sabato 23 maggio 2020

Nausicaä della Valle del Vento (1984)

Il mondo ha raggiunto il suo apice industriale, ma invece di essere soddisfatto di quanto raggiunto l'essere umano, probabilmente incapace di accontentarsi, ha distrutto tutto. Una distruzione culminata in una guerra che viene ricordata come I sette giorni di fuoco.

Mille anni dopo, lo scenario offerto dal Pianeta Terra è quello di una desolazione post-apocalittica o post-nucleare, la frattura tra uomo e natura sembra definitiva, poiché quest'ultima è stata ridotta ad un elemento letale in tutte le sue forme: l'acqua è ormai riassunta dal Mar Marcio che minaccia le sponde, e c'è una foresta tossica dove l'aria non è respirabile - avventurandocisi dentro senza i caschi dell'ossigeno, simili a quelli degli astronauti, si può avere quasi la certezza di contrarre una malattia letale. Aria ed acqua, quindi, un tempo associate alla purezza, sono stati a tal punto contaminati dalle scellerate azioni dell'uomo da essersi trasformate in qualcosa capace di ucciderlo.

Un posto dove la vita ha in qualche modo resistito a tanto grigiore è la Valle del Vento, un posto pacifico, minacciato però dal popolo di Tolmechia che persegue un pericoloso obiettivo, quello di risvegliare l'ultimo Soldato Titano. La Valle del Vento sarà guidata e protetta dalla giovane e valorosa principessa Nausicaa.


Nausicaa della Valle del Vento nasce nel 1982 come manga, scritto e disegnato dal maestro Hayao Miyazaki. Ne fece successivamente un film, il secondo della sua produzione, che uscì nelle sale cinematografiche giapponesi l'11 marzo del 1984. Benché il film sia antecedente alla fondazione dello Studio Ghibli, nato il 15 giugno del 1985, Nausicaa della Valle del Vento è stato comunque riconosciuto come il primo film della casa d'animazione, perché in esso sono presenti le tematiche che negli anni sarebbero diventate distintive della poetica del regista, prima fra tutti l'ecologia ed il rapporto tra uomo e natura, un argomento raccontato con tanta forza dalle vicende della Valle da conquistare il sigillo del WWF, che compare all'inizio del film, definito un racconto di fantascienza ecologica.

Come sempre, Miyazaki si serve della sua fervida immaginazione partendo però da qualche spunto reale, forse per toccare più da vicino lo spettatore, per comunicargli che oltre il fantastico che sta vedendo nello schermo, fatto di disegni incantevoli ed avventure avvincenti, c'è qualcosa che lo riguarda da più vicino di quanto possa credere, e che proprio per questo dovrebbe ascoltare con attenzione cosa sta cercando di dirci.

In questo caso, il Mar Marcio si ispira ad una catastrofe ambientale realmente accaduta in Giappone nel 1956, ed in particolare ad un inquinamento di mercurio che interessò il golfo di Minamata, nella prefettura di Kumamoto, causata da un'industria chimica. Benché sia un fatto oggi poco conosciuto e ricordato, fu un avvenimento gravissimo: i pesci ed i crostacei di quelle zone continuarono a far parte della catena alimentare di uomini ed animali, causando l'avvelenamento di chi li ingeriva. I decessi causati da tale avvelenamento continuarono a verificarsi per ben trent'anni. L'avvelenamento da mercurio porta ad una sindrome neurologica dai molteplici sintomi, che fin dal '56 venne chiamata la malattia di Minamata.

Di ispirazione personale, e sicuramente più piacevole, è un altra componente largamente diffusa in tutta la sua produzione e particolarmente importante in Nausicaa: il volo. Miyazaki ha la passione del volo fin da quando era bambino, e ciò è facile da intuire contemplando le grandi quantità di velivoli, più o meno fantasiosi, che attraversano i fantastici cieli dei suoi film. In Nausicaa rincara la dose della sua fascinazione per la possibilità di volare, facendo della protagonista una persona che comunica col Sommo Vento, il quale la protegge e grazie al quale lei è in grado di percepire cosa accade nell'ambiente che la circonda.


E veniamo a lei, Nausicaa, cuore pulsante di questo lungometraggio. In questa principessa giovane troviamo riassunte le caratteristiche della tipica eroina di Miyazaki: è una ragazza indipendente e coraggiosa, gentile ed altruista, vicina alla natura e per nulla materialista; d'altro canto è profondamente umana nel suo risentimento nei confronti del popolo di Tolmechia, un odio che però riesce a tenere sotto controllo e qualora le capiti di commettere degli errori saprà trovare il modo di porvi rimedio.

Nausicaa fa onore alle figure femminili da cui nasce, in un altissimo incontro tra Oriente ed Occidente: da una parte abbiamo infatti la Nausicaa principessa dei Feaci dell'Odissea omerica, dall'altro troviamo La principessa che amava gli insetti, particolarissima fiaba giapponese del XII secolo.

Miyazaki affida ad un'eroina femminile l'arduo compito di tentare una riconciliazione tra uomo e natura con l'idea che solo una donna può avere la sensibilità di ascoltare e comprendere, visto che il sesso maschile si è sino a quel punto dimostrato continuamente assetato ed accecato dalla sete del potere. Nella Valle del Vento si tramanda la leggenda di un cavaliere vestito di blu che salverà l'umanità... ma sarà davvero un cavaliere a riuscirci?


Personalmente, ci sono due cose che amo molto di Nausicaa. La prima sono indubbiamente i disegni, fatti e colorati a mano come molti dei film Ghibli più vecchi (il primo ad avere un contributo di grafica digitale è stato La principessa Mononoke). Le immagini hanno per questo un'atmosfera unica, che si respira sin dal primo fotogramma assaporando la particolarità rispetto ad opere più recenti.

La seconda, è una scena in particolare. Quando Nausicaa incontra per la prima volta quello che poi diventerà il suo fido animaletto, quell'esserino giallo e tigrato, con un corpicino piccolo ma lunghe orecchie ed una lunga coda, l'animaletto si mostra diffidente ed aggressivo nei suoi confronti ma lei resta calma e continua a parlargli con dolcezza, non cambiando atteggiamento nemmeno quando lui le morde un dito. Nausicaa capisce subito che l'animale si comporta così perché è spaventato e che ha solo bisogno di essere rassicurato. Di lì a poco, infatti, lui le salirà in spalla e non la abbandonerà mai più.

Ho sempre amato molto gli animali ed essendo cresciuta e vivendo tutt'ora in campagna sono abituata a vedere di tutto, compresi topi, serpenti e cinghiali e nessuno mi suscita paura e disgusto. La realtà è che nessun animale ci attaccherebbe o farebbe del male se non ha motivo di farlo, e mi dispiace che siano ancora così tante le persone che si ostinano a non volerlo capire. L'incontro tra Nausicaa e l'animaletto giallo mi ha toccata da vicino, perché in pochi minuti insegna quanto basterebbe imparare per capire e rispettare gli animali. E' la scena in cui secondo me viene racchiuso uno dei messaggi più importanti di Nausicaa: non avere paura di ciò che non conosci, prova piuttosto a comprenderlo.

Avete già visto questo film? Cosa ne pensate?
Spero di avervi raccontato qualcosa di nuovo o, eventualmente, avervi invogliato a recuperare l'opera.


mercoledì 20 maggio 2020

Tess dei d'Urberville, Thomas Hardy

La primissima recensione che portai su questo blog, cinque anni fa, riguardava Via dalla pazza folla di Thomas Hardy, autore cui mi approcciavo allora per la prima volta ed a cui sono tornata solo questo mese - un po' perché avevo provato un'inusitata antipatia per la protagonista di quel romanzo, e temevo di incontrare nelle sue opere un'altra donna simile; un po' per il flusso casuale che mi muove nelle mie scelte libresche. Qualora decidiate di buttare un'occhio su quel vecchio post, infatti, potrete constatare come mi fossi innamorata della prosa dell'autore, soprattutto per la sua capacità di rendere viva e visibile la natura, ma come il fastidio verso Bathsheba Everdene avesse reso difficile l'apprezzamento totale dell'opera. Cosa che invece, con mio grande piacere, è accaduta molto facilmente con Tess dei d'Urberville, un romanzo che non si può definire meno di un capolavoro, uno di quelli che quando mi accingo a scriverne vengo presa dall'insicurezza, che si palesa sotto forma di domanda: cosa mai potrò dirne, io, che non sia già stato detto prima e meglio? Forse niente, ma io per prima quando lessi Via dalla pazza folla non sapevo nulla di Hardy.

