venerdì 2 luglio 2021

Anna Karénina, Lev Tolstòj

Anna Karénina, Lev Tolstòj, Russia 1875-77 – ma anche qualsiasi altro luogo e tempo dacché esistono l’uomo e la donna.

Il commento al romanzo con l’incpit universalmente riconosciuto come il più bello della letteratura mondiale – “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo” – meritava un’apertura altrettanto incisiva. Ma non è soltanto per far colpo su chi eventualmente mi sta leggendo che, nel momento in cui questa frase di apertura mi è venuta in mente, mi sono affrettata ad appuntarla prima che mi passasse di mente: è un pensiero onesto e sincero, che la penna di Tolstòj mi ha suscitato pagina dopo pagina. Quest’opera mi ha aspettata pazientemente, su uno scaffale della mia libreria, per anni. E’ un fatto curioso, ma per almeno gli ultimi due o tre mi ripromettevo di leggerlo a febbraio: chissà perché proprio il mese più corto dell’anno mi sembrava quello giusto per un romanzo così lungo e corposo. Alla fine comunque è stato davvero in febbraio che mi sono imbarcata per la sconfinata Russia, scoprendo luoghi da cui non avevo mai veramente voglia di andar via. La lettura di Anna Karénina sarà per sempre legata al tepore del fuoco, anche quando febbraio scivola in marzo e paradossalmente alle prime giornate di sole seguono serate ancora più fredde. E avrà il sapore di quelle serate, segnate dalla ricerca costante di silenzio per non perdere alcun dettaglio tra le righe, accompagnate dal sorseggiare lento di una tisana calda o di un calice di vino rassicurante.

In queste pagine si entra in punta di piedi, resi timidi da un certo timore reverenziale per questo autore che, in vita, fu osannato come un profeta e che da morto non gode certo di minor fama. Ma la timidezza non dura a lungo, ce la si dimentica ben presto sulla soglia del primo capitolo, perché fin da subito tutto è così vivo, movimentato, i personaggi descritti tanto magistralmente che è impossibile opporre alcun tipo di resistenza. Si viene catapultati al centro di un vortice di luoghi, eventi, persone, sentimenti che sembra di non aver mai visto prima – talmente potenti, così ben scritti – eppure di riconoscere alla perfezione come qualcosa di visto o vissuto. Un paradosso irrisolvibile ma chiarissimo, perché Tolstòj parla di tutti noi con una capacità di osservazione fuori dal normale ed una conoscenza intima di un caleidoscopio di caratteri,  e lo fa scrivendo come probabilmente non ha mai scritto nessuno né prima né dopo. E’ impossibile, secondo me, dire che un autore sia il migliore mai esistito. Di Tolstòj mi sento però certamente in grado di dire che egli è stato unico e che semmai fosse possibile fare una radiografia dell’anima – beh, lui c’è andato molto vicino.

I personaggi

I personaggi di Anna Karenina sono tutti collegati tra loro da rapporti di parentela, amicizia o amore. Il primo che incontriamo è Stepàn Arkàd’ič, da tutti chiamato Stìva, ed è con lui che assistiamo al primo tradimento. Egli non è pentito del proprio comportamento, il suo unico rammarico è anzi quello di essere stato scoperto. Stìva è lo stereotipo dell’uomo leggero e mediocre, che Tolstòj riesce a descrivere in modo sintetico ma centrando in pieno il punto in passaggi come questo:

“Si atteneva fermamente alle opinioni sostenute dalla maggioranza e dal suo giornale e le cambiava solo quando la maggioranza le cambiava, ovvero, per dirla meglio, non era lui a cambiare le opinioni, ma loro stesse a cambiarsi inavvertitamente in lui.”

A dimostrare ulteriormente la superficialità di Stìva viene spesso ribadito come egli fosse amico di tutti, come venisse accolto con gran gioia ovunque andasse, nonostante probabilmente tutti questi amici non avrebbero saputo dire quali fossero le sue effettive qualità. Proprio per questi motivi all’inizio si ha – se non una vera antipatia – quanto meno una certa diffidenza nei suoi confronti, ma si finisce chissà come con l’accettarlo per quello che è, riservandogli la medesima benevolenza nutrita da quelli che lo circondano, perché è instancabilmente allegro e di buonumore e nei suoi infiniti difetti e mancanze cerca spesso di fare del bene.

Vittima di questo primo tradimento è sua moglie, Dàr’ja Aleksàndrovna, detta semplicemente Dolly. La prima immagine che abbiamo di lei è per ovvi motivi quella di una donna fragile, ferita e che si fa rappresentante di un’esperienza comune – almeno una volta nella vita – a tutte le donne del mondo: la caduta delle illusioni amorose, quel momento in cui il velo si squarcia e gli occhi che hanno guardato ingenuamente (e puramente) all’uomo amato sono costretti a vedere che egli è diverso da quello che si credeva. Per molti versi, Dolly rappresenta il tipico angelo del focolare, ma col proseguire del romanzo dimostra di essere anche una donna molto forte, estremamente pratica, razionale, capace di accettare la realtà e soprattutto di trarre il meglio da ciò che possiede e che è in suo potere. Per queste ragioni, per la sua profondità, la capacità di fare lo sforzo di comprendere l’altro e per certi versi anche la sua apertura mentale, è un personaggio che mi è piaciuto molto.

Sorella di Dolly è Ekaterìna Aleksàndrovna, chiamata dagli intimi semplicemente Kitty. Kitty è una ragazza giovane, tutta intenta a compiere i primi passi verso l’intricato mondo degli adulti. Nel suo tempo e nella sua società, questo significa per lo più poter – e dovere – prendere parte agli eventi mondani e, neanche a dirlo, fare colpo su un buon partito. Kitty, in questi suoi primi passi, ci appare molto ingenua, e proprio a causa della sua evidente inesperienza commette degli errori. Errori innocenti, ai nostri occhi, ma per i quali lei non riuscirà a perdonarsi facilmente. Kitty si allontana temporaneamente insieme ai genitori, per una di quelle vacanze ristorative di spirito e salute di cui leggiamo sempre nei romanzi ottocenteschi; in questa sua parentesi di riposo, però, ho visto in realtà il suo percorso di ricerca di sé: trovando un modello in una nuova amica, Kitty si interroga su se stessa e compie senza ombra di dubbio una di quelle evoluzioni invisibili e silenziose che tanto piacciono a me. In tutto il resto del romanzo, Kitty dimostra una spiccata sensibilità e di sapere il fatto suo. Similmente alla sorella Dolly, Kitty è un personaggio femminile, nel senso più nobile del termine. E’ dolce, romantica, ha un forte senso materno ed un’istintiva capacità di agire, che la rendono capace di prendersi cura dell’altro anche sotto pressione o in frangenti delicati. Se non si fosse già capito, Kitty è uno dei miei personaggi preferiti.

Stìva invece è niente meno che il fratello della nostra protagonista, Anna Arkàd’evna Karénina, la quale fa nel romanzo un ingresso trionfale: arriva a Mosca per tentare di riportare la pace tra il fratello e la cognata (Dolly) – ed è un po’ assurdo che Tolstòj affidi proprio a lei questo compito. Sin dalla prima riga la si percepisce come una figura molto carismatica, bellissima ed elegante in modo diverso dalle altre donne, in una parola: affascinante. Fin dal viaggio di ritorno a casa però, a San Pietroburgo, la sua immagine cambia radicalmente: è come se perdesse le energie, la vediamo afflosciarsi al pari di un fiore rimasto senz’acqua. Anna Karénina è un personaggio sfuggente ed ambiguo, che non si riesce a condannare del tutto – perché chiunque proverebbe comprensione per la sua infelicità – ma nemmeno si sta dalla sua parte incondizionatamente. I suoi comportamenti, infatti, sono spesso a dir poco discutibili, il più delle volte sembra una persona che non sa cosa vuole e che nemmeno compie lo sforzo di provare a capirlo una volta per tutte. Uno degli strappi fondamentali della sua esistenza è sicuramente la lacerazione che viene a crearsi in lei tra il senso ed il dovere della maternità, e la passione. Nel vuoto che si crea da questo strappo si colloca la sua scelta di abbandonare l’amato figlio, una scelta per cui Anna non va certo demonizzata, ma ancora una volta lei non sembra convinta fino in fondo delle proprie azioni e sembra quasi che non faccia altro che fare passi avventati sulla spinta di emozioni proprie o – peggio ancora – altrui. Nessuno potrebbe negare, credo, che Anna Karénina sia uno dei personaggi più emotivi della storia.

