lunedì 23 marzo 2020

E' stato così, Natalia Ginzburg

Due anni fa lessi finalmente il più famoso romanzo di Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, e sfiderei qualsiasi lettore - specie se amante della miglior letteratura nostrana - a restare indifferente - per non dire a non innamorarsi perdutamente - della prosa della Ginzburg, ma soprattutto del suo sguardo sul mondo, della sua sensibilità, della sua capacità di riassumere entro il confine delle parole il sapore di un'intera epoca, la grandezza di una persona o i suoni di una casa. In Lessico famigliare l'autrice racconta non la sua vita, quanto le cose e le persone e i rumori ed i colori che le son stati attorno, quasi che lei fosse una spettatrice incaricata di restituirci i vezzi, gli accenti, le abitudini, i pregi ed i difetti delle personalità che la circondavano. E ciò che la circondava non era solo la famiglia d'origine, già di per sé interessantissima, ma anche ad un certo punto una certa famosa casa editrice torinese, da sempre vestita in bianco, ed ecco che allora la Ginzburg ci fa il regalo più grande, raccontandoci come camminava Cesare Pavese, della sua abitudine di mangiar ciliegie d'estate e dei discorsi che si tenevano alla sera tra lui, il marito Leone Ginzburg e altri nomi di spicco della cultura italiana. Ma questa è un'altra storia.

Un'altra storia fino ad un certo punto, perché è difficile separare il nome della Ginzburg da quello di Pavese, se non altro per il fatto che furono non solo contemporanei, ma per lungo tempo colleghi nelle stanze dell'Einaudi, scrivendo e leggendo ognuno alla propria scrivania a distanza di un tiro di schioppo. Forse per questa vicinanza, forse semplicemente perché figli dello stesso tempo, forse perché le loro opere furono spesso pubblicate a poca distanza l'una dall'altra, ma più di una volta i loro lavori vennero comparati, messi a confronto, giudicati l'uno in relazione all'altro: è il caso, ad esempio, di E' stato così e Il compagno di Pavese (sul quale, non avendolo letto, non posso dire la mia). Nonostante questo, tra Pavese e la Ginzburg non ci fu mai competizione, furono anzi legati da profonda amicizia e la sua scomparsa fu per Natalia un altro dei tragici eventi che colpirono la sua vita privata. Cesare Pavese fu tra i primi a promuovere E' stato così, secondo romanzo da lei scritto, raccomandandolo per una pubblicazione a puntate sul quotidiano romano L'Italia Socialista, proprio a scapito de Il compagno originariamente scelto dal direttore Aldo Garosci. Scrisse Pavese:
Caro Garosci, | ti abbiamo telegrafato di pubblicare Natalia. (...) oltre al fatto che Natalia ha tre figli da mantenere e io no, ci è parso - oggettivamente - che sia più opportuno un racconto dove il lettore dimentichi la politica (...) Sono anche certo che E' stato così servirà a far leggere il giornale a gente che normalmente non lo leggerebbe.
 E' stato così è un monologo in prima persona. La voce è quella di una donna ed una delle prime frasi che si leggono è: "Gli ho sparato negli occhi."
Ad essersi preso quel colpo di pistola è Alberto, marito della protagonista e voce narrante, che resterà per tutte le 84 pagine soltanto una voce. Lei non si presenta mai, se non attraverso la sua storia, e resterà una figura di donna senza nome. A proposito di quel colpo di pistola, la Ginzburg scrisse nel 1964: "Il colpo di pistola è nato dal caso. Desideravo scrivere e trovai un colpo di pistola, e gli andai dietro." (Che meraviglia questo modo di raccontare un'ispirazione, la scelta del verbo trovai in questa frase mi ha incantata per giorni). In una conferenza tenuta nello stesso anno, disse che la scelta di aprire il romanzo con un atto di violenza fu dovuta probabilmente all'atmosfera del momento, e che se per qualche motivo avesse dovuto riscriverlo non era affatto certa che la protagonista avrebbe sparato quel colpo. Il romanzo è infatti del 1947, non solo l'immediato dopoguerra ma anche tre anni appena dopo la morte del marito Leone, ucciso nel carcere romano di Regina Coeli in seguito alle percosse subite dai carcerieri nazisti. E questa morte tragica e brutale fu solo la conclusione di anni difficili, fatti prima di confino e poi di prigionia. Dal giorno del suo arresto, avvenuto il 20 novembre 1943, a quello della morte (5 febbraio 1944) Natalia non vide più suo marito. 

Dopo un breve periodo a Roma, Natalia era tornata a vivere a Torino:
Avevo ritrovato Torino, la nebbia, il grigio inverno e i muti viali dalle panchine deserte. Questo racconto E' stato così lo scrissi tutto nella sede della casa editrice dove allora lavoravo. Era subito dopo la guerra e c'erano stufe di terracotta molto fumose, perché gli impianti dei termosifoni, distrutti nella guerra, non funzionavano ancora. Questo racconto è intriso di fumo, di pioggia e di nebbia.
E dice poi, riguardo il proprio stato d'animo mentre scriveva:
Mentre scrivevo non mi curai di sapere se nella donna che dice "io" c'ero o non c'ero io stessa. Perché ero molto infelice e lasciavo che la mia infelicità pascolasse dove le pareva. (...) non si trattava per me di diventare meno infelice, ma di riuscire a scrivere a malgrado della mia infelicità (...).
Natalia Ginzburg

