mercoledì 6 marzo 2019

La famiglia Aubrey, Rebecca West - ed una divagazione sulla lentezza

Rebecca West è una delle - purtroppo tante - penne femminili che almeno in Italia era finita nel dimenticatoio, o quasi. Qualche sua opera in realtà era ancora reperibile, edita da case editrici minori, di quelle conosciute solamente dai lettori più scrupolosi; ma se vi dicessi che nel 1947 fu definita dal Time la scrittrice "indiscutibilmente numero uno al mondo", ciò basterebbe a farvi rendere conto di che grave peccato fosse lasciarla nell'ombra?



Rebecca West, di origini miste scozzesi ed irlandesi, nacque a Londra nel 1892. Ad oggi si potrebbe forse sostenere che l'autrice ha pagato lo scotto di essere una contemporanea di Virginia Woolf, ma la West fu una delle intellettuali più brillanti e prolifiche dell'epoca, che mise la sua scrittura al servizio del suo tempo. La cosa che più spesso potrebbe capitarvi di sentir dire, su di lei, è che era una fervente femminista, anche se Rebecca West la pensava così:


Io stessa non sono mai riuscita a capire che cosa significhi con precisione femminismo. So soltanto che mi definiscono femminista tutte le volte che esprimo sentimenti che mi differenziano da uno zerbino o da una prostituta.

Probabilmente l'etichetta di fervente femminista le è rimasta addosso da quando a vent'anni era una suffragetta e si scelse quel nome con cui ancora oggi è ricordata. Rebecca West è infatti uno pseudonimo, ed è esso stesso una precisa dichiarazione d'intenti. Il vero nome della scrittrice britannica era Cicely Isabel Fairfield, mentre quello con cui ha firmato qualsiasi cosa abbia scritto, Rebecca West, è un omaggio all'eroina (o forse anti-eroina) protagonista di Rosmersholm, opera teatrale del 1886 del celebre drammaturgo danese, Henrik Ibsen, passato alla storia forse soprattutto per i suoi magistrali ritratti femminili. Le donne del suo teatro, talvolta vincenti talvolta catastroficamente perdenti, erano comunque donne forti, dalle personalità complesse e profonde, sicuramente anticonvenzionali e spesso scandalose per l'epoca in cui si muovevano (basti pensare al più celebre dei suoi drammi, Casa di bambola, che racconta la storia di una donna che ad un certo punto della sua vita abbandona il marito e la casa coniugale, dando la priorità alla ricerca di sé - un fatto inconcepibile, per la società ottocentesca).

La West fu più una giornalista che una romanziera, firmò articoli per il Times, il New York Herald Tribune, il Sunday Telegraph ed altre importanti testate, occupandosi di critica letteraria e di attualità. Viene ricordata anche per i suoi diari di viaggio, come Black Lamb and Grey Falcon (1941), considerata dalla critica la sua opera più significativa: composta da più parti, l'autrice fa un ritratto completo ed esaustivo della storia e della cultura della Jugoslavia, da lei visitata per la prima volta nel 1934. Lo scrittore britannico Geoff Dyer ne ha recentemente parlato in un articolo sul Guardian, scrivendo che si tratta di "un capolavoro supremo che parla di due cose: la Jugoslavia e tutto il resto".

Ma il suo raggio d'azione non si ferma qui, visto che una voce forte e coraggiosa come la sua non poteva certo restare muta davanti ad un evento della portata della Seconda Guerra Mondiale. E' del 1955 A Train of Powder, un reportage sui Processi di Norimberga ai quali assistette personalmente e pubblicato originariamente sul New Yorker, a cui seguirono più tardi altri testi nei quali l'autrice studia il fenomeno della Seconda Guerra Mondiale nel suo insieme, accompagnandolo con le sue riflessioni e le sue conoscenze dirette della storia.

Davanti ad una produzione così vasta e variegata, spesso incentrata su temi caldi, complessi, ancora sanguinanti nel momento in cui lei ci metteva dentro le mani, la sua produzione narrativa sembra quasi una pausa, una sosta dalla realtà cruda e complicata, anche se ciò non deve cadere - erroneamente - sotto l'etichetta di pura finzione o di evasione letteraria: al contrario, Rebecca West attinge dalla realtà anche quando inventa, perché pare che la sua saga familiare incentrata sugli Aubrey sia di matrice autobiografica, fortemente ispirata alla propria famiglia povera e molto colta.

