Bene, detto ciò, passiamo all'argomento del giorno. Questo mese ho finalmente deciso di combattere la pigrizia e di leggere un libro in inglese, cosa che mi riproponevo da moltissimo tempo e che non trovavo mai l'audacia e la forza di volontà di fare. L'allenamento con l'inglese si mantiene grazie alla valanga di serie tv guardate quasi tutte in lingua originale, ma la lettura è chiaramente un'altra cosa; e visto che ho portato a termine questo primo libro in poco tempo - per quanto semplice ed elementare il linguaggio - al momento mi sento tanto entusiasta e gasata da pensare di voler provare a leggere un libro in inglese al mese. (Che poi, ammettiamolo, è solo una scusa bella e buona per accaparrarmi libri che mai comprerei in italiano, ma che per motivi più o meno validi mi fanno gola).
Veniamo però alla lettura in inglese di Settembre. Looking for Alaska, John Green, l'amatissimo padre di The fault in our stars (Colpa delle stelle), che lessi sempre in lingua originale parecchi anni fa, uscendone molto contenta e soddisfatta. Al di là della storia d'amore e di malattia, che riuscirebbero ad estorcere una lacrima anche al cuore più arido dell'universo, quel libro mi era piaciuto molto per i suoi protagonisti, Hazel Grace ed Augustus, due adolescenti normali, educati, intelligenti, rispettosi, che non avevano bisogno di bere fumare drogarsi per sentirsi chissà che. Due ragazzi che per conoscersi meglio si scambiavano i loro libri preferiti, e che affrontavano anche i loro problemi - certo non semplicissimi - senza piangersi addosso. Ero contenta se gli adolescenti leggevano Colpa delle stelle, perché Hazel Grace ed Augustus mi sembravano un ottimo esempio. E John Green, lungi dall'essere un autore eccelso, scrive tuttavia meglio di tantissimi altri autori/autrici in voga tra i più giovani. Quindi: promosso! Ed ecco perché poco tempo dopo, di passaggio in un aeroporto, colsi al volo l'occasione per procurarmi un altro suo romanzo in lingua originale, Looking for Alaska per l'appunto, rimasto a prender polvere sugli scaffali fino ad ora.
E quanto mi dispiace dirlo, ma qui tutto ciò che mi era piaciuto in Colpa delle stelle è venuto meno, e mi sono ritrovata a leggere un libro veramente pessimo. A dir la verità, più che un romanzo brutto mi è sembrato un romanzo noiosissimo, che non aveva proprio niente da dire, con sparsi qua e là degli elementi che - da vecchia signora brontolona - mi hanno fatto storcere il naso.
Protagonista e voce narrante è Miles Halter, un liceale che stufo della sua vita monotona in cui non ha mai avuto uno straccio di amico, decide di dare una scossa alla propria esistenza trasferendosi nel campus dove da ragazzo ha studiato il padre, il Culver Creek, un luogo che sembra promettere la possibilità di ricominciare da zero e di sperimentare tutte le esperienze che un'adolescenza degna di questo nome dovrebbe provvedere. Le aspettative di Miles non vengono deluse, perché ha la fortuna di capitare in stanza con Chip Martin, soprannominato The Colonel, il quale lo introduce quasi subito nella sua cerchia di amici: Takumi, Lara e soprattutto Alaska.
Chi è questa fantomatica Alaska? Beh, è una ragazza di cui Miles si innamora praticamente all'istante, perché è molto bella ed ha un modo di fare e di parlare che, abbinato al suo aspetto esteriore, non potrebbe lasciar indifferente nessun diciassettenne. Alaska dovrebbe essere anche particolarmente brillante, dovrebbe essere una ragazza-enigma, una persona così affascinante e misteriosa, un po' volubile e lunatica ma carismatica come poche. Dai miei dovrebbe avrete forse già capito che a parer mio la costruzione di questo personaggio non è riuscita. Sin dal primo momento Alaska mi è sembrata insignificante, ed ho il sospetto che la mia età non c'entri: ho tanto la sensazione che anche se avessi letto questo romanzo da adolescente, quel che avrei voluto fare sarebbe stato prendere Alaska per le spalle, guardarla dritto negli occhi e dirle di rilassarsi. Lei dovrebbe essere il cuore del romanzo, ma a lettura conclusa è il personaggio che mi è rimasto meno impresso di tutti.
Per farvi capire, Alaska è una che dice cose come: "Tutti voi fumate per godervelo. Io fumo per morire." Okay, cì.
La cosa che mi ha dato più fastidio poi, è che se in Colpa delle stelle avevo apprezzato la normalità dei ragazzi, che non hanno bisogno di fare i trasgry per sentirsi a posto nel mondo, qui proprio questo elemento viene meno e la combriccola di Looking for Alaska non riesce a stare un giorno senza bere fino al coma etilico e fumare quintali di sigarette. Ma perché, mi chiedo io? E non lo dico perché sono una bacchettona, non avrei avuto nulla in contrario se ad esempio il gruppetto si fosse radunato per condividere una bottiglia alla fine della settimana, ma questi bevono e fumano come respirano, praticamente. E poi ci sono un sacco di eventi di dubbio interesse, tipo programmare ed organizzare scherzoni che, dopo lo studio, è l'attività principale del campus.
Il libro è diviso in un prima ed un dopo. Nel mezzo c'è uno di quegli episodi che spaccano la vita in due, in un prima ed un dopo, per l'appunto. Ecco, il "dopo" è stato molto meno interessante del "prima", e mi è sembrato come se non andasse a parare da nessuna parte.
Ora che ho massacrato abbastanza questo romanzo, posso permettermi di sottolineare anche le cose carine o simpatiche. Di sicuro Chip o Colonel che dir si voglia è il personaggio migliore. Sembra uno dei "fighi" in confronto a Miles (tant'è che al primo incontro anche lui dubitava di poter diventare suo amico), ma in realtà non lo è; è tenerissimo il suo rapporto con sua madre, rimasta sola dopo aver reagito ad un marito violento, e che ha continuato a crescerlo con le sue forze vivendo in un camper. Il più grande sogno di Chip infatti è quello di comprarle un giorno una casa grande e di lusso, e probabilmente ci riuscirà perché è una specie di genio della matematica. Anche l'amico Takumi, per quanto sia marginale, è riuscito a conquistarsi la mia simpatia. Il tratto distintivo di Miles invece è la sua passione per le "ultime parole" della gente più o meno famosa, motivo per cui è un avido lettore di biografie. Infine, momenti un po' più alti del libro (anche come scrittura), sono le lezioni di religione, tenute da un professore che sin dal primo giorno conquista il protagonista col suo modo di parlare e di infondere spirito critico ed analitico negli studenti. Un docente molto anziano, molto severo, ma di quelli che insegnano veramente qualcosa di duraturo.
Insomma, sono soddisfatta di aver ripreso a leggere in inglese, nonostante il libro si sia rivelato appena mediocre. Se volete approcciarvi alla lettura in lingua originale, i libri di John Green possono sicuramente essere un punto di partenza, perché ha un linguaggio molto semplice ed accessibile. Il mio consiglio è assolutamente quello di partire però da Colpa delle stelle, che è scritto molto meglio e racconta una storia ben più emozionante e coinvolgente. Looking for Alaska è adatto giusto se cercate una lettura leggera e di evasione dalla quale non vi aspettate nulla di più.
Sarei comunque curiosa di sapere se sono soltanto io ad essere stata così acida nei confronti di questo libro, o se qualcun altro è d'accordo. Fatemi sapere nei commenti!