Per il lettore, quel colpo di pistola sparato nella sesta riga della prima pagina è il punto di sutura del racconto, perché per tutte le pagine che seguono sarà consapevole di come si concluderà quel matrimonio di cui la protagonista vuole ora con calma spiegarci e spiegarsi tutto - da come erano i suoi giorni prima di incontrare Alberto, a come è nata quella specie di affetto a forza di passeggiare e sedere assieme nei caffè, a come diventarono marito e moglie e come arrivò, lei, a sparare quel colpo. La protagonista esce di casa lasciando dov'è il corpo senza vita del marito, va a sedersi su una panchina nel parco, cammina, entra in un bar e prende un caffè, torna alla panchina; e intanto, per quelle che devono essere ore lunghissime, dispiega mentalmente tutta la propria storia - così che saprà farsi ascoltare quando poi andrà in questura, dove chiederà che la lascino parlare. Ma forse, in realtà, è solo a se stessa che ha bisogno di raccontare tutto per filo e per segno.

Questo espediente narrativo ha creato sin dall'inizio un parallelismo nella mia mente, quello con La mite di Dostoevskij. La differenza è che nel racconto dell'autore russo, all'incirca della stessa lunghezza di E' stato così, il narratore - che è un uomo - non ha ucciso la moglie, almeno non nel vero senso della parola: di molti anni più giovane di lui, e con una vita miserevole alle spalle, la mite si è suicidata, lasciando il marito a raccontarsi il loro rapporto da cima a fondo in cerca di una spiegazione per quella fine violenta, proprio come fa la protagonista della Ginzburg.

Ridotta all'osso, la storia di E' stato così è quella di un matrimonio sbagliato come tanti, partito con i presupposti sbagliati, che sembra un triste fatto di cronaca come al telegiornale se ne sentono purtroppo ogni giorno - quei casi in cui poi intervistano i vicini di casa ed i baristi del quartiere che sottolineano quanto i coniugi tal dei tali fossero una bella coppia, due persone così gentili, normali e nessuno si spiega come possano essersi un bel giorno annientati a vicenda. Se scavassero a fondo sotto anni di quotidiana infelicità, come fa la Ginzburg in queste pagine, potrebbero forse intravederne le ragioni - che non servono a giustificare, ma soltanto a spiegare.


La grandezza di E' stato così sta - oltre che nello stile della sua autrice - nella costruzione psicologica dei personaggi. La Ginzburg non fa descrizioni precise e minuziose, né dell'aspetto fisico né dei tratti caratteriali. Ad esempio di Alberto, nelle prime pagine, la protagonista dice:
(...) e mi tremava il cuore ogni volta che vedevo un uomo piccolo con un impermeabile bianco e una spalla più alta dell'altra.
E poi:
(...) e i riccioli grigi intorno al viso magro e il piccolo corpo gracile nell'impermeabile bianco che andava nella città.
E' tramite la ripetizione di questi dettagli - i riccioli grigi, il corpo gracile, l'impermeabile bianco - che il lettore riesce ad immaginare quanto basta la figura di Alberto. La Ginzburg ne tratteggia abilmente i contorni, perché essendo lui un irresoluto, un carattere interno ben definito non ce l'ha. Alberto è un irresoluto in tutto: da sempre innamorato di un'altra donna, Giovanna, già sposata quando si sono conosciuti, resta in balia di questa situazione, sostanzialmente aspettando che lei gli faccia un fischio per stare insieme; inizialmente rifiuta l'amore della protagonista sostenendo di non potersi legare a nessun altra donna, poi torna sui suoi passi - forse per ripiego o forse per avere anche lui, come Giovanna, una vita sua dalla quale escluderla - ma continuando, anche da sposato, a dividersi tra Giovanna e la moglie, mentendo in continuazione a se stesso e agli altri, senza costruire nulla di vero né da una parte né dall'altra. E la stessa irresolutezza vale per tutto il resto:
Disegnava ma non era mai diventato pittore e suonava il pianoforte ma non gli era mai riuscito di suonar bene, era avvocato ma non aveva mai avuto bisogno di guadagnarsi da vivere e per questo se anche non andava all'ufficio non poteva succedere niente di grave.
La protagonista, dal canto suo, non è in fondo tanto più forte o determinata di lui. Appare al contrario una di quelle persone che, essendo incapaci di far accadere le cose, si lasciano trasportare dagli eventi e dalle decisioni degli altri, covando rancori e dispiaceri in maniera passivo-aggressiva fino ad arrivare a situazioni estreme, come quella di impugnare una rivoltella e sparare. Non era sicura che Alberto le piacesse, ma continua a frequentarlo perché era meglio che star sola alla pensioncina dove aveva una camera in affitto; aveva il doppio dei suoi anni, se pensava di baciarlo o andarci a letto l'idea la ripugnava, ma si diceva che forse all'inizio è così per tutte le ragazze. Sapeva bene che c'era un'altra donna nella sua testa e che difficilmente avrebbe potuto scacciarla, ma si rassegna a chiudere un occhio sulle tante misteriose partenze del marito, continuando in silenzio ad avvelenarsi il sangue.