Non sapevo, ad esempio, che ci mise del tempo per far della scrittura il suo mestiere, perché terminate le scuole a sedici anni, piuttosto che iscriverlo all'università i genitori preferirono che imparasse una professione, e lo affidarono come apprendista ad un architetto. L'architettura divenne per Hardy una sorta di sentiero obbligato e pur perseverando nell'apprendistato ed intraprendendo la carriera che era stata scelta per lui non vi si appassionò mai, e non appena gli fu possibile conciliare le due cose diede inizio alla sua carriera letteraria. Hardy è uno scrittore, ed un romanziere, che possiamo senz'altro definire atipico, soprattutto considerando l'epoca e la stagione letteraria in cui visse e scrisse. Il suo lavoro infatti s'inserisce a pieno titolo nell'epoca vittoriana, che come ogni amante della classicità inglese ben sa ci ha lasciato in eredità una buona fetta dei migliori romanzi di sempre. Le sorelle Bronte, Dickens, Collins, Thackeray, George Eliot, Elisabeth Gaskell, Trollope - è lunga la lista di autori illustri che hanno segnato la letteratura inglese di quel tempo, e pur avendo ognuno un suo stile, sue caratteristiche riconoscibili ed inimitabili, le loro penne sono in qualche modo legate da quella che potremmo definire un'atmosfera, un senso comune di fondo che deriva probabilmente dall'uso della stessa lingua madre e dalla condivisione delle radici britanniche. Hardy non fa eccezione in questo, eppure ho la sensazione che la materia narrativa da lui scelta si discosti da quella dei colleghi, e mi colpisce il suo aver fatto parte di una letteratura così fervida, restandoci in qualche modo in costante conflitto

 Thomas Hardy, 1840-1928


Arrivò infatti un momento in cui la sua carriera letteraria cominciava ad andar così bene da permettergli di lasciare definitivamente l'attività di architetto. E quando poté a tutti gli effetti definirsi uno scrittore, la sua sensazione fu quella di essere ora legato alla necessità di scrivere romanzi così come era stato costretto agli orari ed agli impegni da architetto. La prima vocazione di Hardy, quando ancora era studente, era stata la poesia ed è significativo - considerato tutto questo - che negli ultimi anni della sua attività egli smise completamente di scrivere romanzi, e si dedicò alla scrittura in versi. La critica parla per questo di due momenti nettamente distinti nella produzione di Hardy, quello in prosa e quello poetico, quando in realtà egli non aveva mai smesso di coltivare in primo luogo la propria vocazione poetica. Hardy, del resto, non fu uno scrittore particolarmente compreso dalla critica e dal pubblico del suo tempo: le sue opere furono spesso accolte con freddezza, se non con aperta ostilità, un risultato che il più delle volte l'autore non si aspettava, e che lo lasciava deluso ed amareggiato. E' probabile che la ragione di questa incrinatura tra Hardy ed il suo tempo stia nel suo essere essenzialmente uno scrittore della transizione, e ciò si nota in particolar modo mettendo a confronto la prima e l'ultima delle sue opere: in Estremi rimedi (1871) addirittura cercò di emulare a modo suo la sensation novel di Wilkie Collins, che tanto successo riscuoteva nel pubblico, mentre in Jude l'Oscuro (1895) anticipa il romanzo del Novecento. Egli è, quindi, l'ultimo dei grandi vittoriani. 

Avete presente la teoria dell'effetto farfalla? Quella teoria secondo cui, un semplice battito d'ali di una farfalla in un punto qualunque della Terra, può causare stravolgimenti dall'altra parte del globo. La scena iniziale di Tess dei d'Urberville (1891) ha un po' il sapore di questa teoria, poiché tutto comincia con una scena che poteva non avere alcuna conseguenza: un prete, che lungo una strada di campagna di sera incrocia un povero carrettiere di mezza età. Il prete, che è appassionato di storia, non si trattiene dal rivelargli una sua recente scoperta, ossia che quell'uomo povero in canna discende in realtà da una delle più antiche ed un tempo ricche famiglie della contea, ormai decaduta, i d'Urberville, di cui il suo cognome - Durbeyfield - ne è un'evidente storpiatura. E' da questa banalità che hanno inizio, quasi ad effetto domino, gli eventi che segneranno il destino di Tess, rendendolo sempre più diverso da quello che avrebbe potuto essere.

Trattandosi di un classico molto popolare, anche di questi tempi a quanto pare dalla comunità web dei lettori, raccontare oltre della trama mi pare superfluo. Più interessante, forse, è approfondire alcuni di quelli che secondo me sono i temi centrali dell'opera. La tragica storia di Tess fa riflettere il lettore su due nodi fondamentali:

  • l'ancestrale senso di colpa della donna. Ha cominciato Eva, ed ogni donna che calpesterà questo mondo se ne porterà dietro le conseguenze. Tess, che è una ragazza buona, ingenua e volenterosa, si porta dentro fin da quando la conosciamo il peso di colpe che non possiede. I genitori sono due sprovveduti, sfaticati ed irresponsabili, cosa che però lei non vede o non vuole riconoscere ed invece di essere arrabbiata o amareggiata per l'esser figlia di due simili soggetti si sobbarca senza nessuna lamentela le responsabilità che spetterebbero agli adulti. E quando il loro unico cavallo, indispensabile al loro sostentamento, viene perduto per un incidente di cui subito Tess si sente colpevole, il suo senso di colpa comincia ad emergere chiaramente, facendola sentire in dovere di accettare ogni richiesta avanzata dai genitori per ripagarli di quella grave perdita da lei causata. Quando poi sarà vittima - e sottolineo vittima - dell'evento che segnerà la sua vita, il senso di colpa si gonfia a dismisura e non se ne andrà mai più. Quest'ombra che la accompagna si incontra per tutto il romanzo, in scene strazianti come quando durante un lungo e stancante viaggio a piedi viene importunata a parole da uno sconosciuto e lei, dopo averlo seminato, si fascia la testa in un fazzoletto e si strappa le sopracciglia per imbruttirsi, come se la sua bellezza fosse qualcosa per cui merita di punirsi. Quello di Tess è un sentimento dolorosissimo a leggersi, ma ancor più doloroso è pensare che da questo punto di vista Hardy abbia scritto un romanzo incredibilmente attuale, perché credo che troppe donne ancora oggi siano vittime di questo tipo di pensieri, inculcati da mentalità tossiche e retrograde o da brutte esperienze mai elaborate.
  • Il sacrificio di sé come reazione. Allo stesso tempo, o conseguentemente a questo, ho letto in quest'opera un messaggio molto chiaro, ossia la dimostrazione che l'arrendevolezza, la sottomissione, la totale abnegazione non rappresentino affatto una via per la redenzione. Tess, infatti, ha uno spirito di sacrificio ed una forza di volontà a dir poco notevoli. Non si piange mai addosso, né si ribella contro ciò che le accade o chi la fa soffrire. La sua risposta ai problemi ed alle sfide che una dopo l'altra si presentano sul suo percorso è quella di chiudere la bocca e rimboccarsi le maniche, convinta che non chiedendo mai niente a nessuno, restando il più possibile al suo posto (o quello che lei considera tale) e dandosi da fare, dimostrerà il proprio valore, e riuscirà a farsi perdonare - per quelle colpe che non ha - ed infine amare. Tutto, nella sua vicenda, dimostra che non sia così e di come invece avrebbe avuto forse qualche chance in più se si fosse rinnegata meno e se avesse avuto qualche pretesa in più. Se si fosse amata un po', e se pensando di avere un valore, dei diritti, una dignità non si fosse consegnata ad un destino tanto crudele. 