La famiglia Aubrey (il cui titolo originale, ben più poetico, è The Fountain Overflows) è il primo volume di una trilogia a cui Rebecca West lavorò per trent'anni, e l'unico che venne pubblicato mentre lei era ancora in vita. Il titolo originale dice già ciò che di utile si potrebbe dire sul contenuto: è un flusso, un flusso abbondante e denso, che non attraversa deciso il lettore come acqua, ma gli cade dentro piuttosto come farebbe il miele da un cucchiaino nella tazza di tè. In maniera fluida, sì, ma lenta e corposa. Si parla degli Aubrey infilandoli nella dicitura "saga familiare" perché abbiamo sempre bisogno di etichette, di definizioni che ci facciano capire subito, almeno in linea di massima, di che cosa si sta parlando e cosa ci possiamo o dobbiamo aspettare; del resto, La famiglia Aubrey parla effettivamente di una famiglia - quattro figli, due genitori, una domestica - tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, in un'Inghilterra diversa da quella di tutti gli altri scrittori dell'epoca. Un po' come dice Dyer, però, La famiglia Aubrey parla di questo "e di tutto il resto" ed è molto complicato pensare di descrivere quel tutto il resto a chi non si è mai confrontato con la prosa dell'autrice.

C'è un padre che viene dipinto come geniale, brillante, irresponsabile e sfuggente; una madre che era quasi stata una pianista famosa, che viene da una famiglia che ha la musica nel sangue, che lei ha trasmesso ai suoi figli - tutti tranne una. Una madre pianista ed insegnante di musica tra le mura domestiche, dall'aspetto trasandato ai limiti del presentabile perché corrosa dalla loro situazione economica ai limiti della povertà, una madre con le guance smunte e i vestiti rotti, ma con un modo tutto suo di essere premurosa e sempre presente, e che trova sempre una risposta intelligente anche alle domande più difficili. Una domestica gentile che più che altro è un rifugio, nella cucina piccola dove il riscaldamento è sempre acceso e dove nei momenti più pericolosi si può trovare un compito, una faccenda da sbrigare, che tenga occupata la mente e tranquillizzi il cuore. E poi ci sono loro: Mary e Rose, sempre insieme, in sintonia quasi fossero una persona sola, se non fosse per i guizzi di rabbia di Rose o le parentesi solitarie e silenziose tipiche di Mary. E' Rose la voce narrante della storia, è lei che ci racconta della loro dedizione allo studio del pianoforte, con l'unica certezza che un giorno sarebbero diventate musiciste ricche e famose, dando il futuro che merita al piccolo di casa, l'effervescente Richard Quin, e sistemando le esistenze di tutti gli altri membri familiari; la stessa cosa pensa la sorella maggiore Cordelia, tenacemente aggrappata al suo violino nonostante abbiano tentato di farle capire che non possiede alcun talento. Cordelia, che forse non sa suonare ma è l'unica ad essere bellissima, che è profondamente sola: lontana dalla madre, con cui non può avere quel legame fatto di suoni perfetti; lontana dal padre che non è vicino a nessuno; lontana da Mary e da Rose, esclusa dal loro legame di sorellanza e di amicizia sia per età che per carattere; lontana da Richard Quin, che ritrova se stesso nei giochi pieni d'immaginazione di Mary e di Rose; ed infine, anche lontana dalla cugina Rosamund, ma soltanto fino al momento in cui almeno lei riuscirà ad arrivarle finalmente vicino abbastanza.