 Di tutt'altra pasta è fatta sua cugina Francesca, di diversi anni più giovane ma con parecchia più esperienza del mondo e soprattutto degli uomini. Lei sarà la prima - ed unica - a non vedere di buon occhio quel rapporto e consiglierà alla protagonista, ogni volta che potrà, di lasciarlo perdere. Inutile dire che non verrà ascoltata e le due cugine avranno, proprio per questa differenza di mentalità, un rapporto fatto di alti e bassi, pur costituendo una sorta di punto di riferimento l'un per l'altra. Francesca è un personaggio originale e variopinto all'interno del racconto, che rappresenta la modernità:
- Ho avuto molti amanti, - ha detto, - prima uno a Roma quando mi provavo a recitare. Mi ha chiesto di sposarlo e ho tagliato la corda. Non lo sopportavo più dopo un paio di volte. L'avrei buttato giù dalla finestra. Ma allora ero spaventata di me. Dicevo: cosa diavolo sono? una puttana sono, che mi piace tanto cambiare? Fanno molta paura le parole quando siamo giovani. E anch'io credevo allora che mi ci volesse un marito e una vita come tutte le donne. Ma invece a poco a poco ho capito che non bisogna pigliare le cose sul tragico. Dobbiamo accettare noi stessi così come siamo.
Infine c'è Augusto, migliore amico di Alberto con cui la protagonista potrà aprirsi più che col marito benché all'inizio tra i due non vi fosse simpatia; e persino la misteriosa Giovanna farà la sua apparizione sulle pagine, dicendo una delle cose più sagge contenute nel libro:
E' difficile sapere cosa vogliamo e siamo scemi da giovani.
E la vita comincia che siamo troppo giovani per capire.
Sebbene si conoscano in partenza certi eventi salienti, altre esperienze intercorrono nel racconto, esperienze cariche di speranze che si trasformano invece in sciagura, preparando il campo ad un tragico epilogo che pure si è rivelato diverso da quanto mi aspettavo.

Ottantaquattro pagine sufficienti a contenere una tragedia, un dramma familiare in un atto solo. La scrittura di Natalia Ginzburg si conferma bellissima, di quelle che proprio piacciono a me, capaci di costruire intere e nitide immagini usando soltanto e sapientemente la potenza dei dettagli.



Un abbraccio,
a qualche metro di distanza.

Julia







lunedì 16 marzo 2020

Senza nome, Wilkie Collins

Era il 1862 quando Wilkie Collins, dopo il successo di Basil e La donna in bianco, tornava a far compagnia ai lettori inglesi con un nuovo romanzo, intitolato Senza nome. Ancora una volta, il suo pubblico restò appeso ad un filo per un anno intero, aspettando di mese in mese che il capitolo successivo venisse pubblicato sulla rivista All The Year Around, diretta dal celebre collega ma soprattutto caro amico Charles Dickens.

Il lettore contemporaneo è per fortuna salvo dal patimento dell'attesa alla fine di un capitolo avvincente, e può bearsi di Senza nome nella sue gloriose 800 pagine tutte insieme, presentate in una nuova bellissima veste da Fazi Editore nel 2015.

Credo che una persona normale, sapendo di andare incontro ad un periodo ricco di impegni che lascerà ben poco tempo ed energie da dedicare alle proprie passioni, avrebbe scelto di affrontare letture più brevi ed agevoli; all'inizio dello scorso febbraio invece, io ho guardato le mie librerie e fatto proprio il ragionamento opposto: sarò spesso stanca, stressata e sotto pressione - mi son detta - i momenti che riuscirò a dedicare alla lettura saranno sicuramente pochi, ma voglio che quei momenti mi facciano immergere dalla testa ai piedi in un altrove. Il miglior altrove che mi è venuto in mente, è stata la mia amatissima Inghilterra vittoriana e, memore dell'esperienza più che positiva del mio primo incontro con l'autore, avvenuto leggendo La donna in bianco, ho deciso di buttarmi su Senza nome.


Senza nome è la storia di due giovanissime sorelle - appena diciottenne l'una, di un paio d'anni più grande l'altra -, Norah e Magdalen Vanstone, che dopo un'infanzia ed un'adolescenza come tante, vissute in seno ad una famiglia amorevole nella tranquillità di Combe Raven - questo il nome della grande proprietà che era la loro casa - si vedono catapultare nella vita adulta nel più triste e più violento dei modi. Una serie di sfortunati eventi - è proprio il caso di dirlo - le priva dall'oggi al domani di tutto ciò che hanno sempre avuto e conosciuto: improvvisamente orfane, perdono assieme agli amati genitori anche il nome che avevano fino ad allora portato, e di conseguenza anche tutto ciò che per diritto sarebbe loro spettato - l'eredità paterna, la casa e tutti i beni in essa contenuti. Le figlie pagano loro malgrado le colpe dei genitori, che fino a poco prima di andarsene tragicamente non erano legalmente sposati, all'insaputa di tutti coloro che gli son stati vicini per una vita intera, come Mrs Garth, arrivata a Combe Raven  come istitutrice per le bambine e poi rimasta come governante della casa, ed ora unico punto di riferimento per le giovani Vanstone, relitti infelici di un'esistenza perduta. Mrs Garth si offre di ospitarle presso la scuola diretta da sua sorella a Londra, dove potranno trovare momentaneamente vitto e alloggio e cercare poi un impiego come istitutrici private presso le buone famiglie inglesi.