Tess dei d'Urberville, almeno a mio giudizio, è nettamente superiore a Via dalla pazza folla, col quale comunque condivide quella potenza descrittiva senza pari. Ci sarebbe ancora molto altro da dire, parlando ad esempio del famoso Wessex, ambientazione rurale immaginaria nella quale sono ambientate tutte le opere hardiane. Tess dei d'Urberville è un romanzo imperdibile per gli amanti della letteratura classica, una storia tragica e potentissima che mi ha fatta soffrire come da tempo non mi accadeva leggendo un romanzo. Da tenere quindi per un momento in cui ci si sente pronti, ma decisamente da non trascurare.

Vi segnalo inoltre, anche se non l'ho ancora visto, che nel 2008 ne è stato tratto un film con Eddie Redmayne nel ruolo di Angel Clare. Ho sempre del timore nel guardare un film tratto da un libro molto amato, ma la presenza di questo talentuosissimo attore è un motivo sufficiente per rischiare.

sabato 9 maggio 2020

La città incantata, Hayao Miyazaki (2001)

Buon sabato a tutti, benvenuti o bentornati sul blog!
Oggi vi accolgo col secondo appuntamento dedicato alla mia umile rubrica per scoprire o riscoprire i meravigliosi film d'animazione dello Studio Ghibli. Insieme al mio compagno, ne stiamo vedendo uno ogni venerdì sera, ed in realtà avevo deciso già dalla scorsa settimana di pubblicare il relativo post un sabato ogni due settimane. Questo sia per non rendere monotematico il blog, sia per darmi più tempo per scrivere qualcosa che valga la pena leggere (che poi io mi riduca lo stesso a lavorarci all'ultimo, è un altro discorso). Bando alle ciance, oggi vi racconto qualcosa su La città incantata.

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Ottavo film del maestro Hayao Miyazaki, esce nelle sale cinematografiche in Giappone nel 2001. Ispirato ad un racconto per bambini pubblicato nel 1987 di Kashiwaba Sachiko, intitolato Il meraviglioso paese oltre la nebbia, il film racconta l'avventura di Chihiro, una bambina di dieci anni che sta traslocando assieme ai genitori. Durante il viaggio in automobile per raggiungere la nuova abitazione, la famiglia giunge in un luogo particolare, che credono essere la loro destinazione. Nonostante il posto appaia desolato e disabitato e nonostante le proteste della bimba che quasi presagendo un pericolo non vuole andare, scendono dall'auto e si incamminano lungo il tunnel che si erano trovati davanti alla fine della strada percorsa. Dall'altro lato trovano un bel paesaggio, e poi quello che sembra a tutti gli effetti un parco divertimenti abbandonato. I genitori iniziano ad esplorare il luogo, trascinandosi dietro la piccola Chihiro, fin quando non si imbattono in un vero e proprio banchetto di cibo squisito e appena cucinato. I genitori, come improvvisamente non più padroni di sé, cominciano a servirsi, continuando a riempirsi i piatti più di quanto chiunque potrebbe mai riuscire a mangiare. Chihiro non tocca nulla, nonostante più volte la mamma ed il papà invitino anche lei ad assaggiare quelle prelibatezze, ed anzi cerca in tutti i modi di farli smettere di abbuffarsi. Ma non c'è verso, ed i genitori di Chihiro, a forza di ingozzarsi, si trasformano in due grandi maiali. Sconvolta, Chihiro si allontana e viene intercettata da Haku, un ragazzo suo coetaneo che la prende sotto la sua ala e la istruisce sul luogo dove è capitata, su come sopravvivervi e cosa fare.

Appena scende la notte, infatti, il luogo si anima, svelando la sua vera natura: si tratta di bagni termali per divinità e spiriti, un luogo pieno di dipendenti ed addetti ai lavori dove non ci si ferma mai e dove, per poter restare e non soccombere, il requisito numero uno è proprio avere un contratto di lavoro. A tal fine, Haku indica a Chihiro la strada per raggiungere Kamaji, un anziano operaio rappresentato da un ragno antropomorfo, le cui tante braccia non smettono neanche per un secondo di muovere la macchina di cui è l'unico addetto. Pur prestandole poca attenzione, Kamaji affida Chihiro a Lin, una ragazza addetta alla pulizia delle vasche delle terme, che per pura gentilezza verso Kamaji decide di aiutare la piccola sconosciuta. Per ottenere un contratto di lavoro, bisogna vedersela con la persona a capo dell'intricato meccanismo che governa i bagni, ossia la potentissima maga Yubaba. Anche se non sarà facile, insistendo come Haku le aveva detto di fare, Chihiro otterrà il suo contratto, e la regola numero due per ogni dipendente è cambiare il proprio nome, così Chihiro diventerà Sen.

Da questo momento in poi, lo spettatore segue le avventure di Chihiro/Sen come dipendente dei bagni termali per spiriti e divinità, dove dovrà affrontare molte prove, dove incontrerà tanti personaggi più e meno innocui, dove si farà degli amici e dove soprattutto vivrà esperienze capaci di farla crescere. Come sempre, i film di Miyazaki sono colmi di preziosi insegnamenti e di significati.


I dipendenti dei bagni termali

Oltre al racconto di Kashiwaba Sachiko cui si ispira, La città incantata nasce anche da una suggestione infantile. Miyazaki ha infatti raccontato di avere molti ricordi di quando era piccolo di bagni termali come quelli del film, chiamati yuya in giapponese, e che in particolare una volta nell'area di ingresso di uno di questi vide una porticina piccola piccola. Per giorni e per notti fantasticò su cosa poteva nascondersi dietro di essa, sul dove quella porticina avrebbe mai potuto portare. La città incantata indaga allora quel mistero d'infanzia, arricchito dalla presenza di spiriti e divinità che nella cultura giapponese sono presenti un po' in tutto, negli elementi naturali ma anche nelle case. Per rappresentarli nelle loro fattezze esteriori Miyazaki ha seguito soltanto la propria immaginazione, salvo qualche dettaglio attinto dalla tradizione folcloristica. Ecco quindi che Yubaba ricorda le Yamauba, temibili streghe delle montagne, che le fattezze di Kamaji ricordano tanto quelle di un ragno, ritenuto un simbolo di operosità e che il viso dello spettro Senza Volto ricorda tanto le maschere del teatro No, forma teatrale giapponese nata nel XIV secolo. Questo però è l'unico legame di Senza Volto con la tradizione, perché per il resto egli rappresenta il Giappone contemporaneo (ma potremmo dire anche il mondo, contemporaneo), dove molti pensano che la ricchezza possa comprare la felicità. Senza Volto, confondendo la gentilezza con l'elargire beni materiali per essere considerato ed apprezzato dagli altri, distribuisce oro a destra e a manca, ma riesce così a rendere felici i beneficiari dei suoi doni?

In un'intervista Miyazaki disse anche che La città incantata è un'emblema dello Studio Ghibli, dove Yubaba rappresenta il presidente della Ghibli, egli (Miyazaki stesso) si rivede in Kamaji, che ha così tanto lavoro che neanche le sue tante braccia riescono a stargli dietro, e Chihiro potrebbe incarnare una giovane e talentuosa disegnatrice appena arrivata che deve fare del suo meglio e darsi sempre da fare per non essere cacciata da Yubaba, vale a dire se non vuole essere licenziata.

Secondo queste dinamiche, La città incantata rappresenta in generale il moderno mondo del lavoro, dove Yubaba incarna la ferocia del capitalismo, che vede ogni cosa - tranne il suo sproporzionato e viziatissimo neonato Bo - secondo la logica di perdita e guadagno. I tanti dipendenti sono ormai assuefatti al lavoro e sembrano non pensare ad altro, e diventa oltremodo significativa in quest'ottica la questione del nome: il fatto che una volta assunti i dipendenti debbano assumere un nuovo nome, sembra suggerire la perdita di identità quando si è solo un numero tra tanti, come accade nelle grandi aziende, ed al contempo l'importanza di ricordare le proprie radici, perché quando ci dimentichiamo delle nostre radici diventa molto più facile impadronirsi di noi per qualcuno che desidera manipolarci. Haku infatti raccomanda a Chihiro/Sen di non dimenticare mai il proprio vero nome, come è accaduto a lui, perché insieme ad esso spariranno anche tutti i suoi ricordi.