La famiglia Aubrey descrive un'Inghilterra diversa da quella che sono abituata a vedere nei romanzi della letteratura inglese; siamo lontanissimi dalle brughiere, dalle case grandi che si riempiono di personale e di invitati, dai salotti in cui si allietano le serate con i balli, la musica o la semplice conversazione; non siamo neanche immersi fino al collo nella città, tanto da sentire il rumore degli zoccoli dei cavalli, la polvere sulla pelle e il caos del fermento di Londra alla maniera di Dickens. Gli Aubrey non frequentano nessuno, tanto per dirne una, sono profondamente isolati ma non esprimono affatto un senso di solitudine o emarginazione: sembrano al contrario bastare a se stessi, tanto che questo dettaglio non viene sfiorato che da qualche preoccupazione sui ragazzi, che forse dovrebbero essere più inseriti in società (soprattutto le ragazze, ovviamente, come troveranno un marito?) o da quei commenti razionali delle ragazze sul fatto che a scuola nessuno le avvicina. A parte Cordelia, certo, lei è diversa, non appartiene veramente a quella famiglia, e riesce sempre a piacere molto agli insegnanti e persino talvolta a farsi qualche amica. 
E così come Rebecca West ci racconta dei luoghi diversi - fisicamente marginali, fatti di singole strade abitate, di abitazioni con giardino i cui paletti limitano l'esistenza di chi vi abita, di piccole botteghe dentro cui contare gli spiccioli, e talvolta un treno, una Chiesa a Natale, persino un'automobile una volta - la sua penna ci racconta anche personaggi estremamente diversi, dei veri e propri outsider, che vivono e pensano e crescono con regole tutte loro, che col tempo si fanno proprie anche del lettore. Infatti è come se anch'io avessi partecipato alla tradizione settimanale del lavaggio dei capelli, seduta poi con loro davanti al camino acceso per farli asciugare, ed intanto arrostire le castagne da mettere in bocca ancora bollenti ed insieme bere latte fresco. Sembra anche a me di aver giocato con gli animali immaginari nei lunghi pomeriggi - i cavalli nelle stalle vuote, i cani addormentati in salotto e poi quella lepre simpatica e saggia. Ancor di più, ho sentito di essere presente in ogni singolo momento ad alta tensione, quelli in cui ora un personaggio ora l'altro non ne può più degli ordini familiari prestabiliti e deve, a modo suo, far qualcosa per distruggerli. Il personaggio di Cordelia, in particolare, mi ha attratta e incuriosita fin dall'inizio, proprio per quel suo essere qualcosa di diverso all'interno di un nucleo così compatto: fin dai primi capitoli mi son fatta l'idea che se fosse stata lei, la voce narrante, avrei avuto tra le mani una storia molto diversa, gli stessi fatti ma condensati in un gusto di tutt'altro tipo - malinconia, frustrazione, solitudine, rabbia. Cordelia ed i suoi tratti egocentrici, Cordelia grandi occhi e boccoli ramati, Cordelia troppo grande per essere bambina e troppo bambina per essere grande, che pure con i grandi condivide obiettivi pragmatici piuttosto che sogni appassionati.

 La storia mi ha affascinata sin dalla prima riga, ed andando avanti mi ha coinvolta sempre di più fino ad un finale che, dopo un vorticoso climax ascendente, mi ha mollata con un violento schiaffo emotivo in piena faccia; ma è la scrittura della West, soprattutto, ad avermi avvolta tutta, come un morbidissimo plaid dal quale, in un freddo pomeriggio invernale, non vorresti più uscire. Il commento dei lettori che ho visto più spesso accompagnare questo romanzo è "lento", ed è un aggettivo che negli ultimi tempi sento usare sempre più spesso. Lenti molti libri fotografati su Instagram, quando parlo con gli amici e chiedo allora, com'è questa serie tv? "Eh, è lenta..." e non capisco mai cos'è che effettivamente le persone vogliono dire, quando commentano qualcosa esaurendo un opinione nell'aggettivo lento. Ogni volta ho l'impressione che in quei momenti il concetto di lentezza riassuma in sé diverse sfumature, ma tutte con un'accezione tendenzialmente negativa, come un modo più gentile o più nobile per dire in realtà noioso. Mi sto facendo l'idea che, anche tra i lettori - persone che proprio in virtù di questa passione in teoria ricercano bolle di tempo in cui la vita non bussa incessantemente alla porta, e ci si può lasciar galleggiare senza fretta sulla carta - si stia diffondendo, come edera urticante, il virus dell'impazienza. Nessuna epoca è andata di fretta come la nostra, e non in un senso positivo: è come se l'obiettivo generale fosse vedere vedere fare vedere il maggior numero di cose possibili nel minor lasso di tempo possibile. E qualsiasi cosa imponga invece un tempo diverso, un ritmo che non può essere riassunto né tradito, viene percepito come troppo lento. Forse però non sono certe cose ad essere lente, ma noi che andiamo sempre troppo di fretta.