Norah e Magdalen sono quanto di più diverso si possa immaginare, mi hanno ricordato almeno per quanto riguarda l'opposizione dei caratteri le sorelle austeniane di Ragione e Sentimento: tanto Norah è introversa, controllata e pacata, quanto Magdalen è al contrario esplosiva e preda delle proprie emozioni. Non stupisce quindi che anche alla tragedia subita risponderanno in maniera totalmente diversa: Norah non pensa neanche per un secondo di potersi ribellare o di poter fuggire dalla situazione in cui si trova, e seguendo le istruzioni di Mrs Garth si impegna a fare l'istitutrice privata; Magdalen, invece, non aspetta un secondo prima di fuggire e di cominciare senza neanche avere le idee chiare o un progetto preciso a lavorare per ottenere quello che fin da subito ha sentito essere il proprio dovere: riportare l'eredità paterna nelle legittime mani, ossia le sue e quelle di sua sorella Norah, non tanto per amor della ricchezza, quanto verso quel caro padre che in una lettera vergata poco prima di morire scriveva come non avrebbe potuto riposare in pace se non avesse risolto quella faccenda e non avesse saputo le sue figlie al sicuro da ogni cosa. Tutti i beni paterni sono finiti nelle mani di uno zio che né Magdalen né Norah hanno mai conosciuto, essendo il loro papà in cattivi rapporti con la propria famiglia di origine da prima che loro nascessero; ed è proprio a causa di quegli antichi dissapori che l'anziano zio rifiuta categoricamente di avere pietà delle nipoti, vedendo nell'intera vicenda il meritato risarcimento che secondo lui gli spettava per riparare ai danni causatigli dal fratello minore. 

L'avaro ed anziano zio Vanstone viene ben presto a mancare, ma la situazione non migliora poiché l'eredità passa interamente nelle mani del suo unico figlio, Noel Vanstone, un essere gracile e malaticcio che nutre dei sentimenti solo verso i beni materiali. Rimasto senza il padre, Noel Vanstone continua a vivere con Mrs Lecount, governante di origini svizzere da sempre al loro servizio, intelligente, astuta, malvagia e capace di comandare a bacchetta Noel Vanstone senza che egli se ne renda conto.

Magdalen, nel frattempo, sola nella grande città, viene ben presto rintracciata da un mezzo parente della defunta madre, un capitano che per tutta la vita non ha fatto altro che campare di stratagemmi e di sotterfugi, definendosi un agricoltore morale: un modo elegante per dire furfante di professione. Pur diffidando di tutti, e di quest'uomo in particolare, non avendo posto dove andare od anima viva a cui rivolgersi, Magdalen decide di seguire il capitano Wragge, iniziando così quella che sarà una lunga convivenza con lui e con la moglie, Mrs Wragge, gigantessa buona col cervello un po' lento, che si affezionerà profondamente a Magdalen e che sarà per molto tempo l'unica creatura a smuovere in lei sentimenti sinceri, sempre più dura ed infelice a causa dei passi che si costringe a compiere pur di portare a compimento il dovere che si è auto-imposta.

La parte centrale del romanzo, ed il cuore dello stesso, è un lungo ed inesauribile duello tra due schieramenti: da una parte Magdalen ed il capitano Wragge, dall'altra quel fantoccio di Noel Vanstone manovrato e protetto da Mrs Lecount. In particolare, il capitano Wragge e Mrs Lecount costituiranno l'un per l'altra un degno nemico, come mai ne avevano incontrati in precedenza e si sfideranno a suon di astuzia senza esclusione di colpi. Il movente di Magdalen resta sempre solo ed unicamente rendere giustizia alla memoria dei propri genitori, quello del capitano Wragge è la ricompensa in denaro che gli spetterà per i servizi resi qualora vincano la battaglia - anche se finirà sorprendentemente con l'affezionarsi davvero a Magdalen -, quello di Mrs Lecount è preservare integro il patrimonio del suo padrone per salvaguardare i propri interessi.  



Appena terminata la lettura, mi son resa conto di non sentirmi poi così entusiasta o appagata come mi sarei aspettata, ed inizialmente mi son detta che doveva essere a causa mia, che avevo sicuramente scelto il momento sbagliato per leggere un romanzo così corposo, e che la lettura così incostante e diluita nell'arco del mese doveva averne inficiato il risultato. Poi, con calma, mi sono accorta che non era affatto così e che c'erano effettivamente delle cose che non mi erano piaciute.

Innanzi tutto, Senza nome è troppo lungo. Non l'ho mai detto a proposito di un libro ed è un commento che mi fa quasi orrore mettere nero su bianco, perché per me i libri non sono mai troppo lunghi, specie i grandi classici o quelli di autori che, a prescindere dalla materia, sanno narrare, e Collins è di sicuro tra questi. Però - e credo sia quasi oggettivo - in Senza nome si avverte un qualcosa di troppo: non sarei in grado di prendere dei paragrafi o dei capitoli e dire "di questa parte se ne poteva fare a meno", ma gli intrighi, il continuo tramare da un lato e dall'altro, lo scoprire le carte di qua solo per poi mescolarle e complicare ulteriormente di là o non è abbastanza avvincente da non farmi stancare mai sino alla risoluzione finale, oppure Collins stavolta ha davvero allungato troppo il brodo. Non c'è dubbio che l'originale pubblicazione a cadenza mensile sortisse tutto un altro tipo di effetto, e che forse Senza nome essendo nato per esser letto in quel modo risenta negativamente dell'essere un tomo fatto e finito; tuttavia, ne ho letti diversi di romanzi nati a puntate - tra cui anche La donna in bianco - e non avevo mai riscontrato questo tipo di problema. A questa eccessiva lunghezza si accompagna per contro un finale che ho trovato sbrigativo e troppo semplicistico.