Parte dei problemi di Anna derivano dal suo essere infelicemente sposata ad Alekséj Aleksàndrovic Karénin, che inaspettatamente ho trovato essere uno dei personaggi più interessanti dell’opera. Egli è l’esatto opposto di Anna, è un uomo dominato dalla razionalità, un burocrate da sempre dedito alla carriera, che lei percepisce come freddo, noioso, incapace di provare qualunque sentimento. Ma se a primo impatto è fin troppo facile mettersi dalla parte di Anna e giudicarlo allo stesso modo, proseguendo nella lettura si scopre che non è affatto vero: pur essendo di sicuro molto razionale e poco passionale, Karénin è profondamente umano e trovo che lui capisca lei molto più di quanto lei non capisca lui. Egli cova i propri pensieri e sentimenti e più di una volta compie anche il tentativo di comunicarli alla moglie, stabilendo con lei un vero dialogo; ed è lei che, col suo atteggiamento prevenuto e giudicante, lo fa ritrarre istintivamente. A questo punto lui adotta modalità sarcastiche e minimizzanti per autodifesa. Come padre, invece, è un totale disastro: quando si trova da solo col figlio si rivolge ad un bambino ideale e non al bambino in carne ed ossa che ha davanti, e che si trova in estrema difficoltà.

Per certi versi distaccato da tutti loro, ma legato da amicizia prima e parentela acquisita poi, c’è un personaggio che ho scoperto dividere nettamente i lettori, tra chi lo adora e chi l’ha mal sopportato al punto di saltare a volte le pagine che riguardavano lui solo: sto parlando di Lèvin che io – indovinate un po’ – ho amato tantissimo sin dalla sua prima apparizione. Oltre all’affetto che nutro per lui però, è un personaggio particolarmente importante, perché è lui ad essere specchio e portavoce di Tolstòj. Basta leggere anche le brevi note biografiche dell’autore ad inizio o fine romanzo per ritrovare tantissime comunanze, di pensiero o di vissuto. Lèvin si distingue da tutti gli altri personaggi per il suo rifiuto della vita mondana: egli è infatti dedito alla vita bucolica ed al lavoro, tormentato da una spaccatura interiore tra l’agio di cui gode per la propria condizione sociale di nascita, ed i propri valori e principi che lo portano vicino alla condizione miserevole dei contadini russi. A livello personale, invece, Lèvin non ha altro che un forte desiderio di una propria vita famigliare e domestica tranquilla e felice. Sempre mosso da sentimenti veri ed onesti, incapace di sotterfugi e finzioni, è un uomo puro, a tratti ingenuo, dolce, caparbio, capace di ricredersi e di amare.

Karénin e Lèvin avranno un rivale in comune: il conte Vrònskij. Anche lui è un personaggio sorprendente, perché se all’inizio l’ho odiato senza riserve, ne ho pian piano scoperto la stratificazione che, se non me lo ha reso simpatico, ne ha fatto come nel caso di Karénin una figura più interessante di quanto sembrasse. Egli si configura dapprima come un uomo frivolo e superficiale, un po’ come Stìva ma connotato da un tratto meschino. Si innamora di Anna e, contrariamente a ciò che ci si aspetta dalla sua natura di donnaiolo, è capace di restarle fedele nelle traversie, ed anche di compromettersi e fare rinunce pur di restarle accanto. Il però sta nell’evidenza che Vrònskij è una di quelle persone che ha bisogno del desiderio e della fatica necessaria a raggiungere l’oggetto del desiderio, che una volta ottenuto viene a noia. Se ciò non è evidente già nel suo rapporto con Anna, lo diventa senz’altro nel suo rapporto con l’arte, alla quale si dedica proprio nel momento in cui la passione amorosa non è più la stessa dei primi tempi. Anche il disegno, una volta fatto il massimo che la propria capacità gli consentiva, viene abbandonato perché non ha altro da dargli. Per gran parte del romanzo mi son chiesta cosa mai avesse Vrònskij per conquistare Anna al punto da stravolgere la propria esistenza. Senz’altro ha quel tratto passionale mancante al marito, ma oltre questo?

Anna vs. società

L’ambientazione si sposta continuamente tra i due poli cittadini di Mosca e San Pietroburgo, dalle quali si hanno parentesi di pausa ed a cui – soprattutto – si contrappone il modello della vita in campagna, in cui la natura ed il lavoro fisico rappresentano delle vere e proprie possibilità alternative, salvifiche per l’uomo che non si rispecchia e che non vuole inserirsi nel contesto offerto dalla routine mondana. Lo sguardo, l’esempio e la lente d’ingrandimento sulla vita bucolica li dobbiamo ovviamente a Lèvin; tornando invece al discorso sulle città, entrambi i due grandi poli russi si fanno teatro della rappresentazione di una vita mondana totalmente frivola, dominata dai salotti dell’alta società nei quali regna sovrano il pettegolezzo: l’alta società russa risulta intrisa di falsità, abbondano i matrimoni di facciata – quasi tutti i mariti hanno l’amante, i tradimenti sono risaputi ma accettati finché vengono salvate le apparenze.

Verrebbe da chiedere: e perché Anna allora fa eccezione?

Proprio perché lei va oltre, rendendo palese e lampante la sua relazione extraconiugale con Vrònskij fino al punto di fuggire con lui, auto-condannandosi ad essere una donna perduta. Il punto di non ritorno nella sua condotta è rappresentato da una scena in cui, proprio in uno di quei salotti alto-borghesi, Anna si apparta a parlare col suo amante in privato, a lungo, sotto gli occhi di tutti scatenando subitaneamente bisbigli ed indignati commenti sottovoce. Ma cos’è che allora viene effettivamente condannato dalla società, il tradimento in sé o piuttosto il coraggio di essere trasparente, coerente con se stessa e la forza di assumersi la responsabilità delle proprie scelte ed azioni? La società – o meglio i suoi membri – vivono infatti secondo convenzioni e convenienze, scegliendo sempre ciò che risulta più semplice, vantaggioso, che comporta meno sacrificio; Anna, in un certo senso, col suo comportamento sbatte in faccia a tutti l’ipocrisia che domina le loro esistenze ma, come spesso accade, piuttosto che accogliere l’elemento critico, di rottura, come possibilità di riflessione ed evoluzione, esso viene allontanato e stigmatizzato, al fine di non mettersi in discussione e non rischiare.

D’altro canto, Anna – come Emma Bovary – sembra già in partenza votata all’infelicità, senza molte possibilità di salvezza. Come accennato precedentemente, mi son chiesta più volte durante la lettura del romanzo se lei amasse davvero Vrònskij, o se lo amasse solo in quanto antitesi di ciò che ormai odiava nel marito. In quest’ottica, Vrònskij diventerebbe poco più che uno strumento per evadere dalla prigione del matrimonio.

Silenziose corrispondenze: Anna e Lèvin

Una delle cose che mi hanno più colpito, e sulle quali mi sono soffermata a riflettere, è che ho riscontrato un’inaspettata forte somiglianza nei personaggi di Anna e Lèvin. Entrambi infatti subiscono un cambiamento interiore innescato da uno spostamento fisico: Anna che si reca a Mosca in aiuto del fratello e della cognata, Lèvin che va in città colmo di dubbi e speranze per chiedere la mano di una donna; prima di subire questo cambiamento fondamentale sono accomunati – secondo me – da un tratto che li rende due sognatori. Entrambi, proprio nel momento in cui sono lontani dalle rispettive quotidianità, si concedono di far vivere quel sognatore che alberga in loro. Al momento del ritorno a casa entrambi, facendo i conti coi propri desideri frustrati, tentano di nuovo di rinchiudere e soffocare dentro di sé il sognatore, e lo fanno proprio mediante il ritorno meticoloso alla quotidianità brevemente lasciata. Tolstòj dedica tanto all’uno quanto all’altra paragrafi in cui descrive meticolosamente le stanze – non posso dimenticare lo studio di Lèv, lo scrittoio di Anna – in cui entrambi, raccontandosi di essere indaffarati con carta e calamaio, fanno del proprio meglio per autoconvincersi che quella sia la loro unica vita possibile, faticando a dominare una mente – un cuore – che invece desidera ardentemente ben altro. Questo ritorno quindi, nella penna di Tolstòj, passa attraverso i cinque sensi, attraverso il contatto fisico con gli oggetti conosciuti contenuti nella casa, che però – per entrambi – sembra avere una connotazione ambivalente: quella della familiarità, che da un lato porta la consolazione delle cose note, conosciute, rassicuranti, ma dall’altro è contenitore di assenza di novità, stimoli, di sentimenti che facciano sentire vivi.