La scrittura di Rebecca West è stata, a ragione, paragonata da Alessandro Baricco allo scorrere di un fiume. Un fluire continuo, sostenuto, al quale all'inizio bisogna adeguarsi, ma una volta che ci si entra ci si lascia trasportare magnificamente. Dopo averlo letto ho anche capito come mai lo scrittore torinese avesse affermato che se avesse dovuto scegliere un libro da portarsi su un'isola deserta, quel libro sarebbe stato La famiglia Aubrey: io non rileggo mai i libri già letti, eppure ho la sensazione che se ricominciassi oggi questo romanzo, che pure ho affrontato solo il mese scorso, mi troverei davanti una storia completamente nuova, quasi mai sentita prima. C'è dentro una forza, una corposità, una stratificazione di elementi e così tanta violenta bellezza che fanno de La famiglia Aubrey un libro che non potrà mai esaurirsi, che continuerà a rinnovarsi attingendo alla sua stessa forza. Ci sono dei momenti - ne ricordo nello specifico un paio - in cui la scrittura smette di esser fatta di parole e si fa pittura, dipingendo ritratti brillanti e immagini nitide, dai quali ci si riprende poi come appena svegliati da un sogno ad occhi aperti.

Insomma, io non posso concludere dicendo altro se non che La famiglia Aubrey è un capolavoro supremo che parla di due cose: di una famiglia inglese, e di tutto il resto.

domenica 3 marzo 2019

Wildflowers

Like wildflowers
you must allow yourself
to grow
E' una domenica di sole, fuori fa quasi caldo, tra le mura di casa invece è ancora inverno pieno. Dopo pranzo, dopo il caffè, avrei voluto prendere la monografia su Frida Kahlo che sto leggendo e sedermi sul balcone, quello più esposto alla luce e di conseguenza il più caldo di tutti. Penso che sarei stata bene, che mi sarei goduta il momento e che avrei letto un bel po'; ma non ho potuto, perché oggi non si scappa, oggi qualcosa di sensato lo devo scrivere. E' la terza o forse anche la quarta volta che ricomincio da zero. Arrivo a metà pagina e cancello tutto, insoddisfatta e frustrata come ho iniziato a sentirmi da ieri sera. Sono andata alla presentazione di un libro, ieri. Un libro che non conoscevo, scritto da un autore che non conoscevo, e ci sono andata quasi per inerzia. La verità è che ormai ho imparato a porre una distanza di sicurezza tra me e questo genere di cose, perché quelle rare volte in cui partecipo ad un incontro con autori o autrici, o in cui si parla di temi caldi come letteratura e scrittura, finisco sempre col sentirmi come se stessi ricevendo in una volta soltanto troppi stimoli tutti insieme, e mi si riempie il corpo di un disgustoso senso di amarezza perché sento che quelli sono i luoghi che dovrei frequentare sempre, che dovrei esserci immersa dentro e che avrei dovuto in qualche modo guadagnarmi il diritto di dialogare con quella categoria di persone, perché soltanto chi già fa quel che sentiamo di voler fare anche noi può guidarci attraverso i tortuosi sentieri del divenire. Ma in realtà sono soltanto una tra tanti, ieri ero una ragazza con la coda spettinata che - come sempre in ritardo - si era buttata addosso i jeans ed il maglione di fiducia, con giusto un tocco di mascara sulle ciglia e una passata di rossetto scuro a darle un tono, seduta in seconda fila su una seggiola di plastica e due occhi come due bracieri ardenti fissati con insistenza sull'autore - un uomo alto, dall'aspetto ordinato e con uno sguardo ed un sorriso davvero gentili - come se volessi carpire anche ciò che non diceva, i sottintesi ed i sotto testi della parabola corrosiva che era stata portare alla luce quel romanzo, esposto come un dipinto su piccola tela sul tavolino di fronte a lui, accanto a due bottigliette di acqua Clivia che non c'è stato bisogno di aprire. E' arrivato il consueto momento, per i presenti che ne avevano, di porre delle domande. Io non ne avevo, non ho mai delle domande, ho dei punti di vista, ho un miliardo di cose che vorrei dire per portare avanti un dialogo di cui ho disperato bisogno, ma come farlo davanti ad un gruppo di sconosciuti? Come avere la faccia tosta di parlare delle ferite inferte dalla scrittura ad uno che scrittore lo è veramente, col suo nome che figura nel catalogo Einaudi? Così, come tutte le altre volte, il mio miliardo e mezzo di cose da dire è rimasto nella testa, mi sono alzata e sono rimasta ad aspettare che una signora esponesse i suoi entusiasmi e si facesse firmare la copia del libro, e quando l'uomo alto dagli occhi gentili ha spostato la sua attenzione su di me gli ho detto: volevo soltanto ringraziarla, è stato bellissimo ascoltarla con la voce incerta, le gambe tremanti, una stretta di mano fugace - perché parlare con gli estranei non è mai stato il mio forte, anzi, faccio una fatica bestiale, tanto più quando è stato bellissimo ascoltarla era una stupidaggine qualunque, un contentino per me stessa, per sapere di non essermene andata senza aver lasciato proprio niente di niente. Lui mi ha risposto grazie con quel sorriso gentile, con i modi di chi dedica piena attenzione a chi ha di fronte, anche se io ero troppo agitata per riceverla o anche solo per incrociare davvero il suo sguardo adesso che non c'era più una fila di sedie e di persone a porre una distanza di sicurezza. Quasi non ricordo la nostra stretta di mano, la mia amica ansia mi fa temere sempre un sacco di cose, come rubare troppo tempo, essere invadente, inopportuna, di troppo; c'era qualcun altro dietro di me, e pensavo che dovevo lasciar spazio al prossimo, così non appena ho pronunciato quella frasetta sciocca che mi ero preparata sono scappata via. Fuori era buio, faceva freddo, e non era stato bellissimo ascoltarlo: era stato interessante, stimolante ma anche incredibilmente difficile, per me. Non appena mi sono incamminata al fianco dell'amica con cui ero entrata nella libreria ho capito che, nonostante avessi cercato di impedirlo, mentre l'autore parlava - del suo romanzo, della sua vita, della scrittura - dentro mi si erano smosse delle cose.