Haku, e l''importanza di ricordare le proprie origini


Un'altra riflessione che ci offre Miyazaki sul mondo del lavoro è quella data dal contrasto tra Yubaba e la sua gemella Zeniba, la sua gemella buona verrebbe da dire, anche se più che gemelle paiono i due volti di una stessa persona. Ed in effetti, sotto un certo punto di vista è proprio così: Yubaba rappresenta la persona immersa fino al collo nel mondo del lavoro, mentre Zeniba rappresenta la pacifica vita domestica, e lo vediamo soprattutto quando Chihiro e Senza Volto si recano da lei, e trascorrono il tempo con una buona tazza di tè ed aiutandola col cucito. Non si tratta solo di due tipologie di vita contrapposte, ma anche talvolta della scissione che esiste all'interno di un'unica persona, che può essere altamente aggressiva e competitiva sul lavoro, quanto mite e gentile nella vita privata.

Trattandosi poi di Miyazaki, non poteva mancare un messaggio ecologico, e questo avviene quando alle terme si presenta un ospite che pare solo un enorme ammasso di spazzatura e sporcizia, così rivoltante che quasi volevano impedirgli di entrare. Lui però avanza inesorabile, e così lo indirizzano verso la vasca riservata ai casi disperati come quello, affidando l'ospite sgradito all'ultima arrivata, cioè la nostra Chihiro/Sen, la quale comprenderà che l'ospite non è davvero così come si è presentato: da qualche parte, gli si è incastrata addosso niente meno che una bicicletta, che ha ostruito tutto continuando ad accumulare sporcizia. Pian piano, tutti si uniscono a Sen ed unendo le forze riescono a tirar via i cumuli di detriti, liberando quello che si rivela lo spirito di un fiume, che finalmente torna ad essere limpido e felice. Anche questa scena è ispirata alla quotidianità dell'autore, che (almeno all'epoca del film) dava regolarmente una mano a tenere pulito il fiume che scorreva vicino casa sua e dal quale davvero, una volta, lui ed i suoi vicini tirarono fuori una bicicletta che vi si era incagliata. Il fatto che servano gli sforzi di tutti per ripulire lo spirito del fiume, sembra dirci che soltanto con una partecipazione collettiva sarebbe possibile vedere risultati concreti nel mondo che abitiamo.

Chihiro, Senza Volto & Zeniba


Infine, l'ultimo messaggio importante è il tema della crescita. A rappresentarlo abbiamo Chihiro, ma anche la sua controparte personificata da Bo, che incarna proprio l'immaturità. Arrogante e prepotente perché costantemente vezzeggiato e viziato dalla madre Yubaba, anche a lui basterà seguire Chihiro - anche se trasformato in un grasso e stupito topo - nelle sue avventure per scoprire un principio di crescita e di indipendenza. Ma l'evoluzione più significativa è sicuramente quella di Chihiro, e la si nota soprattutto nella differenza tra la scena iniziale e quella finale, entrambe nell'automobile dei genitori: se all'andata Chihiro era annoiata, capricciosa e si lamentava in un modo tipicamente infantile, al ritorno è molto più matura, serena e consapevole di sé, tanto da non preoccuparsi affatto per la nuova vita o l'ingresso in una scuola nuova dopo il trasloco, che erano le cose che prima la preoccupavano. L'esperienza all'interno de La città incanta l'ha cambiata, l'ha fatta crescere e maturare come un vero percorso di formazione.

Una cosa molto bella è che una delle possibili chiavi attraverso cui leggere questo film è quella della gentilezza. Dall'inizio alla fine, infatti, nonostante le difficoltà o nonostante non sempre tutti la accolgano benevolmente, Chihiro è gentile ed educata con tutti, e sarà ripagata da questo suo approccio sincero avendo alla fine tutti i dipendenti dei bagni termali dalla sua parte, sinceramente affezionati.

L'ho trovato un film semplicemente bellissimo, sia visivamente che per tutto il resto - dai temi trattati al modo in cui Miyazaki li ha veicolati. Il mio personaggio preferito, non so nemmeno perché, sarà sempre Senza Volto, che mi ha sia fatta sorridere coi suoi modi ed il suo filo di voce, sia mi ha stretto il cuore in una morsa di tenerezza per la sua solitudine e la ricerca di compagnia, pur non sapendo bene come chiederla. Subito dopo, c'è ovviamente Chihiro, col suo coraggio, la sua gentilezza che non discrimina nessuno e la sua capacità di adattarsi ed affrontare al meglio ciò che le capita lungo il percorso.

La città incantata ha vinto l'Orso d'oro al Festival di Berlino nel 2002 e l'Oscar come miglior film di animazione nel 2003. Se l'avete visto, sarei curiosa di sapere cosa apprezzate di più di questo film così denso di elementi e tematiche, mentre se non lo conoscete ancora spero di avervi invogliato a recuperarlo al più presto!










sabato 25 aprile 2020

La principessa Mononoke, Hayao Miyazaki (1997)

Netflix ha fatto l'ennesima cosa buona e giusta per i suoi abbonati: inserire nel proprio catalogo, un po' alla volta, i film dello studio Ghibli. Trovandoseli davanti, come resistere alla tentazione di guardarli e - in alcuni casi riguardarli - tutti? Impossibile, dal mio punto di vista, ecco perché ho deciso di istituire (qui in casa mia, s'intende) le Friday Ghibli Nights. Il che significa che ogni venerdì sera sarà impegnato con la visione dei più bei film d'animazione giapponese. Abbiamo cominciato proprio ieri con La principessa Mononoke, uscito nelle sale nipponiche il 12 luglio dell'ormai lontano 1997, e che ancora vanta in patria uno dei più alti incassi al botteghino, secondo solo a Titanic

Ho chiesto al piccolo pubblico di Instagram se poteva interessare una mia opinione in merito a questi film, ogni sabato, e mi è stato risposto di sì. Avevo pensato di farlo in un format più immediato proprio attraverso il social, ma mi sono resa conto ben presto che è impossibile - o comunque sarebbe troppo riduttivo - parlare dei film di Miyazaki e dello studio Ghibli in maniera così riassuntiva. Perciò eccomi qui, pronta a dilungarmi in un post senza limiti di spazio.


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Ashitaka in groppa a Yakul

E' un giorno come tanti, nel pacifico villaggio del popolo Emishi, quando un cinghiale dalle proporzioni enormi arriva all'improvviso determinato ad attaccare. La gente, in particolar modo uno degli anziani, capisce subito che l'animale deve esser posseduto da uno spirito maligno. Il loro principe, il giovane Ashitaka, non esiterà a battersi per proteggere il suo popolo e pur riuscendo ad uccidere la bestia riporta sul braccio una brutta ferita. Non una ferita qualunque, purtroppo, ma una maledizione inflittagli dallo spirito maligno, che lentamente gli avrebbe corroso le carni fino all'osso conducendolo ad una morte sofferta. Consultandosi con gli anziani, il ragazzo comprende che la sua unica possibilità è quella di lasciare il villaggio ed il popolo Emishi, e di incamminarsi verso Ovest dove forse - si dice - potrebbe trovare una cura. Ed è così che, quella notte stessa, Ashitaka parte in groppa al suo fedele e dolcissimo stambecco, Yakul.