In questo ritorno sia Anna che Lèv tentano di re-inserirsi, ma lo fanno cercando di spegnersi e rendersi quasi un semplice accessorio in più dell’ambiente cui appartengono. Una rassegnazione che però ben presto si rivela impossibile, perché loro per primi sono tutt’altro che convinti di rinunciare per sempre ai propri desideri. Ed è a questo punto che scatta prepotente la ribellione, che in Anna si manifesta naturalmente nella relazione e poi nella fuga con Vrònskij, mentre Lèvin getta tutto se stesso – anima e corpo – nel lavoro, cercando di convincersi che esistere in questo ambito gli sarà sufficiente – illusione distrutta istantaneamente nel secondo esatto in cui all’improvviso rivede la donna amata (e quelle, se me lo chiedete, sono tra le pagine più belle di tutto il romanzo).

Questa somiglianza, che almeno io ho riscontrato, è però spezzata da una differenza sostanziale: il sogno di Lèvin è puro, legittimo, non nuoce a nessuno e lui non fa del male nel tentativo di raggiungerlo – al contrario, nel momento in cui gli pare irrealizzabile si ritira in solitudine impegnandosi a dimenticare. Il suo sogno sarà infatti coronato. Quello di Anna, al contrario, è impossibile fin dal principio: anche lei lo realizzerà, ma ad un prezzo altissimo, ovvero ferire tutti quelli che la circondano – in primis l’adorato figlio – e sarà quindi un sogno realizzato senza vera felicità, macchiato da vergogna, rifiuto, rinuncia, mancanze, rancore.

L'assenza di un divenire.

Ultima questione che mi premeva sottolineare riguarda ancora il personaggio di Anna. Conversando per delle ore al telefono con una cara amica abbiamo convenuto su un’impressione, ovvero che Anna Karénina è quel tipo di persona che ha un bisogno viscerale di una propria realizzazione personale, di incanalare tutta la propria energia e passionalità in qualcosa di concreto, di importante e significativo. Non so perché, ma la immaginavo benissimo come un medico di grande successo – oppure con una carriera in campo politico, suggeriva la mia amica riflettendo sul suo eccezionale carisma. Il punto è che, a prescindere dall’uomo di turno, per una come lei non poteva essere sufficiente essere la “moglie di”, “l’amante di”, “la madre di”. Ed è solamente questo, secondo me, il motivo della sua insanabile infelicità, il dramma misterioso che da donna bella ed intrigante la trasforma in anima tormentata, lunatica, irrazionale. La conosciamo solo in questa fase della sua vita, ma non mi sarei affatto stupita se anche in fasi precedenti ella fosse stata preda di profonde crisi, di insoddisfazione, di inspiegabile frustrazione. Ed in quest’ottica – pensando alle sue possibilità mancate, alla persona che forse sarebbe stata se avesse avuto delle scelte – la pena che provo di fronte al suo dolore è inquantificabile.


Abbastanza inutile sarebbe, da parte mia, tentare di commentare la prosa del maestro Tolstòj. La mia copia del romanzo è uscita dalla mia esperienza di lettura segnata quanto me – abbondano i segnapagina, le sottolineature, i commenti a margine, la costa non ha retto ed ha ceduto sotto il peso delle mie emozioni. Più di una volta sono rimasta totalmente basita per come egli avesse trovato le parole giuste per condensare in poche righe complicatissimi moti interiori che, proprio per averli sperimentati in prima persona, non avrei mai immaginato potessero essere spiegati in maniera così chiara e diretta. Se ci avessi provato io, mi sarei sperticata in spiegazioni lunghissime che avrebbero richiesto pagine su pagine.

Altrettanto stupore mi ha suscitato la sua capacità di raccontare l’animo e la sensibilità femminile. Ci sono scene, momenti, sottilissime pieghe del sentire che non credo di esser mai riuscita veramente a spiegare ad un uomo: vederli non solo compresi così a fondo, ma addirittura narrati in una maniera così efficace da un uomo – vissuto tra l’altro secoli fa – mi ha totalmente spiazzata. Sapere che poi, ad esempio, la moglie di Tolstòj ha avuto tutt’altro che vita facile al suo fianco lascia piuttosto perplessi, ma questo è un altro discorso, che forse affronterò il giorno in cui avrò letto i diari di Sòf’ja.

Altri temi: un accenno

Anna Karénina è un romanzo non solo corposo nella mole, ma così ricco di temi, di questioni che non soltanto lo rileggerei volentieri – io che non sono propensa alle riletture – ma di cui sento che non si finirebbe mai di parlare. Per questa mia analisi ho scelto di concentrarmi su alcuni punti, ma avrei potuto mettere in luce invece, ad esempio, come attraverso i suoi personaggi e le coppie da loro formate Tolstòj abbia rappresentato quattro diversi modelli di rapporto amoroso: quello tra Stìva e Dolly, che somiglia ancora oggi a tantissimi matrimoni, in cui le cose non funzionano più alla perfezione ma si decide di chiudere un occhio ed accettare compromessi; Anna e Karénin, dove invece la disfunzione non viene accettata e si pone fine al rapporto facendosi del male a vicenda (ed anche a chi non c’entra nulla, come i figli); Anna e Vrònskij, l’amore passionale che esplode e non può essere domato, ma che forse sotto la fiamma non ha molto altro da offrire; ed infine quello tra Lèv e Kitty, l’unico rapporto sano, costruito un pezzo per volta, dolce e romantico, ma non esente dalle difficoltà che sorgono mentre si fa lo sforzo di conoscersi e di capirsi, e di incastrare la propria vita – i gusti, le abitudini, i desideri – con quelli di qualcun altro. Il racconto dell’inizio della loro quotidianità di convivenza mi ha ricordato tantissimo ciò che ho vissuto e provato io in quel momento, perciò mi è parso estremamente reale e veritiero.

Infine, non posso non menzionare anche solo brevemente le pagine dell’ultima parte, dedicate al climax di disperazione nel quale finisce per versare Anna. L’ansia attanagliante, gli sbalzi vorticosi dei suoi pensieri ormai privi di logica e razionalità, si trasmette fittamente dalla pagina a te che leggi e credo, pur non essendo un’addetta ai lavori e quindi corro il rischio di sbagliarmi, che Tolstòj compia in quel frangente una descrizione abbastanza accurata di alcuni sintomi e sensazioni della depressione. Se questa mia lettura fosse corretta, rendiamoci conto dell’avanguardia di quest’uomo.

Come spesso mi succede quando leggo un libro acquistato molto tempo prima, mi son sentita in realtà felice di averlo affrontato solamente adesso, sentendo di averne colto a pieno la grandezza – cosa che forse sarei stata in grado di fare anche da più giovane, o forse no. La lettura di Anna Karénina è stata un’esperienza maestosa, che ho intenzione di cercare nuovamente nel corso di quest’anno perché di certo non ne ho abbastanza della penna di Tolstòj. Pochi romanzi mi hanno costretta a continuare a rimuginare per giorni e giorni – mesi! –, a confronti così stimolanti ed inesauribili con chi aveva già letto ed amato quest’opera. Cosa che spero si ripeta ora ed in futuro, con chiunque dopo aver letto questo post avrà voglia di dirmi la sua.

Grazie, se hai letto sin qui.