Siamo andate a fare un aperitivo, sorseggiando un drink parlavamo un po' di quanto avevamo ascoltato un po' dei soliti argomenti di tutti i giorni, ed intanto cresceva in me l'impazienza. All'improvviso non mi importava di trovarmi lì, di mangiare o di bere, di cenare fuori come il mio compagno mi aveva proposto, di chiacchierare del più e del mondo. Avevo cose ben più grandi nella testa, circondate dalla paura di perderle perché la memoria avrebbe potuto tradirmi, o perché quella era come una febbre che presto mi sarebbe passata. Impazienza, trascinata da un pub ad un ristorante, mischiata ad un lacerante senso di frustrazione, e poi prendere freddo sotto la luna - intorno le macchine, i gruppi di ragazzi e di ragazze che passano a voce alta - mentre si affidano ad un messaggio vocale su whatsapp tutti quei pensieri disordinati, destinandoli all'unica persona che conosco a cui, anche di sabato sera, potrebbero interessare discorsi sbronzi sulla depressione, sul male che fa scrivere e sul perché lo si faccia lo stesso.

And that's where I stand
Silent in the trees
Why won't you speak
Where I happen to be?
Silent in the trees
Standing cowardly
Tra le tante questioni su cui continuerò a riflettere nei prossimi giorni, una su tutte mi ha punto sul vivo: l'autore - di cui rivelerò il nome e di cui vi parlerò quando avrò letto il libro di cui si è parlato ieri - ad un certo punto ha detto che quando si scrive bisogna avere il coraggio di essere onesti e sinceri fino in fondo, che bisogna cercare di far venire a galla la verità, e che se lo scrittore si scontra invece col proprio pudore (nella maggior parte dei casi, per paura di fare i conti con se stesso) il lettore finirà inevitabilmente con l'accorgersene. 
Da qualche tempo ho ripreso in mano una cosa che avevo scritto qualche anno fa, l'unica che io sia mai riuscita a terminare. Ho cominciato a farne una seconda stesura e, fidatevi, quella sì che è una storia che mi porta a fare i conti con me stessa, che mi mette faccia a faccia con questioni che avevo rinchiuso in uno sgabuzzino e che non avevo più avuto il coraggio di tirar fuori. Ma, vedete, io mi vergogno persino a scrivere che sto scrivendo, mi vergogno a dirlo ad alta voce, faccio fatica a ritagliarmi il mio tempo per farlo perché mi alita sul collo la sensazione di star sprecando del tempo, che anche fare le faccende domestiche sarebbe più utile. Ho paura di sembrare soltanto una delle tante che, sapendo mettere insieme qualche frase leggibile, pensa di essere una grande scrittrice. Più di tutto, ho paura che nonostante le idee, nonostante ventisette anni di guerra e di armistizi con la parola scritta, ho paura che persino questo finirà col rivelarsi del tutto inutile. Lo scrittore, ieri, ha detto anche che scrivere è un'ossessione e che se gli proponessero una pillola che fa passare l'ossessione di scrivere lui la prenderebbe subito, sicuro che starebbe molto meglio. Io penso la stessa cosa. Ricorre spessissimo nei miei diari, ma persino su queste pagine, la metafora dello scrivere come un infierire su ferite già aperte. Ma questi discorsi sono credibili soltanto in bocca a chi ha già fatto del proprio dolore e delle proprie lotte un mestiere. E' credibile Lady Gaga che racconta di come scrivere una canzone sia un'esperienza invasiva, è credibile Virginia Woolf con le sue crisi periodiche, è credibile lo scrittore che ieri raccontava di come la scrittura lo prendesse violentemente a schiaffi davanti a quegli schiaffi elegantemente rilegati in un libro vero. Se lo dico io, sono solo una che si dà delle arie da artistoide, o una che deve sempre esagerare i toni. Mi mordo la lingua, mi mordo le labbra, il sangue mi ribolle nelle vene insieme al mio milione e mezzo di cose da dire.