San, la principessa Mononoke, e Lady Eboshi

Il suo pellegrinaggio lo conduce alla Città del Fuoco, una città piuttosto particolare dove le donne sembrano avere un ruolo dominante, e dove infatti è una donna a governare, l'ambiziosa e spietata Lady Eboshi. E sono sempre le donne a lavorare nella fucina, cuore pulsante della Città di Fuoco, mentre gli uomini sono per lo più mandriani o svolgono lavori simili. La fucina, per essere alimentata, necessita di costante materia prima ed è per questo che gli abitanti di questa città - e Lady Eboshi in particolare - si stanno appropriando un pezzo alla volta della foresta. Anche altri popoli nutrono lo stesso desiderio di espansione, ma vengono puntualmente sconfitti dalle potenti armi degli abitanti della Città del Fuoco. Nella foresta vive San, la principessa Mononoke (principessa Spettro, in italiano) abbandonata quando era solo una neonata, è stata allevata dai lupi e vive a tutti gli effetti come una di loro. San e Lady Eboshi sono da tempo impegnate in un'aspra guerra, che rappresenta ovviamente la lotta tra uomo e natura: se l'uomo usa la violenza sulla natura per egoismo e tornaconto personale, la natura risponde con altrettanta violenza al fine di difendersi.
Ashitaka si troverà coinvolto in questo doloroso scontro, ma non si schiererà mai con una fazione o con l'altra. La sua imparzialità rappresenta la possibilità dei due poli di coesistere, di trovare un punto d'incontro per convivere armoniosamente. Uno dei messaggi fondamentali del film, infatti, è proprio la necessità di ritrovare un equilibrio tra uomo e natura da troppo tempo perduto, e che questa sia in realtà l'unica strada possibile affinché la vita che conosciamo continui ad esistere.

L'ambientazione del film è molto significativa, poiché Miyazaki ha scelto il periodo Muromachi, che va dal 1336 al 1573 e che potremmo definire come una sorta di "medioevo" giapponese. Dopo millenni di armonia, durante i quali l'uomo aveva vissuto nelle terre del Sol Levante senza deturparle, il rapporto idilliaco con l'ambiente viene incrinato - come storicamente è sempre accaduto - da un principio di industrializzazione: l'epoca Muromachi fu infatti il momento in cui il Giappone cominciò la sua modernizzazione, introducendo l'uso del ferro e la creazione di nuove armi, molto più pericolose e potenti di quelle che erano esistite fino ad allora. La Città del Fuoco ed i suoi abitanti sono la perfetta rappresentazione di questo momento.


Il dio-bestia della Foresta, in una delle sue forme

Tale ambientazione è ovviamente arricchita da numerosi simboli ed elementi ripresi dal folklore tradizionale giapponese. Abbiamo perciò la Natura, meravigliosamente espressa dalla Foresta, un luogo incantevole abitato dal dio-bestia, che potremmo definire la personificazione stessa della natura. Questa creatura, pressoché impossibile da descrivere a parole, di giorno assume la forma chiamata shishigami e di notte un'altra, definita daidarabotchi. Egli presenta fattezze che ricordano animali di specie diverse, ed un volto scimmiesco con dei tratti umani. La complessità del suo aspetto sembra suggerire che il dio-bestia sia il riassunto di tutte le cose, diventando anche un simbolo di come la diversità possa mescolarsi in un risultato armonioso. Il modo in cui si comporta rispecchia proprio l'idea che potremmo avere di una divinità giusta e saggia: pur avendo in sé la capacità di decidere sulla vita e sulla morte, nonché un potere smisurato che sarebbe capace di spazzare via gli umani usurpatori in un secondo, il dio-bestia interviene raramente. Continua a conservare e mostrare serenità anche quando i colpi inferti alla Foresta si fanno più violenti, e sembra essere presente come uno spettatore, al di sopra di tutte le cose, che lascia che il destino si compia, agendo solo quando una sua azione si rende inevitabile.


I Kodama, adorabili spiritelli degli alberi

La Foresta è poi abitata dai Kodama, vivaci spiritelli che nel folklore nipponico sono considerati gli spiriti degli alberi. Un luogo, quando loro vi abitano, è considerato fertile e prospero e per questo abbattere un albero, che è la loro casa, porta sfortuna a chi si macchia di questa azione. Nel film, infatti, ce ne sono tantissimi all'arrivo del principe Ashitaka, ma man mano che la Foresta subisce i soprusi della guerra tra uomini ed animali se ne vedono sempre meno, fino al momento in cui tutto pare troppo silenzioso perché i Kodama sono spariti.

San in groppa alla lupa madre

E veniamo poi agli animali: ad abitare la Foresta sono in particolare tre specie. I lupi, i cinghiali e gli oranghi. Spesso le tre fazioni si trovano in disaccordo, ma avendo come obiettivo comune quello di salvare la propria Foresta ed essendo tutti mossi dal rancore e dal desiderio di vendetta verso gli umani, riescono di volta in volta a trovare il modo di collaborare, o quanto meno di non scontrarsi apertamente, a differenza di quanto sanno fare gli uomini spesso accecati dall'egocentrismo. Un'altra cosa che caratterizza questi animali è il fatto che sono tutti rappresentati come creature maestose, di dimensioni giganti ed imponenti, soprattutto la lupa madre ed il dio-cinghiale.

Un esempio dei tratti violenti che distinguono
La principessa Mononoke dagli altri film dell'autrore

La principessa Mononoke è il sesto film scritto e diretto dal maestro Miyazaki ed è interessante notare come si discosti, per alcuni tratti significativi, dal resto della sua filmografia. Uno di questi riguarda sicuramente la violenza: le immagini sullo schermo si fanno spesso più crude di quanto lo studio Ghibli ci avesse abituati, gli scontri sono accesi, dalle ferite sgorga abbondantemente sangue rosso e vivido, le morti non vengono risparmiate; l'altra differenza importante, riguarda la rappresentazione degli animali. Le creature "non umane" di Miyazaki hanno quasi sempre un aspetto dolce, tenero, ma soprattutto caratteri ed atteggiamenti benevoli, senza alcuna traccia di lati oscuri - pensate solo a Ponyo, a Totoro, ai vari gatti che compaiono nei film. Qui, invece, pur essendo fondamentalmente buoni gli animali sono a loro volta mossi da sentimenti negativi, in particolar modo dall'odio e dalla sete di vendetta sugli umani usurpatori. Perciò, anche se il loro obiettivo è indiscutibilmente giusto e legittimo, si potrebbero invece mettere in discussione i sentimenti che li dominano.

E così si viene alle altre questioni che secondo me emergono dal film. Oltre al già abbondantemente citato rapporto tra uomo e natura, viene portato sullo schermo anche il classico divario e scontro tra bene e male cominciato all'alba dei tempi e che esiste non soltanto in generale, ma anche all'interno delle singole cose e creature. Entra perciò in gioco il discorso del libero arbitrio, affinché il bene non sia solo bene in quanto tale, ma divenga piuttosto il frutto di una scelta di chi decide di agire in un senso o nell'altro. Ed è proprio questo il lato che ho trovato più interessante, perché rende i personaggi molto più complessi di quanto si potrebbe pensare a primo impatto: anche se così sembrerebbe, non si può etichettarli nettamente come buoni o cattivi, poiché racchiudono in sé elementi di luce e di buio.

San, ad esempio, pur lottando per una causa più che giusta, è spinta a combattere più dal desiderio di vendicarsi e dall'odio verso gli umani che da sentimenti positivi. Inoltre, non bisogna trascurare il fatto che lei rinnega la propria natura, al punto da usare un travestimento per combattere che la camuffa, dandole sembianze animalesche. Anche tu sei umana, le ricorderà più volte Ashitaka, ma lei rifiuta di riconoscersi come tale. E se questo è comprensibile, dato che è stata abbandonata dalla sua specie originaria, resta comunque un elemento che conferisce oscurità, complessità e contraddizione al suo personaggio, che è altrimenti facile vedere come eroina dal momento che combatte in prima linea per la causa giusta.

Stesso discorso, anche se al contrario, va fatto per Lady Eboshi, senza dubbio la cattiva della situazione, colei che in capo al suo popolo sta concretamente usurpando la natura. Ma bisogna anche riconoscere che è un ottimo capo per la sua città, che ha creato casa, lavoro ed opportunità per persone che forse non ne avevano. Per lei infatti lavorano persone affette da uno stadio avanzato della stessa maledizione/malattia che ha colpito Ashitaka, che per questo sono tutte avvolte in fasce, chi senza gambe, chi senza braccia, chi ormai non può far altro che starsene sdraiato ed attendere la fine. E' proprio uno di loro che, con un fil di voce, racconta come Lady Eboshi sia stata l'unica a prendersi cura di persone come loro, medicandoli e dandogli ancora un posto nel mondo. Lady Eboshi è anche, chiaramente, una rappresentante del femminismo, la quale ha creato come già accennato una società in cui le donne hanno un ruolo attivo e quasi dominante. Di contro, personifica anche l'ambizione umana, pronta a tutto pur di realizzare i propri scopi.