Julia

 

lunedì 12 aprile 2021

Il Conte di Montecristo, Alexandre Dumas

 Devo ammetterlo, forse commetto un errore. L’errore di avere un’opinione così alta ed un tale rispetto verso i classici della letteratura mondiale – e quella ottocentesca in particolare – da attribuir loro quasi la caratteristica dell’infallibilità. Dimentico a volte che quello che oggi è un grande classico è stato un tempo un libro come un altro, un romanzo fresco di pubblicazione verso il quale il lettore comune non nutriva i sentimenti che oggi circondano e ammantano la fama di certi titoli. Vero è però che il mio culto per i classici non nasce dal nulla, ma dal fatto che ormai – seppur me ne mancano ancora tantissimi, e di fondamentali – posso anche affermare di averne macinati parecchi sino ad oggi ed un classico che mi avesse completamente delusa non lo avevo ancora incontrato. Ce n’è stato qualcuno che non mi è piaciuto, certo, come ad esempio Effie Briest di Theodor Fontane – noiosissimo, con dei personaggi antipatici costruiti male ed una visione delle cose retrograda anche per la sua epoca (1894-95) – o Il sosia di Dostoevskij che sono certa di non aver capito. Ma anche in questi casi, pur non comunicando con i miei gusti e la mia sensibilità, ho chiuso quei testi con la sensazione di aver imparato qualcosa, di uscirne arricchita ed in qualche misura appagata. Dopo un intero mese passato a leggere le 1205 pagine che compongono Il Conte di Montecristo, invece, sono esattamente la stessa persona che ero prima di cominciarlo ed oltre alle varie questioni su cui mi dilungherò a breve, su ciò che questo romanzo contiene l’unica domanda che sarei riuscita a farmi sarebbe stata: e quindi?! Ma andiamo con ordine.

Di cosa parla Il Conte di Montecristo.

Il romanzo si apre sul ritorno a Marsiglia, dopo mesi trascorsi in mare aperto, della nave Pharaon, il cui capitano si era ammalato e poi morto durante il viaggio. Per questo, il comando era stato preso in via provvisoria da Edmond Dantès, giovane ed abilissimo marinaio molto amato dagli uomini al suo servizio. Dantès si configura subito come un ragazzo semplice, dal cuore puro, guidato da saldi principi e valori onesti, incapace di secondi fini e pertanto indifeso contro la malizia altrui. Al momento dello sbarco, giudicato ottimo il lavoro da lui svolto, il proprietario della nave – l’armatore Morrel – si sbilancia nel dirgli che ci sono ottime possibilità che venga subito promosso a capitano. Dantès, col cuore colmo di gioia e riconoscenza, sogna già questa prospettiva, che renderebbe più facile la sua vita e quella di coloro che ama, ovvero due sole persone al mondo: il vecchio padre, che vive di ciò che il figlio guadagna, stringendo la cinghia durante le sue lunghe assenze, e la bellissima catalana Mercedes, che aspetta pazientemente il ritorno del suo innamorato. Dantès sta quindi per coronare le sue umili ambizioni – una posizione lavorativa rispettabile e ben retribuita, il matrimonio con la donna che ama e la tranquillità per suo padre – ma c’è chi, nonostante lui non abbia fatto nulla per meritarlo, cova nei suoi confronti odio e gelosia. C’è chi lo invidia per l’avanzamento di carriera, chi lo considera un rivale in amore, chi nutre per lui una grande antipatia. Da quest’avversione comune nascerà un complotto ai danni di Edmond, destinato a stravolgere il corso della sua vita. A causa di una falsa denuncia anonima che lo accusa di bonapartismo nel periodo in cui Napoleone è esiliato all’Elba e la monarchia francese si è ristabilita sul proprio trono, Dantès viene arrestato; ad interrogarlo è il procuratore del re Villefort, che comprende subito l’innocenza del ragazzo, ma ha i suoi interessi personali nell’insabbiare più in fretta possibile tutta questa storia. Così, il povero Dantès viene gettato nelle segrete del castello d’If, dove resterà per ben quattordici anni. Periodo durante il quale, ad un certo punto, avrà la fortuna (ed è il caso di sottolineare questa parola) di conoscere l’abate Faria, creduto da tutti un povero vecchio pazzo perché continua a promettere un immenso tesoro in cambio della propria libertà. Dantès scopre ben presto che Faria è tutt’altro che pazzo, ma al contrario un uomo dalla cultura vastissima e dotato di grande ingegno, che invece di abbandonarsi alla disperazione – come lui invece stava facendo – aveva incessantemente lavorato di mente e di braccia per trovare un modo per evadere. Gli anni di prigionia diventano così immensamente preziosi, perché Edmond si farà insegnare da Faria tutto ciò che sa ed il vecchio, che finisce con l’amarlo come un figlio, gli svela tutti i segreti circa il suo famoso tesoro, lasciandoglielo in eredità se mai fosse riuscito ad uscire vivo di lì. E’ grazie a questi presupposti – cultura, conoscenza e denaro – che Edmond Dantès si trasformerà nel Conte di Montecristo, sposando come unico scopo della propria esistenza quello di vendicarsi dei colpevoli della propria sorte.

Pubblicato a puntate a partire dal 1844, Il Conte di Montecristo si inserisce a pieno titolo nel filone del feuilleton – tanto in voga a quell’epoca – ovvero il romanzo d’appendice, un genere letterario che aveva come obiettivo principale quello d’intrattenere le masse, e per questo presentava di solito trame avventurose e grandi intrecci che avrebbero mantenuto vivo l’interesse nonostante la pubblicazione episodica.

I motivi per cui questo romanzo non mi è piaciuto per niente.

1.      La superficialità di Alexandre Dumas, ed il suo stile di scrittura.

Fin dalla prima pagina la scrittura di Dumas mi è parsa molto semplice, tant’è che la prima cosa che vien da pensare, leggendolo, è quanto sia scorrevole. Dal canto mio però credo che l’aggettivo scorrevole non sia nulla di particolarmente lusinghiero: da un romanzo scritto bene quasi mi aspetto che sia scorrevole, così come esistono libri assolutamente mediocri di cui si può comunque dire che siano scritti in modo scorrevole. Se fossi stata onesta con me stessa avrei storto un po’ di più il naso fin dal principio, ma ben conoscendo l’entusiasmo generale che circonda i romanzi di Dumas mi son detta di dargli un po’ più di tempo. Ebbene, il tempo non ha fatto altro che peggiorare sempre più la mia percezione della sua penna: lo stile di Dumas non è semplice – qualità che spesso apprezzo moltissimo – ma sempliciotto, ai limiti del banale e del grossolano. Non c’è stato un singolo momento in 1205 pagine in cui io possa dire di essermi veramente emozionata, qualsiasi momento o personaggio egli stia raccontando il tono è sempre il medesimo, incredibilmente piatto. Ed a questo si deve, evidentemente, il piattume dei suoi personaggi: benché ce ne sia qualcuno riuscito meglio (e più tardi ne parlerò) in linea di massima hanno tutti lo spessore delle comparse. Anche verso quelli principali, si sviluppa una certa familiarità solo a forza di vederli ricomparire ed a causa dell’importanza che rivestono all’interno della trama, ma mancano tutti del più vago senso di tridimensionalità. Non c’è costruzione emotiva né scavo psicologico, e di tutti loro alla fine non sappiamo molto di più di quanto ne sapessimo all’inizio. Non c’è vera e propria crescita o evoluzione: non sono i personaggi a muoversi ma soltanto le cose attorno a loro e loro restano, in fin dei conti, sempre uguali.

Non riesco a pensare ad una sola frase interessante dal punto di vista letterario, un guizzo in qualche scelta lessicale o costruzione sintattica (e no, non è colpa del traduttore perché, grazie alla scelta di leggerlo in compagnia, ho potuto confrontarmi con chi teneva in mano edizioni e traduzioni diverse dalla mia). Semmai rabbrividisco ancora – dalla noia e dalla bruttezza – di certe pagine fatte solo da dialoghi sterili ed un po’ inutili che hanno il solo scopo di far camminare la trama, ma che dubito possano soddisfare chiunque apprezzi una scrittura un minimo più sofisticata.