Quel coraggio necessario a scrivere qualcosa di credibile un tempo ce l'avevo, ed era per quello che scrivere era così doloroso. Quando avevo vent'anni stavo molto male, e una notte scrissi un racconto che parlava di suicidio. Ho sempre pensato che fosse stata un'esperienza catartica, e che attraverso il suicidio di Cassie - una ragazza dai capelli lunghi e piena di anelli alle dita, che non riusciva a tenersi nessun lavoro ed aveva soltanto un'amica, che aveva una voce roca e conosceva molte poesie a memoria - avessi esorcizzato i demoni che mi seguivano in quel periodo. Ricordo che mi sentii malissimo, e poi semplicemente vuota. Oltre al coraggio avevo anche una faccia tosta che adesso mi sogno, perché presi quel racconto e lo feci leggere alla docente universitaria di letteratura moderna e contemporanea il cui corso mi aveva appassionata tantissimo, e lei mi disse che era molto buono, grezzo ma interessante. Quando lo lesse la mia migliore amica non disse niente, anche se le si inumidirono gli occhi. Il mio fidanzato disse che era preoccupato per me. 

Non ero io a decidere quando e cosa scrivere. Capitava di sentirmi turbata, e questo turbamento diventava malessere, ed il malessere cresceva fino a sentirmi oppressa: soltanto allora provavo a scrivere, e mi rendo conto che era come tuffarsi in un pozzo, scendendo più in fondo frase dopo frase e che il fondo non sempre riuscivo a toccarlo. Se non ci riuscivo, quel che scrivevo mi sembrava insulso, stupido e lo cancellavo o lo lasciavo lì senza prestargli mai più attenzione. Questo tuffo però aveva un prezzo, che ad un certo punto non ho più avuto la forza di pagare. Non era facile - anzi, era impossibile - essere una figlia, una sorella, una fidanzata, un'amica e al contempo andare in cerca delle ombre necessarie a scrivere. E siccome non sono mai stata capace di credere fino in fondo che la mia scrittura fosse qualcosa di importante, tra le due cose ho sacrificato quest'ultima. Durante il periodo in cui sono stata in psicoterapia, la mia psicoterapeuta mi diceva che avrei dovuto imparare ad entrare ed uscire dal pozzo - per continuare con questa banale metafora - quando e come decidevo io, senza portarmi le conseguenze nella mia vita. Sicuramente ero troppo giovane per acquisire questa capacità, che credo si basi su un equilibrio personale che ho iniziato ad intravedere solo negli ultimi anni. Non sono pronta nemmeno adesso, lo dimostra la nuova ferita che si è aperta ieri sera, lo dimostra questo post, lo dimostrano quel paio di lacrime che mi sono scese scrivendolo. L'unica cosa che mi preme sapere, e che al tempo stesso mi spaventa, è se sarò ancora capace di raggiungere veramente il fondo e se laggiù ci saranno ancora quelle fiamme, quelle ombre, quegli organi esposti che ora più che mai dovrei portarmi via. 

Carver una volta disse: e come faccio a spiegare a mia moglie che anche quando sto guardando fuori dalla finestra, in realtà sto lavorando?

Anna Karénina, Lev Tolstòj

Anna Karénina , Lev Tolstòj, Russia 1875-77 – ma anche qualsiasi altro luogo e tempo dacché esistono l’uomo e la donna. Il commento al rom...