Fa eccezione, in questo senso, Ashitaka. Lui è l'unico a "non avere gli occhi offuscati dall'odio", è un eroe buono che si distingue - anche da altri eroi tipici - per una fermezza nel modo di agire che fa risaltare la sua completa neutralità rispetto le cause degli uni e degli altri, un super partes degno del massimo rispetto, che può per questo svolgere il suo ruolo di tramite tra due nemici dichiarati come San e Lady Eboshi, come l'uomo e la natura. Non è un caso, secondo me, se il suo fedele stambecco Yakul è a sua volta l'unico animale che non mostra mai alcun segno di aggressività, neanche quando viene ferito ad una coscia da una freccia, e l'unica cosa che vuole fare è comunque seguire il suo umano, nel segno dell'amore e della fedeltà reciproca che li lega. Ashitaka rappresenta il senso più puro di giustizia, che non si piega alle ragioni degli uni o degli altri, ma è sempre una ed una soltanto.

La conclusione del film resta coerente col pessimismo generale dell'opera, ma lascia degli spiragli di speranza. La guerra tra uomo e natura arriva a compimento, e le conseguenze dovrebbero essere d'insegnamento a tutte le parti coinvolte. Il dio-bestia viene ucciso dagli uomini, scatenando la sua implacabile furia, quietata grazie a San ed Ashitaka; la Foresta sembra rinascere dal suo spirito, ma il fatto che dio-bestia non esiste più sembra suggerire che non ci sarà una seconda chance. Gli animali più maestosi, ovvero la lupa madre di San ed il dio dei cinghiali, hanno perso la vita nello scontro e la stessa Lady Eboshi ha perso un braccio. Starà a lei, ora, organizzare la sua città senza più nuocere all'ambiente che la circonda.

Molto bello, infine, che Ashitaka e San riconoscano di volersi bene, ma che nessuno dei due sacrifichi la propria natura. San è una selvaggia, e non potrebbe rinunciare alla sua vita coi lupi, mentre Ashitaka è un umano, e non sarebbe in grado di vivere alla sua maniera. Ti raggiungerò a metà strada, le dice lui, segno che i due giovani continueranno ad essere il punto d'incontro tra Uomo e Natura.



E nelle scene finali, comunque, compare un Kodama.














lunedì 23 marzo 2020

E' stato così, Natalia Ginzburg

Due anni fa lessi finalmente il più famoso romanzo di Natalia Ginzburg, Lessico famigliare, e sfiderei qualsiasi lettore - specie se amante della miglior letteratura nostrana - a restare indifferente - per non dire a non innamorarsi perdutamente - della prosa della Ginzburg, ma soprattutto del suo sguardo sul mondo, della sua sensibilità, della sua capacità di riassumere entro il confine delle parole il sapore di un'intera epoca, la grandezza di una persona o i suoni di una casa. In Lessico famigliare l'autrice racconta non la sua vita, quanto le cose e le persone e i rumori ed i colori che le son stati attorno, quasi che lei fosse una spettatrice incaricata di restituirci i vezzi, gli accenti, le abitudini, i pregi ed i difetti delle personalità che la circondavano. E ciò che la circondava non era solo la famiglia d'origine, già di per sé interessantissima, ma anche ad un certo punto una certa famosa casa editrice torinese, da sempre vestita in bianco, ed ecco che allora la Ginzburg ci fa il regalo più grande, raccontandoci come camminava Cesare Pavese, della sua abitudine di mangiar ciliegie d'estate e dei discorsi che si tenevano alla sera tra lui, il marito Leone Ginzburg e altri nomi di spicco della cultura italiana. Ma questa è un'altra storia.

Un'altra storia fino ad un certo punto, perché è difficile separare il nome della Ginzburg da quello di Pavese, se non altro per il fatto che furono non solo contemporanei, ma per lungo tempo colleghi nelle stanze dell'Einaudi, scrivendo e leggendo ognuno alla propria scrivania a distanza di un tiro di schioppo. Forse per questa vicinanza, forse semplicemente perché figli dello stesso tempo, forse perché le loro opere furono spesso pubblicate a poca distanza l'una dall'altra, ma più di una volta i loro lavori vennero comparati, messi a confronto, giudicati l'uno in relazione all'altro: è il caso, ad esempio, di E' stato così e Il compagno di Pavese (sul quale, non avendolo letto, non posso dire la mia). Nonostante questo, tra Pavese e la Ginzburg non ci fu mai competizione, furono anzi legati da profonda amicizia e la sua scomparsa fu per Natalia un altro dei tragici eventi che colpirono la sua vita privata. Cesare Pavese fu tra i primi a promuovere E' stato così, secondo romanzo da lei scritto, raccomandandolo per una pubblicazione a puntate sul quotidiano romano L'Italia Socialista, proprio a scapito de Il compagno originariamente scelto dal direttore Aldo Garosci. Scrisse Pavese:
Caro Garosci, | ti abbiamo telegrafato di pubblicare Natalia. (...) oltre al fatto che Natalia ha tre figli da mantenere e io no, ci è parso - oggettivamente - che sia più opportuno un racconto dove il lettore dimentichi la politica (...) Sono anche certo che E' stato così servirà a far leggere il giornale a gente che normalmente non lo leggerebbe.
 E' stato così è un monologo in prima persona. La voce è quella di una donna ed una delle prime frasi che si leggono è: "Gli ho sparato negli occhi."
Ad essersi preso quel colpo di pistola è Alberto, marito della protagonista e voce narrante, che resterà per tutte le 84 pagine soltanto una voce. Lei non si presenta mai, se non attraverso la sua storia, e resterà una figura di donna senza nome. A proposito di quel colpo di pistola, la Ginzburg scrisse nel 1964: "Il colpo di pistola è nato dal caso. Desideravo scrivere e trovai un colpo di pistola, e gli andai dietro." (Che meraviglia questo modo di raccontare un'ispirazione, la scelta del verbo trovai in questa frase mi ha incantata per giorni). In una conferenza tenuta nello stesso anno, disse che la scelta di aprire il romanzo con un atto di violenza fu dovuta probabilmente all'atmosfera del momento, e che se per qualche motivo avesse dovuto riscriverlo non era affatto certa che la protagonista avrebbe sparato quel colpo. Il romanzo è infatti del 1947, non solo l'immediato dopoguerra ma anche tre anni appena dopo la morte del marito Leone, ucciso nel carcere romano di Regina Coeli in seguito alle percosse subite dai carcerieri nazisti. E questa morte tragica e brutale fu solo la conclusione di anni difficili, fatti prima di confino e poi di prigionia. Dal giorno del suo arresto, avvenuto il 20 novembre 1943, a quello della morte (5 febbraio 1944) Natalia non vide più suo marito. 

Dopo un breve periodo a Roma, Natalia era tornata a vivere a Torino:
Avevo ritrovato Torino, la nebbia, il grigio inverno e i muti viali dalle panchine deserte. Questo racconto E' stato così lo scrissi tutto nella sede della casa editrice dove allora lavoravo. Era subito dopo la guerra e c'erano stufe di terracotta molto fumose, perché gli impianti dei termosifoni, distrutti nella guerra, non funzionavano ancora. Questo racconto è intriso di fumo, di pioggia e di nebbia.
E dice poi, riguardo il proprio stato d'animo mentre scriveva:
Mentre scrivevo non mi curai di sapere se nella donna che dice "io" c'ero o non c'ero io stessa. Perché ero molto infelice e lasciavo che la mia infelicità pascolasse dove le pareva. (...) non si trattava per me di diventare meno infelice, ma di riuscire a scrivere a malgrado della mia infelicità (...).
Natalia Ginzburg

Per il lettore, quel colpo di pistola sparato nella sesta riga della prima pagina è il punto di sutura del racconto, perché per tutte le pagine che seguono sarà consapevole di come si concluderà quel matrimonio di cui la protagonista vuole ora con calma spiegarci e spiegarsi tutto - da come erano i suoi giorni prima di incontrare Alberto, a come è nata quella specie di affetto a forza di passeggiare e sedere assieme nei caffè, a come diventarono marito e moglie e come arrivò, lei, a sparare quel colpo. La protagonista esce di casa lasciando dov'è il corpo senza vita del marito, va a sedersi su una panchina nel parco, cammina, entra in un bar e prende un caffè, torna alla panchina; e intanto, per quelle che devono essere ore lunghissime, dispiega mentalmente tutta la propria storia - così che saprà farsi ascoltare quando poi andrà in questura, dove chiederà che la lascino parlare. Ma forse, in realtà, è solo a se stessa che ha bisogno di raccontare tutto per filo e per segno.