Ancor peggio, dal mio punto di vista, è il fatto che ho avuto l'impressione che Senza nome mancasse totalmente di originalità, e questo è stato l'elemento che mi ha delusa più di tutto, perché La donna in bianco  si regge su una narrazione geniale che non fa che stupire il lettore ad ogni svolta sino alla fine. Mi sono chiesta se sono io ad aver accumulato troppa esperienza con questo tipo di romanzi e che ormai conosco certe dinamiche come le mie tasche, o se Senza nome è effettivamente fuori tempo massimo per poter stupire il lettore contemporaneo. Fatto sta, che tutti i risvolti di trama importanti mi erano chiari fin dal primo accenno e mi hanno quindi lasciata abbastanza tiepida o indifferente. L'unico evento che effettivamente non mi aspettavo (spoiler: la morte di Noel Vanstone) è avvenuto a) troppo, troppo repentinamente e b) è lampante che all'autore questo evento servisse per mandare avanti la trama ed è quindi niente più che una scelta di comodo.

Infine - e questo è un pensiero molto soggettivo - a me è dispiaciuto perdere di vista personaggi presenti solo nella parte iniziale - quella ancora ambientata a Combe Raven - di cui si avranno per il resto del romanzo solo sporadiche notizie. Mi riferisco ad esempio a Mr Francis Clare, uno dei pochi vicini di casa che nonostante la propria misantropia non era riuscito a resistere all'affabilità di Mr Vanstone, il padre di Norah e Magdalen, col quale era nata discussione dopo discussione una bellissima e bizzarra amicizia. Mr Francis Clare è un filosofo cinico ed aveva tutte le carte in regola per essere uno dei miei personaggi preferiti, se non fosse appunto che ha pochissimo spazio. La sua sparizione dalle pagine è ovviamente giustificata dalle circostanze, poiché le protagoniste allontanandosi da Come Raven perdono i contatti con tutto ciò che resta lì, compreso Mr Francis Clare. Molto meno sensato, secondo me, è la pochissima attenzione data al personaggio di Norah. Magdalen si fa certo protagonista di avventure ben più avvincenti, e capisco che Collins abbia voluto puntare su di lei la luce del palcoscenico; tuttavia, io ero molto interessata a Norah nella prima parte del romanzo, e credo che sarebbe stato più interessante alternare i capitoli facendoci vedere anche come se la stava passando lei nel frattempo. Anche perché, seppur la sua quotidianità poteva essere più normale e meno ricca di eventi, Norah ha subito gli stessi identici traumi e le stesse ingiustizie subite da Magdalen e tra le due fa una scelta non meno difficile: in fin dei conti si tratta di una ragazza che dopo una vita nella bambagia accetta di tirarsi su le maniche e inizia a fare i conti con un mestiere non semplice, avendo a che fare con bambine viziate o famiglie pronte a criticare ogni suo gesto. Insomma, secondo me dedicare un po' di spazio in più a Norah avrebbe alleggerito anche quella sensazione di eccessiva lunghezza di cui parlavo prima, data forse dal fatto che alla lunga le scaramucce tra il capitano Wragge e Mrs Lecount stancano.

Quindi, in definitiva, Senza nome è un brutto romanzo? No, certo che no, sempre perché Wilkie Collins è autore abilissimo, tanto nell'uso delle parole quanto nella costruzione delle trame e nella caratterizzazione dei personaggi. Certo è che non consiglierei mai a qualcuno che vuole avvicinarsi alla sua bibliografia per la prima volta di cominciare da questo titolo: La donna in bianco è cento volte superiore in tutto, comprese le tematiche di fondo. In Senza nome, infatti, si nasconde una denuncia sociale, quella della condizione dei figli illegittimi che - come accade a Norah e Magdalen Vanstone - non avevano alcun diritto secondo la legge vigente all'epoca in Inghilterra. Come ben sappiamo, Collins era un avvocato che non esercitò mai la professione, ma fece largo uso delle competenze giuridiche acquisite all'interno dei propri romanzi. In questo senso Senza nome non fa eccezione, ma purtroppo non è riuscito a farmi capire fino in fondo la gravità del problema che intendeva denunciare, perché mi sembra di aver ricevuto al riguardo troppe poche informazioni, o di essermi distratta troppo con la vicenda delle protagoniste col risultato che anche la questione dei diritti degli illegittimi mi pare un espediente narrativo, più che un grave danno realmente vissuto all'epoca - e sicuramente non solo - da molti individui.

Il mio apprezzamento per la penna di Collins non è diminuito dopo questa esperienza poco entusiasmante. Del resto è stato un autore talmente prolifico che qualche basso nella sua produzione non fa che renderlo umano. A buon rendere, caro Wilkie!






lunedì 9 marzo 2020

Prima di tornare a noi.