La superficialità di Dumas emerge tutta nel suo modo di gestire la materia storica, che ha voluto per forza buttare all’interno del romanzo ma dalla quale – secondo me – sarebbe stato molto meglio se si fosse tenuto lontano. Nella parte iniziale il contesto storico è – anche se sarebbe più corretto dire che sarebbe stato – di fondamentale importanza, ma Dumas non fa il minimo sforzo né per costruire veramente il contesto che ha deciso di usare né tanto meno di approfondire le questioni di cui si è voluto servire. Non pretendo un’accurata digressione storica da un romanzo d’intrattenimento, ma sono dell’idea che se decidi di usare come comparsa Napoleone in persona, e di usare elementi di un periodo delicato come quello post-Rivoluzione francese o lo fai bene, oppure meglio evitare. Mi chiedo come potrebbe, una persona che ha scarsa conoscenza del periodo, comprendere tutta una serie di cose di cui si parla, un po’ alla rinfusa, nella prima parte del romanzo e soprattutto come potrebbe capire perché essere accusati di bonapartismo in quel momento sia un’accusa tanto grave da essere sbattuti nelle segrete di un castello-prigione. Certo, esiste sempre l’opzione “se non sai le cose e vuoi capire te le vai a cercare da te” ma io mi chiedo: il bello di leggere romanzi di altre epoche non consiste anche proprio nell’imparare da essi, nella possibilità di approfondire nozioni fredde e distanti grazie ad una storia che le rende vive?

Io son proprio di quest’idea, tant’è che mentre affrontavo queste pagine in cui si parla a vanvera di bonapartismo e realismo trovandole incredibilmente noiose – e noiose proprio perché superficiali, poco approfondite, scritte male – il pensiero andava da sé al lavoro straordinario svolto da Charlotte Bronte, che nel suo Shirley, avendo deciso di usare come periodo in cui ambientare la propria storia quello della Rivoluzione industriale, ha saputo ricrearne perfettamente tutte le tensioni, facendomi comprendere come mai avevo potuto capire prima che cosa comportasse nella vita quotidiana di un piccolo imprenditore inglese il blocco napoleonico – e guarda caso torna proprio la figura di Napoleone, forse è da questo che scaturisce il mio confronto – e perché l’avvento dei macchinari nell’industria scatenò tanta divisione e tante difficoltà. Eppure, neanche quello è un romanzo storico.

L’idea che Dumas fosse un autore un tantino superficiale viene poi avvalorata da due informazioni. La prima è che venne ripetutamente citato in tribunale per questioni legate ai diritti d’autore, dal collega Auguste Maquet, anch’egli scrittore e drammaturgo. Dumas si era affidato a lui durante la stesura di tutti i suoi romanzi, ricevendo da Maquet un contributo fondamentale per quanto riguarda la costruzione storica e l’ambientazione delle proprie opere. Che si sia però dimenticato di lui, dopo aver ottenuto il successo sfruttando le sue conoscenze? Tra gli esperti c’è chi sostiene che Maquet abbia scritto interi capitoli dei romanzi di Dumas, chi dice che “Maquet realizzava ciò che Dumas non riusciva a scrivere” – fatto sta che in seguito alle guerre in tribunale Maquet ottenne un rimborso di 145.200 franchi, perdendo però i diritti sulle opere che aveva contribuito a scrivere.

La seconda informazione che alimenta il mio giudizio di superficialità sull’approccio che Dumas aveva nei confronti del proprio lavoro, è che il manoscritto de Il Conte di Montecristo è famoso anche per essere pieno di refusi, sviste, imprecisioni, trascuratezze. Sono dettagli che non inficiano in particolar modo la lettura, spesso anzi solo il lettore sempre vigile e meticoloso se ne accorgerebbe. Nella mia edizione – I grandi classici di Bur – però questi momenti venivano sempre segnalati con una nota a piè di pagina, perciò è stato inevitabile ad un certo punto rendermi conto di come a Dumas non importasse più di tanto se certi dettagli della propria costruzione narrativa fossero corretti o meno.

Il Conte di Montecristo si regge solo ed unicamente sulla trama e sul susseguirsi degli eventi. Non dovrei aspettarmi altro da un romanzo d’appendice di destinazione popolare, forse – invece mi aspetto molto, ma molto di più, perché purtroppo non è la prima opera riconducibile a questo filone che leggo. E se penso che Charles Dickens o il suo amico e collega Wilkie Collins operavano con le stesse modalità non posso che mettermi le mani nei capelli per la distanza che separa una qualunque delle loro opere dal capolavoro di Dumas in termini di qualità – sotto ogni punto di vista, ma soprattutto quello stilistico e letterario. Prendete un personaggio qualunque a caso, anche uno che compare una volta sola, in un’opera qualunque di questi due autori e sarà mille volte caratterizzato meglio dello stesso Dantès.

2.      Edmond Dantès alias Conte di Montecristo.

Edmond Dantès riusciva almeno a farmi tenerezza. Chiunque ne proverebbe per il giovane marinaio così puro, onesto e fiducioso e chiunque proverebbe dispiacere per le sue prospettive spezzate a causa della malignità e dell’arrivismo altrui. La mia antipatia profonda e radicata infatti non è tanto verso Dantès – se lo identifichiamo col giovane innocente ingiustamente incarcerato – ma per colui che riemerge dalle segrete del castello d’If, ovvero il Conte di Montecristo.

Personaggio totalmente irrealistico, più piatto degli altri, in preda ad un insanabile delirio di onnipotenza e con quello che secondo me è un grave disturbo narcisistico della personalità.

Affermo questo perché sono incalcolabili i momenti in cui egli afferma di essere strumento della Provvidenza, la quale senz’altro esiste ma non sempre si palesa e concretizza sulla Terra, per questo il buon Dio ci ha mandato lui, grazie al cielo. Siamo tutti d’accordo che abbia subito delle profonde ingiustizie, per di più gratuite, e sebbene l’idea di vendetta sia un sentimento distante anni luce dal mio modo d’essere – sono una persona quasi incapace di portare del semplice rancore, figuriamoci – avrei compreso il suo desiderio di restituire il male subìto a chi per primo lo aveva causato. Ma il suo sentirsi/credersi/porsi come un essere superiore che ha diritto di vita e di morte sugli altri proprio non riesce ad andarmi giù: chi gli ha conferito tale diritto? Chi l’ha eletto a strumento divino sulla Terra?

Dalla sua bocca escono più di una volta espressioni come la seguente:

“Per me il buon servitore è quello su cui ho diritto di vita e di morte”.

E qui non si rivolge neanche ai suoi nemici, ma per l’appunto ai suoi servitori. Ed un personaggio che la pensa così è un personaggio straordinario, che merita tutta l’ammirazione di cui gode? Non riesco proprio a spiegarmelo e lo trovo al contrario totalmente indifendibile, come nella storia del suo schiavo – e sottolineo schiavo – Alì, che non approfondisco per non fare spoiler.

Il suo delirio non sta solo nella percezione di sé come strumento divino del bene con la missione di far


pulizia laddove ha agito il male; la sua follia si manifesta anche in contesti da lui percepiti come positivi: così come punisce quelli che gli hanno tolto tutto, allo stesso modo si prodiga per ricompensare quelli che, al contrario, hanno tentato per quanto possibile di aiutarlo. Ma il suo modo di elargire la ricompensa non appare come disinteressato, è tutto permeato di egocentrismo e narcisismo: nel momento in cui viene riconosciuto come benefattore egli gode smisuratamente dell’adorazione altrui. Infatti ciò che ho visto in determinati momenti del romanzo – quei momenti in cui sembrava doveroso sciogliersi dalla tenerezza per il buon cuore del Conte – io ho visto solamente un uomo pieno di sé che non ne aveva mai abbastanza di essere idolatrato da persone che – come del resto qualunque personaggio del libro – pendono dalle sue labbra.

Ed ecco, parliamo di questo. Perché diamine tutti pendono dalle sue labbra e vengono tramortiti all’istante dal suo carisma?! Questa è un’altra cosa che faccio fatica a spiegarmi, perché se è vero che il Conte, col suo aspetto fuori dal comune, i suoi modi ed abitudini frutto di interminabili viaggi intorno al mondo, non lo fanno passare inosservato nell’alta società piena delle sue convenzioni, mi sembra comunque eccessivo che nessuno sia in grado di tenergli testa (anche perché io tutto questo pozzo di scienza in lui non l’ho visto, ma vabbè).

Per me il Conte è un personaggio totalmente irrealistico, perché Dumas gli attribuisce qualunque dote e qualità. Lo descrive come bellissimo (però pallido e tenebroso), fortissimo, ricchissimo, poliglotta, eccellente in qualunque attività, dottissimo in ogni disciplina! Anche meno verrebbe da dire, no? A ben guardare, il Conte di Montecristo mi sembra l’antesignano perfetto del protagonista maschile dello young adult medio.