Questo espediente narrativo ha creato sin dall'inizio un parallelismo nella mia mente, quello con La mite di Dostoevskij. La differenza è che nel racconto dell'autore russo, all'incirca della stessa lunghezza di E' stato così, il narratore - che è un uomo - non ha ucciso la moglie, almeno non nel vero senso della parola: di molti anni più giovane di lui, e con una vita miserevole alle spalle, la mite si è suicidata, lasciando il marito a raccontarsi il loro rapporto da cima a fondo in cerca di una spiegazione per quella fine violenta, proprio come fa la protagonista della Ginzburg.

Ridotta all'osso, la storia di E' stato così è quella di un matrimonio sbagliato come tanti, partito con i presupposti sbagliati, che sembra un triste fatto di cronaca come al telegiornale se ne sentono purtroppo ogni giorno - quei casi in cui poi intervistano i vicini di casa ed i baristi del quartiere che sottolineano quanto i coniugi tal dei tali fossero una bella coppia, due persone così gentili, normali e nessuno si spiega come possano essersi un bel giorno annientati a vicenda. Se scavassero a fondo sotto anni di quotidiana infelicità, come fa la Ginzburg in queste pagine, potrebbero forse intravederne le ragioni - che non servono a giustificare, ma soltanto a spiegare.


La grandezza di E' stato così sta - oltre che nello stile della sua autrice - nella costruzione psicologica dei personaggi. La Ginzburg non fa descrizioni precise e minuziose, né dell'aspetto fisico né dei tratti caratteriali. Ad esempio di Alberto, nelle prime pagine, la protagonista dice:
(...) e mi tremava il cuore ogni volta che vedevo un uomo piccolo con un impermeabile bianco e una spalla più alta dell'altra.
E poi:
(...) e i riccioli grigi intorno al viso magro e il piccolo corpo gracile nell'impermeabile bianco che andava nella città.
E' tramite la ripetizione di questi dettagli - i riccioli grigi, il corpo gracile, l'impermeabile bianco - che il lettore riesce ad immaginare quanto basta la figura di Alberto. La Ginzburg ne tratteggia abilmente i contorni, perché essendo lui un irresoluto, un carattere interno ben definito non ce l'ha. Alberto è un irresoluto in tutto: da sempre innamorato di un'altra donna, Giovanna, già sposata quando si sono conosciuti, resta in balia di questa situazione, sostanzialmente aspettando che lei gli faccia un fischio per stare insieme; inizialmente rifiuta l'amore della protagonista sostenendo di non potersi legare a nessun altra donna, poi torna sui suoi passi - forse per ripiego o forse per avere anche lui, come Giovanna, una vita sua dalla quale escluderla - ma continuando, anche da sposato, a dividersi tra Giovanna e la moglie, mentendo in continuazione a se stesso e agli altri, senza costruire nulla di vero né da una parte né dall'altra. E la stessa irresolutezza vale per tutto il resto:
Disegnava ma non era mai diventato pittore e suonava il pianoforte ma non gli era mai riuscito di suonar bene, era avvocato ma non aveva mai avuto bisogno di guadagnarsi da vivere e per questo se anche non andava all'ufficio non poteva succedere niente di grave.
La protagonista, dal canto suo, non è in fondo tanto più forte o determinata di lui. Appare al contrario una di quelle persone che, essendo incapaci di far accadere le cose, si lasciano trasportare dagli eventi e dalle decisioni degli altri, covando rancori e dispiaceri in maniera passivo-aggressiva fino ad arrivare a situazioni estreme, come quella di impugnare una rivoltella e sparare. Non era sicura che Alberto le piacesse, ma continua a frequentarlo perché era meglio che star sola alla pensioncina dove aveva una camera in affitto; aveva il doppio dei suoi anni, se pensava di baciarlo o andarci a letto l'idea la ripugnava, ma si diceva che forse all'inizio è così per tutte le ragazze. Sapeva bene che c'era un'altra donna nella sua testa e che difficilmente avrebbe potuto scacciarla, ma si rassegna a chiudere un occhio sulle tante misteriose partenze del marito, continuando in silenzio ad avvelenarsi il sangue.

 Di tutt'altra pasta è fatta sua cugina Francesca, di diversi anni più giovane ma con parecchia più esperienza del mondo e soprattutto degli uomini. Lei sarà la prima - ed unica - a non vedere di buon occhio quel rapporto e consiglierà alla protagonista, ogni volta che potrà, di lasciarlo perdere. Inutile dire che non verrà ascoltata e le due cugine avranno, proprio per questa differenza di mentalità, un rapporto fatto di alti e bassi, pur costituendo una sorta di punto di riferimento l'un per l'altra. Francesca è un personaggio originale e variopinto all'interno del racconto, che rappresenta la modernità:
- Ho avuto molti amanti, - ha detto, - prima uno a Roma quando mi provavo a recitare. Mi ha chiesto di sposarlo e ho tagliato la corda. Non lo sopportavo più dopo un paio di volte. L'avrei buttato giù dalla finestra. Ma allora ero spaventata di me. Dicevo: cosa diavolo sono? una puttana sono, che mi piace tanto cambiare? Fanno molta paura le parole quando siamo giovani. E anch'io credevo allora che mi ci volesse un marito e una vita come tutte le donne. Ma invece a poco a poco ho capito che non bisogna pigliare le cose sul tragico. Dobbiamo accettare noi stessi così come siamo.
Infine c'è Augusto, migliore amico di Alberto con cui la protagonista potrà aprirsi più che col marito benché all'inizio tra i due non vi fosse simpatia; e persino la misteriosa Giovanna farà la sua apparizione sulle pagine, dicendo una delle cose più sagge contenute nel libro:
E' difficile sapere cosa vogliamo e siamo scemi da giovani.
E la vita comincia che siamo troppo giovani per capire.
Sebbene si conoscano in partenza certi eventi salienti, altre esperienze intercorrono nel racconto, esperienze cariche di speranze che si trasformano invece in sciagura, preparando il campo ad un tragico epilogo che pure si è rivelato diverso da quanto mi aspettavo.

Ottantaquattro pagine sufficienti a contenere una tragedia, un dramma familiare in un atto solo. La scrittura di Natalia Ginzburg si conferma bellissima, di quelle che proprio piacciono a me, capaci di costruire intere e nitide immagini usando soltanto e sapientemente la potenza dei dettagli.



Un abbraccio,
a qualche metro di distanza.

Julia







lunedì 16 marzo 2020

Senza nome, Wilkie Collins

Era il 1862 quando Wilkie Collins, dopo il successo di Basil e La donna in bianco, tornava a far compagnia ai lettori inglesi con un nuovo romanzo, intitolato Senza nome. Ancora una volta, il suo pubblico restò appeso ad un filo per un anno intero, aspettando di mese in mese che il capitolo successivo venisse pubblicato sulla rivista All The Year Around, diretta dal celebre collega ma soprattutto caro amico Charles Dickens.

Il lettore contemporaneo è per fortuna salvo dal patimento dell'attesa alla fine di un capitolo avvincente, e può bearsi di Senza nome nella sue gloriose 800 pagine tutte insieme, presentate in una nuova bellissima veste da Fazi Editore nel 2015.