E' complicato cominciare un commento ad un libro dopo tanto tempo che non lo si fa più. Gli ingranaggi della mente sono arrugginiti, hanno bisogno di essere oliati e nel momento d'impaccio e di imbarazzo mi chiedo se lasciarmi andare ad un'introduzione lunghissima, che mescola confusamente vita, scrittura e lettura - come da un lato mi verrebbe spontaneo fare - o darmi un tono più rigoroso e lanciarmi subito, nonostante la timidezza, a parlare del romanzo che ho concluso sabato sera e che, dopo molto tempo, mi ha fatto pensare che avrei potuto provare a raccontarlo in un post. 

E' vero che non mi trovo di fronte ad un pubblico in carne ed ossa, sola sopra un palco e con un microfono in mano, ed è vero anche che sono sempre meno le persone che ancora decidono di dedicare il proprio tempo a leggere attentamente blog come questo, ormai passati di moda, figuriamoci quelli la cui autrice è incostante come me; eppure, tutte le volte che manco per un po' o che faccio disordine, come se veramente questa pagina fosse la mia stanza, in cui nessun altro dovrebbe entrare, mi sento poi in dovere di spiegare cos'è successo, di spendere anche solo qualche riga per rimettere le cose a posto prima di tornare a più alti argomenti. Non sono proprio a capace a comportarmi - e scrivere - come nulla fosse, mi sembrerebbe quasi una mancanza di rispetto, forse anche verso i libri stessi prima ancora che verso i miei eventuali e preziosi lettori.

Certo non è semplice raccontare il periodo che sto attraversando, come forse avrà dedotto chi ha letto il mio post precedente. La pausa forzata dovuta al coronavirus sta avendo per me un effetto benefico, perché è come se dopo settimane e settimane di tempesta per la prima volta stesse tornando nella mia testa frastornata la calma, e con essa la lucidità e la capacità di riflettere. Venerdì mattina, ad esempio, mentre stendevo il bucato ho pensato che quest'epoca mi ha confuso. Uno di quei pensieri che una volta che li esprimi a parole o li metti su carta sembrano niente di che, ma nel momento in cui per la prima volta ti si erano accesi dentro come un'insegna al neon in una strada buia ti colpiscono con una forza che momentaneamente ti stordisce. Un pensiero fatto di cinque parole, che riassume dentro di sé una matrioska di ragionamenti che non ho neanche avuto bisogno di spiegarmi, mi son stati chiari - tutti insieme - all'istante come se ci avessi speso giorni di analisi, studio e riflessioni. Dentro c'è il fatto che sono nata all'inizio degli anni '90, che ho avuto in mano il primo game boy, la prima play station, ma prima di questo mi son dovuta inventare storie su storie per rendere interessanti le bambole e le Barbie che altrimenti stavano lì ferme senza dire e fare nulla; mi sono arrampicata sugli alberi, sbucciata le ginocchia giocando a pallavolo, mosca cieca, nascondino e tutto il resto, ho attraversato estati che diventavano tanto interminabili da non veder l'ora che a settembre ricominciasse la scuola pur di sfuggire alla noia che ormai mi esauriva. Ho letto tanto fin da bambina, perché i cartoni animati c'erano solo mezz'ora al giorno. Il primo pc comparso in casa era talmente lento che quasi scoraggiava all'uso e le attività più eccitanti che poteva offrire erano Paint e Microsoft Words: in poche parole, disegnare e scrivere. Il mio primo cellulare l'ho avuto a dodici anni circa, ma solo perché dato che ne esisteva la possibilità mia madre voleva potermi contattare quando ero fuori casa, e comunque era un cellulare che non aveva altre funzioni se non quella di telefonare e mandare/ricevere sms, nient'altro. 

Insomma, a cosa serve questo panegirico nostalgico sui bei tempi andati? A nulla, certo, se non a spiegarmi la difficoltà, la fatica e la frammentarietà che sta rendendo così difficile la vita a molti della mia generazione. Siamo svelti con la tecnologia, è vero, ma non l'abbiamo avuta in mano sin da quando ci siamo resi conto di averne un paio e questa è - secondo me - la nostra più grande ricchezza ed uno dei nostri peggiori svantaggi. Abbiamo studiato su libri fatti di carta, scritto su quaderni fatti di carta, andando in giro per tutta la nostra vita scolastica con le dita sporche di inchiostro rosso e blu. I nostri professori non si sarebbero mai sognati di darci i compiti su una chat di gruppo, e questo poneva dei limiti e delle distanze oggi sconosciute. Ancor peggio però è che, le cose che accadono oggi, appena qualche decennio fa non si immaginavano neppure.

Non esistevano i social, e non esisteva di conseguenza quella velocità, quella rapidità che oggi definisco violenta e che si è mangiata proprio tutto: la qualità di ciò che viene proposto, la durata della popolarità di cose e persone, la pazienza e la capacità della gente ormai totalmente disabituata a dedicarsi a qualcosa per più dei canonici 15 secondi o 120 caratteri; sono tanti i ragazzi della mia età o più grandi che sarebbero in totale disaccordo con quanto scrivo, essendo stati in grado al contrario di prendere il meglio da ciò che questa rivoluzione delle abitudini del mondo aveva da offrire, trovando in tutto questo proprio il mezzo più utile e più potente per sviluppare e far conoscere le proprie capacità ed i propri talenti. Ma c'è anche chi, come me, sapeva usare solamente la penna e la carta (per fare un esempio) e trovandosi catapultato in questo nuovo mondo in cui chiunque sembrava avere tutte le possibilità del caso a patto di sapersele creare e prendere, ha tentato di uscire dal proprio microcosmo, salvo poi rendersi conto di non essere capace di farsi strada in un oceano di profili e contenuti governati da leggi invisibili ed incomprensibili, dove avere effettivamente qualcosa da dire conta, ma in maniera spesso piuttosto relativa.