A rendere poco credibile il suo personaggio non è nemmeno l’eccessiva perfezione. La storia della letteratura, del cinema o delle serie tv, così come anche la realtà storica è ricca di figure dal genio smisurato, così grande in un campo solo o spalmato in diversi talenti; ma quasi sempre ad una genialità smisurata, cui faremmo quasi fatica a credere, arrivano a fare da contrappeso uno o più profondissimi punti deboli. La fragilità umana, semplicemente, che non risparmia nemmeno i migliori tra di noi. E di solito è proprio quella fragilità che ci permette di amare a pieno il genio inarrivabile, perché lo avvicina a noi e questo accorciamento di distanza è lo spazio in cui ha modo di nascere l’empatia.

Ecco, tra noi ed il Conte la distanza resta vastissima e luoghi di empatia non se ne trovano. Il Conte non ha debolezze, è sempre perfetto, impeccabile, tutto d’un pezzo, non ne sbaglia una. C’è un unico momento in cui va in crisi – ma roba di un attimo, si ripiglia subito – e di cui infatti non ero riuscita a comprendere il motivo.

// inizio spoiler //

Mi riferisco al momento in cui scopre la morte della signora Villefort e di Edouard. Leggendo l’approfondimento a cura del traduttore Guido Paduano ho potuto far chiarezza sul motivo della crisi, che ovviamente è legato soltanto al delirio di onnipotenza: la crisi è infatti dovuta al fatto che quelle due morti non era state premeditate né tanto meno previste da lui, e questo fuori programma gli ricorda che non tutto è in suo potere, trasformando il provvidenzialismo in fatalismo.

// fine spoiler //

Un’altra cosa che rende il Conte un personaggio lontanissimo da qualunque cosa mi possa piacere è la divisione sempre nettissima che esiste nella sua testa, nelle sue azioni e nella sua visione della realtà in bianco e nero, bene o male. Forse dovrebbe essere tutto così semplice, ma la realtà è che esistono sempre un milione di sfumature ed io un personaggio che le sfumature non sa neanche cosa sono – e che infatti quando gliene si presenta una è l’unico momento in cui dà di matto – non lo posso amare né quasi concepire.

3.      L’unica cosa che avrei salvato e poi invece no.

In tutto questo, sì, c’era una cosa che avrei salvato: okay – mi dicevo – non mi è piaciuto quasi niente, ma che Dumas abbia una fantasia smisurata glielo possiamo concedere, la trama di per sé era avvincente e l’ha tenuta su bene, almeno questo sì. Ecco, invece no, perché – udite udite – di farina del suo sacco ce n’è ben poca. Il Conte di Montecristo è ampiamente basato – per non dire copiato – su Le diamant et la vengeance (“Il diamante e la vendetta”) di Jacques Peuchet, a sua volta basato su un fatto di cronaca nera (1838). La coincidenza di fatti e personaggi tra l’opera di Dumas e quella di Peuchet è talmente elevata che non potrei esporli senza fare spoiler a chi non ha ancora letto il romanzo, ecco quant’è alta la percentuale di cose identiche tra i due titoli in questione. Perciò no, nemmeno l’inventiva di Dumas può riscuotere da parte mia particolare stima.

4.      Cosa salvo davvero.

Mi sento di salvare dal mio commento impietoso solamente i personaggi ed il filone narrativo legato a casa Villefort. I personaggi di questa famiglia sono gli unici tratteggiati discretamente, a mio avviso, nonno Noirtier e Valentine su tutti e le vicende che si sviluppano in mezzo a loro sono state le uniche che mi hanno dato forza sufficiente per arrivare alla conclusione del romanzo quando veramente non riuscivo a tollerarne più niente.

5.      Per concludere in bellezza:

nelle note biografiche sull’autore presenti a fine volume ho potuto apprendere questo:

            (Dumas) acquista un terreno a Port-Marly, dove progetta di costruire la propria residenza. Il Castello di Montecristo, inaugurato nel 1847, sarà un ritrovo d’obbligo per la Parigi mondana dell’epoca e un simbolo dell’incontenibile istrionismo del proprietario.

Ora, non so che percezione avete voi di un fatto del genere, ma io non sono riuscita a trattenermi dal farmi qualche risata, perché lo trovo assurdo e ridicolo. Questa è stata la ciliegina sulla torta, che ha completato un immagine di Alexandre Dumas come un uomo forse un po’ mediocre ma pieno di sé, che ha farcito il personaggio di Edmond Dantès con tutti gli -issimo che avrebbe voluto essere, e che ha completato il suo vanaglorioso sogno ad occhi aperti costruendosi addirittura un castello in cui continuare ad autocelebrarsi davanti a tutti. Non ci posso credere.



Ma ora per favore, ditemi.

Cosa ci trovate voi tutti nelle pagine de Il Conte di Montecristo?

 

mercoledì 3 febbraio 2021

Il giardino dei Finzi-Contini / Giorgio Bassani

 Voglio cominciare raccontando una sensazione. Leggendo la prima pagina del primo capitolo del romanzo più noto di Bassani ho provato la stessa sensazione che, appena sedicenne, provai leggendo la prima pagina de La casa degli spiriti di Isabel Allende. Sono cose che si ricordano, perché anche se non hai idea di cosa ti aspetta, bastano quelle poche righe a farti spalancare qualcosa dentro - qualcosa che deve spalancarsi, perché un nuovo mondo - vite, viaggi, voci, cose, ricordi, lontananze e ritorni - sta per caderti dentro. Fin da subito, allora, serve che tu faccia spazio.

La tomba era grande, massiccia, davvero imponente: una specie di tempio tra l'antico e l'orientale, come se ne vedeva nelle scene dell'Aida e del Nabucco in voga nei nostri teatri d'opera fino a pochi anni fa. In qualsiasi altro cimitero, l'attiguo Camposanto Comunale compreso, un sepolcro di tali pretese non avrebbe affatto stupito, ed anzi, confuso nella massa, sarebbe forse passato inosservato. Ma nel nostro era l'unico. E così, sebbene sorgesse assai lontano dal cancello d'ingresso, in fondo a un campo abbandonato dove da oltre mezzo secolo non veniva sepolto più nessuno, faceva spicco, saltava subito agli occhi.

Poco importa che i Trueba ed i Del Valle non c'entrino nulla con i Finzi-Contini, che Bassani e la Allende siano due luoghi così lontani: ai miei occhi un parallelismo esiste ed è dato dalla capacità di far capire al lettore, fin dalla prima riga, che ha tra le mani una storia ad ampio, ampissimo respiro, che comincia da lontano ed ha così tanto da dire, che parlerà di famiglie antichissime la cui storia si intreccia in nodi sottili con la Storia. Quella narrata da Bassani, poi, è un pezzo della nostra Storia, un pezzo triste, oscuro, di cui c'è ben poco d'andar fieri.

Siamo a Ferrara. A condurci per le sue strade è un narratore di cui ignoro il nome e di cui però so tutto il resto. L'ho visto crescere, gli sono stata al centro del garbuglio della sua testa adolescente, giovane adulto l'ho guardato in silenzio dal centro del tumulto dei sentimenti. Per colpa sua ho incontrato Alberto, Micòl, il professor Ermanno, Giampi Malnate che adesso mi mancano tutti da morire.

I Finzi-Contini sono una famiglia aristocratica che vive in una casa maestosa, circondata da un bellissimo giardino. Conducono una vita appartata, gli altri cittadini di Ferrara li rispettano, pur ritenendoli un po' stravaganti. Alberto e Micòl sono i figli del professor Ermanno e della signora Olga, due ragazzi intelligenti e carismatici che però non fanno molta vita sociale. Studiano a casa, ed a scuola si presentano solo alla fine dell'anno per sostenere l'esame da privatisti. Hanno ben poche occasioni d'incontrarsi col nostro narratore - coetaneo di Micòl, Alberto di appena qualche anno più grande - ma in quell'occasionale incrociarsi scatta subitaneo un riconoscimento: riconoscimento che inizia con la consapevolezza di essere ebrei, e di condividere quindi le medesime tradizioni, un retaggio culturale estraneo agli altri ragazzi e ragazze, ma che prosegue poi con un'istintiva sintonia. Siamo negli anni Trenta. Presto piombano su di loro le leggi razziali, la loro vita viene come messa in pausa, posta in dubbio la possibilità di concludere quei percorsi universitari ormai cominciati - il nostro narratore alla facoltà di Lettere di Bologna, Micòl che prova a tradurre Emily Dickinson alla Ca' Foscari di Venezia, Alberto ingegneria a Milano - ed una generale emarginazione che piomba su di loro da un giorno all'altro, senza un reale perché. Sarà proprio questa questa esclusione da tutto il resto, però, a portare il protagonista dentro casa Finzi-Contini - già che sono nella medesima spiacevole situazione, perché non farsi compagnia almeno tra loro - ed è così che egli salderà la propria giovinezza a quella di Micòl e di Alberto, ma anche al professor Ermanno, così interessato ai suoi studi in letteratura, al Giampi, migliore amico di Alberto, col quale i dibattiti accesi sulle questioni del mondo che ogni pomeriggio sfiorano la lite, si trasformeranno in uno speciale sodalizio.

