile nelle tue parole, che è così diverso da quelli invernali, perché batte e grida, certo, e sconvolge i mondi, ma è anche così dannatamente vivo ed energico, che alla fine lo si accoglie quasi con gioia (quasi, eh, non esageriamo, mica siamo masochisti). Soprattutto ho sentito, nel leggerti, la tua voce che voleva essere sentita, vista, toccata e riconosciuta, tutta intera, compreso quel piccolo pezzetto prezioso e tagliente, che va maneggiato con cura e rispetto perché è talmente importante da risultare insignificante, ma solo perché non esistono le parole per dirlo. Quindi, alla fine, credo che l'unica cosa che dovrei dire in questo commento è qualcosa che non lasci cadere le tue parole nel vuoto, qualcosa che riconosca l'importanza di quello che hai scritto e che raccolga, con cura, la scheggia che hai depositato qui. Allora la mia parola è questa:
    Eccomi.

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    1. Amica mia, tu possiedi il raro dono di identificare e cogliere il cuore delle cose, o forse proprio delle persone. Perdonami se sarò breve nel rispondere a questo tuo meraviglioso commento, ma anch'io sento di avere per te un'unica parola:

      Grazie.

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