Allora cosa si fa, si fa un passo indietro con l'impressione che si è ormai in quattro gatti a non essere in grado di cavalcare quest'onda pazzesca, e ci si guarda demoralizzati e perplessi con una domanda stampata in faccia: ed ora che me ne faccio di tutte quelle parole che avevo ancora da riversare? Sto immaginando una spiaggia di notte, sulla riva ci sono io e poche altre persone che conosco e che mi vengono in mente - qualcun altro che ha un blog e scrive in maniera strepitosa eppure ha pochissimi lettori e commenti, così come altre persone col cervello in fiamme, che non hanno ancora avuto il proprio momento - ce ne stiamo lì, al buio, a guardare l'acqua che s'avvicina e poi si ritrae. Nessuno la dice ad alta voce, ma la risposta è inequivocabilmente quella. Niente, non ce ne facciamo assolutamente niente.

Mi rendo conto che letto con certi occhi questo può sembrare solo il vaneggiamento di una povera sciocca che voleva far delle cose ed ora passa il proprio tempo ad invidiare chi c'è riuscito. Ma non è così perché, ad esempio, verso i social non ho mai nutrito alcun interesse se non nella piccola speranza di far arrivare quel che scrivevo qui almeno un po' più in là; mi scoraggia anzi, e confesso di trovarlo anche frustrante, il fatto che oggi sia sostanzialmente quello il modo di far sentire la propria voce e che se non si possiede la dovuta dimestichezza nel loro utilizzo è ancor più difficile di quanto fosse in passato farsi avanti attraverso altre strade. Forse me lo sono immaginato, ma è come se crescendo in quel tempo così vicino eppure lontanissimo, governato da tutt'altri standard e parametri, mi fosse stata fatta una promessa che è poi stata completamente cancellata come non fosse mai esistita, ed io fossi l'unica a ricordarmene e per questo guardata come se fossi strana e un po' matta. E' da questa sensazione assurda e molto difficile da spiegare - credo - che nasce la mia ferita più complessa.

Ed è da tutto questo che mi sono ritratta, è per questo che il mio blog non ha mai avuto una continuità o una direzione univoca; perché non ho mai avuto il coraggio e la serenità di essere semplicemente me stessa, limitandomi a fare quel che da sempre è stata l'unica cosa che mi interessava fare: scrivere. In continuazione ho cercato di condire quel che ero io con ciò che vedevo in giro e che sembrava funzionare, perché se altri mossi dalle mie stesse passioni ed interessi riuscivano a farne una qualche forma di mestiere, davvero non poteva capitare anche a me? Certo che no, perché non ci ho mai creduto sul serio. Io sono un'altra cosa, decisamente fuori moda, e intuendo il pericolo del cervello in fiamme dentro una stanza chiusa ho lasciato che quest'epoca mi confondesse, peggiorando solamente le cose. Basta guardare la storia di questo blog, nato dopo averne chiusi svariati altri in preda a febbrile insoddisfazione: ci sono progetti annunciati e mai veramente avviati, rubriche che promettevano cadenze regolari sopravvissute a malapena alle prime pubblicazioni. Ero mossa sì da interessi e stimoli personali e genuini, ma anche dalla voglia, dalla speranza, dal bisogno di avvicinare altri a ciò che proponevo. Non perché in cerca di una notorietà che non mi sono mai e poi mai sognata di avere, ma solo per quella necessità di comunicare che mi ha contraddistinta fin da quando ne ho memoria, e che non si è mai manifestata in altro modo che la scrittura - questo, sicuramente unito ad anni difficili in cui la mia definizione e realizzazione come persona invece che consolidarsi non ha fatto altro che sbrindellarsi e sbiadire sempre più, portandomi a cercare in maniera quasi disperata una definizione di ciò che sono almeno tramite la parola scritta, sperando in un riconoscimento esterno, anche anonimo, che non avevo modo di cercare altrove. 

Un bel casino, insomma, di cui anno dopo anno ho cominciato a sentirmi sempre più stanca. C'è stato un momento in cui ho avuto una fase di astio totale verso l'attività del blogging, in cui ho pensato che era infine giunto il momento in cui avrei smesso definitivamente di fare questa cosa che è quasi un vizio da quando avevo solo quattordici anni. Mi sono distanziata da tutto, dal blog ed anche dai libri, con la sofferenza di sentirmi rifiutata dal mio stesso mondo senza neanche sapermi spiegare sino in fondo perché. Mi sono rifugiata nella carta, un posto molto più semplice dove non c'è motivo di nutrire inconsce ambizioni, dove non era necessario modificarsi, limitarsi o nascondersi. E piano piano, forse mi sono fatta strada attraverso tutte le sovrastrutture ed i filtri che la confusione, l'ansia, la voglia di fare unita al rammarico di non riuscire mi avevano portato a mettere tra me e tutto il resto, comprese le parole. 