Il giardino dei Finzi-Contini però non è un romanzo incentrato sui fatti terribili di quegli anni, o sulla condizione ebraica. Queste sono tematiche presenti, fanno nel vero senso della parola da contesto - storico, culturale - e Bassani è magistrale nel non farceli dimenticare mai senza renderli per questo il fulcro della narrazione. Perché il fulcro è il diventare grandi, è il primo devastante amore, è l'amicizia a vent'anni. La scrittura di Bassani è bella in modo struggente, è malinconica, e ti avvolge come il buio fa con le stradine di Ferrara, percorsa sempre a piedi o in bicicletta. Una Ferrara che non ho mai visto - o forse una volta, troppo piccola per ricordarmene - eppure che ho la sensazione di conoscere come le mie tasche. C'erano scene difficili da raccontare in questo libro, alle quali so che, se scritte da una penna meno capace, avrei reagito storcendo il naso. C'è ad esempio il bacio meglio descritto che io abbia mai letto, e c'è un colloquio bellissimo - bellissimo perché credibile, reale - tra un padre insonne ed un figlio triste. I personaggi si scavano ognuno un proprio posto in un angolo della sensibilità di chi legge, o almeno questo è quanto è accaduto a me.

Non ho potuto riconoscermi in Micòl, perché non le somiglio per niente, ma come non restare affascinati dalla sua intelligenza, dalla sua vivacità, dal suo non essere mai scontata. E poi Alberto, che io non me lo spiego perché, ma col suo solo stare lì, adagiato tra le pagine, mi faceva sentire il pianto in pancia. Un ragazzo silenzioso, discreto, che sospetto fosse innamorato del suo migliore amico - ma non viene mai detto, in nessun modo, perciò non ne sono certa. E poi Giampi Malnate, così diverso dagli altri di questo intimo gurppo, grande e grosso nella fisicità, forte nella voce e nelle idee, fiducioso nel futuro, a Ferrara per lavoro con Milano e l'adorata mamma sempre nei pensieri. 

I personaggi secondari restano altrettanto impressi, come il signor Perotti, tuttofare di casa Finzi-Contini, tanto legato a certi fasti del passato che pian piano vengono lasciati indietro - come la bellissima carrozza che per anni ha avuto il piacere di guidare e che ancora ha cura di tenere come nuova; o il professor Meldolesi, docente di letteratura italiana presso il liceo classico frequentato dai ragazzi, appassionato e vivace, pieno di aspirazioni chiuse nel cassetto. Ed il professor Ermanno, capofamiglia di casa Finzi-Contini, che ho già nominato più volte ma che faccio fatica a decidere come descrivere. Perché è un uomo delicato, elegante, mai meno che educatissimo, che sembra colmo di piccoli ma potentissimi entusiasmi contenuti sotto strati e strati di pacatezza e buona educazione ereditarie. Ed infine il nostro protagonista senza nome ma pieno di cuore, che con immensa generosità ci presta i suoi occhi, le sue orecchie, per raccontarci di quella casa grande e calda da togliersi subito il cappotto, delle discussioni animate nel piccolo studio di Alberto, dei lunghi corridoi, le scale, la biblioteca con centinaia di volumi, avvolti dall'inverno, infine giunto dopo giorni di sole rubati all'autunno, sfruttate per sfidarsi in interminabili partite di tennis. A suo modo, lui è un Sognatore, nel quale son certa molti ventenni potrebbero riconoscersi. E c'è un'atmosfera in quella casa, nelle descrizioni che Bassani riesce a farne, che le nuove generazioni immagino definirebbero dark academia - ma io vengo da quella precedente, e per me è qualcosa senza tempo, fuori dal tempo, sospeso nel tempo.

Tranne per degli squarci, dolorosissimi, come questo qui:
Guardavo in giro ad uno ad uno zii e cugini, gran parte dei quali di lì a qualche anno sarebbero stati inghiottiti dai forni crematori tedeschi, e certo non lo immaginavano che sarebbero finiti così, né io stesso lo immaginavo (...)
Dalla prima all'ultima pagina, oltre ad essere rapita dalla bellezza della scrittura, ho sentito un nodo in gola che nemmeno arrivata all'ultima pagina ho avuto modo di sfogare. Aspettandomi di continuo il peggio, il peggio invece non arriva, perché il romanzo s'arresta prima che le cose più brutte accadano. Finisce con dolori che anche se dolori sono ancora dolori normali, comuni, tristi ma concepibili. Perciò anche a lettura conclusa mi son tenuta il mio nodo in gola, il magone sul petto, ed ho cominciato ad interrogarmi sul perché mi sentissi così. Ci ho messo un po', ma poi ho capito.

Ho pagato lo scotto di leggerlo dal futuro, col peso di una consapevolezza storica che gli abitanti di quelle pagine ignoravano del tutto. Fa male leggere di loro immaginando - talvolta sapendo - dove potrebbero esser finiti, cosa gli sarebbe successo di lì a poco. Fa male conoscerli così a fondo e vedere, al di là di tutta la loro cultura e dei frequenti dibattiti sulle questioni politiche, la totale ingenuità. Fa male vederli riempirsi il tempo, convinti che la vita sia solo in pausa per un po'. Vedere qualcuno laurearsi, nonostante tutto, anche se chissà se servirà mai quel pezzo di carta. Fa male sentirli sottovalutare le leggi razziali, giudicandole qualcosa di assurdo e ridicolo (definizioni giuste, ma di cui la realtà non ha tenuto conto). D'altronde, era impossibile immaginare quale piega folle avrebbero preso gli eventi.

E così, a Bassani non è servito raccontare gli orrori della Shoah, ha fatto un'altra cosa, forse ancora più efficace e dolorosa: ci ha fatto conoscere intimamente i Finzi-Contini, ci ha permesso di girare e sostare quanto ci pareva nella loro bellissima casa, ci ha descritto nel dettaglio i mobili di Alberto - il suo tavolo da ingegnere -, ci ha fatto innamorare di Micòl, ci ha persino fatto leggere la sua traduzione di una poesia di Emily Dickinson. Ci ha fatto affezionare al professor Ermanno con la tenerezza che proveremmo per nostro padre quando ci accorgiamo che comincia ad invecchiare. Ed a quel punto, quando ce li abbiamo profondamente nel cuore, quando abbiamo come raccolto un album di fotografie già piene di nostalgia, ci costringe a lasciarli soli, consapevoli che solo il narratore - il nostro Sognatore - è arrivato abbastanza lontano da raccontare.

Ma Il giardino dei Finzi-Contini, ve lo voglio ricordare, è soprattutto la storia di un amore.
Ed è uno dei romanzi più belli che io abbia mai avuto la fortuna di leggere.

Grazie, se hai letto sin qui.
Julia

 

 

 

mercoledì 27 gennaio 2021

Lasciami andare, madre / Helga Schneider

Di una stessa storia esistono più versioni - almeno una per ogni persona presente, direttamente o indirettamente coinvolta. E se questo è vero per una qualunque inezia che può accadere tra le quattro mura delle nostre case, figuriamoci quanto può esserlo per un grande evento storico. Ecco perché da quando, ancora bambina, lessi il Diario di Anne Frank - uno dei primi veri libri della mia vita - non ho mai smesso di documentarmi, cercare, ascoltare, leggere le tante testimonianze che ci sono state lasciate in eredità da chi gli eventi della Seconda Guerra Mondiale li ha vissuti sulla propria pelle. E lungi dall'aver esaurito i testi a disposizione sull'argomento, sembra al contrario che più quegli anni oscuri iniziano a scivolare nel passato, più resti ancora da sapere.