Talmente mi sono sentita oppressa dalla sovraesposizione che ho fatto l'esatto opposto, ritraendomi più di quanto avessi mai fatto prima e custodendo gelosamente quello che continuo a chiamare "il mio mondo". Leggevo, sì, ho letto molte cose belle, alcune importantissime, di cui non solo non ho scritto qui né da nessun altra parte, ma di cui non ho neanche parlato con nessuno. Non ho annoiato il mio ragazzo riassumendogli le trame o analizzando ad alta voce i comportamenti dei personaggi, non ho mandato messaggi vocali da quindici minuti ad una cara amica che puntualmente mi accusa gioiosamente di scombinarle i piani di lettura né ho avuto molta voglia di sapere cosa gli altri stessero leggendo in quel momento. In una maniera ferocemente istintiva, alla quale neppur volendo avrei saputo ribellarmi, mi sono costruita attorno una fortezza con la sensazione che non avrei più trovato la voglia o il bisogno di uscirne. Ed effettivamente, non sono né la voglia né il bisogno i motivi per cui sto rimettendo fuori il naso.

Ho capito che la fortezza mi serviva per ritrovare il più intimo piacere della lettura, quello che mi muoveva da ragazzina e che negli ultimi anni era stato intaccato, sporcato da troppe influenze spesso contraddittorie che non c'entravano niente. E l'ho capito nel momento in cui per motivi di dovere mi sono avventurata più fuori che mai dalla mia comfort zone e più la nuova routine cominciava a schiacciarmi, più forte si faceva dentro di me la voce che diceva che soltanto i libri e le parole potevano salvarmi. Così, sulla carta, ho scritto a volte dei libri belli che leggevo.

Sono giorni ormai che mi risuona nella testa Franco Mari, che in Storia del nuovo cognome dice a Lenù: "Tu devi studiare sempre, Elena", intendendo che qualunque cosa le passi tra le mani - un articolo di giornale, un romanzo, un saggio - lei non deve limitarsi a leggere ma lo deve studiare. Mi risuona nella testa perché è in fondo quello che ho sempre preteso da me stessa e che, ad un certo punto, mi son chiesta: ma a che cosa serve? Nei momenti di stanchezza e di sfiducia è stato inevitabile chiederselo, perché studiare è faticoso, richiede impegno, e perché impegnarmi tanto nella lettura che dovrebbe essere un semplice passatempo, verso cosa sto tendendo con tutto questo impegno, a cosa serve. Credo sia lecito chiederselo, e credo che si esca molto più integri e padroni di sé da questo conflitto quando si è in grado di rispondersi: a nulla. Perché è vero, non c'è un obiettivo pratico o utile da raggiungere, nessuno mi darà alcun riconoscimento per la mia conoscenza della letteratura inglese, non riceverò applausi né medaglie per le annotazioni a margine dei miei libri e per le pagine fitte di intuizioni e riflessioni che riempiono i miei quaderni. Non serve a niente, se non per il puro e semplice bisogno e piacere di farlo. In tutto questo tempo, quando ho letto ho letto e basta, senza impegnarmi oltre, senza analizzare a fondo, senza ricercare e scandagliare. E' servito a rilassarmi, certo, ma è come se nel frattempo stessi al mondo senza percepirmi. Gli altri mi vedono, io non mi sento messa a fuoco, e ogni giorno è uguale all'altro senza lasciarmi addosso alcun segno. Sabato, mentre terminavo il romanzo che stavo leggendo, dopo moltissimo tempo avevo di nuovo in mano una matita - è una sciocchezza, ma è sintomo di una differenza notevole.

Tra i motivi che mi rendono fuori moda c'è che, se mi lascio andare, scrivo troppo come avrà notato chiunque abbia deciso di continuare a leggere questo post, e questa era una delle cose che ho sempre provato a limitare e contenere. Forse è solo il benessere dato da questi giorni di riposo, forse è la bellezza di queste prime giornate primaverili, ho sempre molta paura a lasciarmi andare a sensazioni che paiono troppo rosee e positive. Non faccio promesse, né a voi né a me stessa; diciamo solo che sarebbe molto bello se dopo tutto questo marasma di idee e sentimenti io stessi davvero trovando il tiro giusto almeno per questo spazio, almeno per creare un ponte un po' più solido e bello da attraversare tra il mio mondo e chi ha voglia di farci dentro un salto. Sarebbe davvero bello se fossi riuscita a riappropriarmi di quel piacere intimo e sincero per la lettura, se fossi in grado di studiare i miei libri senza tormentarmi, se la mia testa ricominciasse ad andare in fiamme ed imparassi finalmente a giocare col fuoco piuttosto che a lasciarmi bruciare.
Ho la sensazione, almeno oggi, che se tutto questo fosse possibile la mia voce scritta sarebbe diversa - lo stesso timbro, ma più calma, più piacevole da ascoltare.

La prossima volta vi parlo del libro finito di leggere sabato sera.


Julia

Anna Karénina, Lev Tolstòj

Anna Karénina , Lev Tolstòj, Russia 1875-77 – ma anche qualsiasi altro luogo e tempo dacché esistono l’uomo e la donna. Il commento al rom...