Se per molto tempo, ad esempio, ho incontrato solo le voci del popolo ebraico, negli ultimi anni ho avuto la possibilità di incontrarne altre. E' accaduto con Io non mi chiamo Miriam di Majgull Axellson, autrice svedese che nel suo bellissimo romanzo racconta la lunga vita di una donna di origine zingara, che indossando una menzogna riesce a sopravvivere al campo di concentramento nel quale viene deportata. Salvezza che pagherà però continuando a vestire quella menzogna per tutti gli anni a venire, decidendo - con non poco coraggio e paura - di togliersela di dosso solo il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno, aprendo i propri cassetti della memoria con una nipote dolce, curiosa e premurosa. E mi è capitato proprio adesso, questo mese, quando tra le letture dedicate al Giorno della Memoria ho deciso di inserire un volume abbastanza noto, acquistato tempo fa incuriosita dalla questione complessa e controversa che sapevo avrei trovato al suo interno: Lasciami andare, madre di Helga Schneider.

Helga Schneider
Quando aveva solo quattro anni Helga ed il suo fratellino Peter furono abbandonati a Berlino dalla madre, la quale - già ausiliaria delle SS - divenne guardiana ad Auschwitz-Birkenau. Fino ad allora non era certo stata una madre facile, spesso assente per dedicarsi al proprio impegno politico, e quando presente era una madre che elargiva ben poco affetto, pretendendo in cambio rigorosa obbedienza. 

Dopo il suo abbandono quella di Helga fu un'infanzia tutt'altro che facile. Una breve parentesi di serenità, trascorsa in Polonia con i nonni paterni, poi la vita che torna a farsi dura e severa, quando suo padre si risposa e la nuova matrigna dimostra sin da subito di stravedere per il piccolo Peter, ma di nutrire una crudele avversione per Helga, che alla prima occasione viene spedita in un collegio, dove trascorrerà buona parte dell'infanzia e dell'adolescenza.

In Lasciami andare, madre la Schneider racconta l'ultimo incontro con quella madre sconosciuta, incontrata prima di allora soltanto una volta, dopo ben ventisette anni di separazione. In quella prima occasione, Helga aveva sentito il bisogno di cercarla perché - divenuta madre a sua volta - desiderava farle incontrare il nipotino di cinque anni, ma anche di compiere quel tentativo in qualità di figlia. In quella prima occasione però lei aveva completamente ignorato il nipote, aveva insistito affinché Helga indossasse l'uniforme da SS ancora orgogliosamente custodita nell'armadio, le aveva messo in mano un mucchietto d'oro splendente che Helga, inorridita intuendo subito da dove potesse provenire, lascia cadere a terra. Profondamente ferita e delusa da quella donna che non mostra il minimo segno né di affetto materno né di pentimento per il proprio passato, Helga decide di non vederla mai più, di provare - per quanto possibile - a dimenticarla.

Salvo poi, molto tempo dopo, ricevere una lettera che la invita ad un ultimo incontro. A scriverla è l'unica amica di sua madre, ex vicina di casa, che la informa di come sua madre viva ormai da tempo in una casa di riposo, da quando la demenza senile che l'aveva colpita aveva cominciato a renderle pericoloso l'abitare da sola. Sta peggiorando rapidamente, la informa, e forse lei avrebbe voluto vederla almeno un'ultima volta. Così, nonostante la paura e l'incertezza, Helga compie nuovamente il viaggio alla ricerca di una madre che in fondo non ha mai avuto, accompagnata dalla cugina Eva a darle sostegno.

Lasciami andare, madre racconta quest'ultimo, difficilissimo incontro, intervallato dai dolorosi ricordi d'infanzia di Helga. Sua madre è ormai una vecchietta piccola che fa capricci come una bambina, che veste solo di verde militare - il colore più bello, dice - e che però si infiamma se appena appena si accenna alla sua carriera. Ed Helga, nonostante il proposito di evitarlo, non riesce a trattenersi dal fare domande, talvolta brutalmente dirette, sui suoi giorni da guardiana a Birkenau, là dove mandavano solo le più coriacee.

Quel che Helga cerca è un barlume di rimorso, di coscienza del male che quella donna aveva attivamente contribuito a perpetrare. Ma questa luce è qualcosa che negli occhi di sua madre non è dato ritrovare: ho fatto un percorso di desensibilizzazione, è tutto ciò che ha da dire sulle azioni disumane che la figlia le ricorda. E come convivere allora con questo conflitto lacerante, quello di avere davanti agli occhi una persona che racchiude in sé un mostro, ed al contempo anche il proprio stesso sangue.

Al momento di andar via Helga è letteralmente distrutta dall'immagine di quell'anziana donna, ora all'apparenza così indifesa, che nei tanti sbalzi d'umore avuti durante il loro colloquio privato ha preteso di essere chiamata Mutti - mamma, una parola che Helga ha pronunciato così poco nella sua vita, e che le resta sullo stomaco - ha preteso baci ed ha accettato di essere portata a pranzo con gli altri ospiti della casa solo strappando la promessa che la figlia sarebbe tornata a trovarla già nel pomeriggio. Una bugia concessa per tranquillizzarla, confidando nel tradimento di quella memoria precaria che avrebbe cancellato la promessa di lì a poco. Eppure, quella stessa donna non aveva avuto pietà, né per madri disperate, né per bambini innocenti, né per vittime già prostrate che lei con le proprie mani aveva legato a tavoli di legno, consapevole che lo scopo era quello di condurre mostruosi esperimenti.

Eventi come quelli che si sono verificati durante la Shoa, che si verificano con ogni guerra o persecuzione, creano una varietà inimmaginabile di vittime. Helga Schneider non è stata in un campo di concentramento, non ha subìto discriminazione o persecuzione; ma è stata una bimba che ha visto città bombardate, che ha vissuto stipata con tanti altri nel buio di un bunker, che è stata abbandonata e molto sola e che, una volta grande abbastanza per capire, ha portato il peso di essere la figlia di una guardia delle SS

Lasciami andare, madre è un testo di sole 132 pagine, che nonostante il peso del contenuto ho divorato in due giorni, grazie ad una scrittura fluida che si percepisce tanto onesta da essere disarmata. Helga Schneider racconta quel che doveva raccontare, mettendo nelle nostre mani un conflitto irrisolto e forse irrisolvibile: dovrei amarla, ma non posso per quel che ha fatto e perché non c'è mai stata; dovrei odiarla per quel che ha fatto, ma non posso perché mi ha messa al mondo. E poi, anche se mai esplicitato, si percepisce talvolta un senso di colpa, forse proprio quello che sua madre non è mai stata capace di provare e che forse Helga sente di dover provare al posto suo.

Una storia forte, complicata, raccontata con coraggio e con dolore. Lasciami andare, madre è un libro necessario, che fa comprendere una volta di più quante storie ci sono da conoscere su quella fetta di Storia che, più scivola nel passato, più diventa importante ricordare.

Quante donne, invece, aveva sentito la Helga bambina, nella Berlino bruciante e impregnata del fetore dei cadaveri, imprecare contro il loro Fuhrer. Avevano lottato con le unghie e con i denti, le donne berlinesi, per difendere i loro figli, spesso partoriti nei rifugi o sotto le volte della metropolitana. (...) Nel dopoguerra, vedove e senza apparente futuro, avevano stretto i denti e intrecciato relazioni con gli uomini delle potenze vincitrici, preferendo l'epiteto di puttane al pensiero insopportabile di vedere le proprie creature morire di fame. (...) Consumata la catastrofe, poi, furono ancora le donne berlinesi - soprattutto di loro posso testimoniare - a sgomberare le strade dalle macerie e a consolare e rinfrancare i reduci che a poco a poco tornavano, esausti e svuotati, dalla guerra di Hitler.

Helga Schneider

- E voi, avete fatto qualcosa per onorare, nel vostro piccolo, questo 27 Gennaio?
Quali sono libri, film o documentari sull'argomento che, secondo voi, ognuno dovrebbe conoscere? 
 


Anna Karénina, Lev Tolstòj

Anna Karénina , Lev Tolstòj, Russia 1875-77 – ma anche qualsiasi altro luogo e tempo dacché esistono l’uomo e la donna. Il commento al rom...