Credo che una persona normale, sapendo di andare incontro ad un periodo ricco di impegni che lascerà ben poco tempo ed energie da dedicare alle proprie passioni, avrebbe scelto di affrontare letture più brevi ed agevoli; all'inizio dello scorso febbraio invece, io ho guardato le mie librerie e fatto proprio il ragionamento opposto: sarò spesso stanca, stressata e sotto pressione - mi son detta - i momenti che riuscirò a dedicare alla lettura saranno sicuramente pochi, ma voglio che quei momenti mi facciano immergere dalla testa ai piedi in un altrove. Il miglior altrove che mi è venuto in mente, è stata la mia amatissima Inghilterra vittoriana e, memore dell'esperienza più che positiva del mio primo incontro con l'autore, avvenuto leggendo La donna in bianco, ho deciso di buttarmi su Senza nome.


Senza nome è la storia di due giovanissime sorelle - appena diciottenne l'una, di un paio d'anni più grande l'altra -, Norah e Magdalen Vanstone, che dopo un'infanzia ed un'adolescenza come tante, vissute in seno ad una famiglia amorevole nella tranquillità di Combe Raven - questo il nome della grande proprietà che era la loro casa - si vedono catapultare nella vita adulta nel più triste e più violento dei modi. Una serie di sfortunati eventi - è proprio il caso di dirlo - le priva dall'oggi al domani di tutto ciò che hanno sempre avuto e conosciuto: improvvisamente orfane, perdono assieme agli amati genitori anche il nome che avevano fino ad allora portato, e di conseguenza anche tutto ciò che per diritto sarebbe loro spettato - l'eredità paterna, la casa e tutti i beni in essa contenuti. Le figlie pagano loro malgrado le colpe dei genitori, che fino a poco prima di andarsene tragicamente non erano legalmente sposati, all'insaputa di tutti coloro che gli son stati vicini per una vita intera, come Mrs Garth, arrivata a Combe Raven  come istitutrice per le bambine e poi rimasta come governante della casa, ed ora unico punto di riferimento per le giovani Vanstone, relitti infelici di un'esistenza perduta. Mrs Garth si offre di ospitarle presso la scuola diretta da sua sorella a Londra, dove potranno trovare momentaneamente vitto e alloggio e cercare poi un impiego come istitutrici private presso le buone famiglie inglesi.

Norah e Magdalen sono quanto di più diverso si possa immaginare, mi hanno ricordato almeno per quanto riguarda l'opposizione dei caratteri le sorelle austeniane di Ragione e Sentimento: tanto Norah è introversa, controllata e pacata, quanto Magdalen è al contrario esplosiva e preda delle proprie emozioni. Non stupisce quindi che anche alla tragedia subita risponderanno in maniera totalmente diversa: Norah non pensa neanche per un secondo di potersi ribellare o di poter fuggire dalla situazione in cui si trova, e seguendo le istruzioni di Mrs Garth si impegna a fare l'istitutrice privata; Magdalen, invece, non aspetta un secondo prima di fuggire e di cominciare senza neanche avere le idee chiare o un progetto preciso a lavorare per ottenere quello che fin da subito ha sentito essere il proprio dovere: riportare l'eredità paterna nelle legittime mani, ossia le sue e quelle di sua sorella Norah, non tanto per amor della ricchezza, quanto verso quel caro padre che in una lettera vergata poco prima di morire scriveva come non avrebbe potuto riposare in pace se non avesse risolto quella faccenda e non avesse saputo le sue figlie al sicuro da ogni cosa. Tutti i beni paterni sono finiti nelle mani di uno zio che né Magdalen né Norah hanno mai conosciuto, essendo il loro papà in cattivi rapporti con la propria famiglia di origine da prima che loro nascessero; ed è proprio a causa di quegli antichi dissapori che l'anziano zio rifiuta categoricamente di avere pietà delle nipoti, vedendo nell'intera vicenda il meritato risarcimento che secondo lui gli spettava per riparare ai danni causatigli dal fratello minore. 

L'avaro ed anziano zio Vanstone viene ben presto a mancare, ma la situazione non migliora poiché l'eredità passa interamente nelle mani del suo unico figlio, Noel Vanstone, un essere gracile e malaticcio che nutre dei sentimenti solo verso i beni materiali. Rimasto senza il padre, Noel Vanstone continua a vivere con Mrs Lecount, governante di origini svizzere da sempre al loro servizio, intelligente, astuta, malvagia e capace di comandare a bacchetta Noel Vanstone senza che egli se ne renda conto.

Magdalen, nel frattempo, sola nella grande città, viene ben presto rintracciata da un mezzo parente della defunta madre, un capitano che per tutta la vita non ha fatto altro che campare di stratagemmi e di sotterfugi, definendosi un agricoltore morale: un modo elegante per dire furfante di professione. Pur diffidando di tutti, e di quest'uomo in particolare, non avendo posto dove andare od anima viva a cui rivolgersi, Magdalen decide di seguire il capitano Wragge, iniziando così quella che sarà una lunga convivenza con lui e con la moglie, Mrs Wragge, gigantessa buona col cervello un po' lento, che si affezionerà profondamente a Magdalen e che sarà per molto tempo l'unica creatura a smuovere in lei sentimenti sinceri, sempre più dura ed infelice a causa dei passi che si costringe a compiere pur di portare a compimento il dovere che si è auto-imposta.

La parte centrale del romanzo, ed il cuore dello stesso, è un lungo ed inesauribile duello tra due schieramenti: da una parte Magdalen ed il capitano Wragge, dall'altra quel fantoccio di Noel Vanstone manovrato e protetto da Mrs Lecount. In particolare, il capitano Wragge e Mrs Lecount costituiranno l'un per l'altra un degno nemico, come mai ne avevano incontrati in precedenza e si sfideranno a suon di astuzia senza esclusione di colpi. Il movente di Magdalen resta sempre solo ed unicamente rendere giustizia alla memoria dei propri genitori, quello del capitano Wragge è la ricompensa in denaro che gli spetterà per i servizi resi qualora vincano la battaglia - anche se finirà sorprendentemente con l'affezionarsi davvero a Magdalen -, quello di Mrs Lecount è preservare integro il patrimonio del suo padrone per salvaguardare i propri interessi.  



Appena terminata la lettura, mi son resa conto di non sentirmi poi così entusiasta o appagata come mi sarei aspettata, ed inizialmente mi son detta che doveva essere a causa mia, che avevo sicuramente scelto il momento sbagliato per leggere un romanzo così corposo, e che la lettura così incostante e diluita nell'arco del mese doveva averne inficiato il risultato. Poi, con calma, mi sono accorta che non era affatto così e che c'erano effettivamente delle cose che non mi erano piaciute.

Innanzi tutto, Senza nome è troppo lungo. Non l'ho mai detto a proposito di un libro ed è un commento che mi fa quasi orrore mettere nero su bianco, perché per me i libri non sono mai troppo lunghi, specie i grandi classici o quelli di autori che, a prescindere dalla materia, sanno narrare, e Collins è di sicuro tra questi. Però - e credo sia quasi oggettivo - in Senza nome si avverte un qualcosa di troppo: non sarei in grado di prendere dei paragrafi o dei capitoli e dire "di questa parte se ne poteva fare a meno", ma gli intrighi, il continuo tramare da un lato e dall'altro, lo scoprire le carte di qua solo per poi mescolarle e complicare ulteriormente di là o non è abbastanza avvincente da non farmi stancare mai sino alla risoluzione finale, oppure Collins stavolta ha davvero allungato troppo il brodo. Non c'è dubbio che l'originale pubblicazione a cadenza mensile sortisse tutto un altro tipo di effetto, e che forse Senza nome essendo nato per esser letto in quel modo risenta negativamente dell'essere un tomo fatto e finito; tuttavia, ne ho letti diversi di romanzi nati a puntate - tra cui anche La donna in bianco - e non avevo mai riscontrato questo tipo di problema. A questa eccessiva lunghezza si accompagna per contro un finale che ho trovato sbrigativo e troppo semplicistico.

Ancor peggio, dal mio punto di vista, è il fatto che ho avuto l'impressione che Senza nome mancasse totalmente di originalità, e questo è stato l'elemento che mi ha delusa più di tutto, perché La donna in bianco  si regge su una narrazione geniale che non fa che stupire il lettore ad ogni svolta sino alla fine. Mi sono chiesta se sono io ad aver accumulato troppa esperienza con questo tipo di romanzi e che ormai conosco certe dinamiche come le mie tasche, o se Senza nome è effettivamente fuori tempo massimo per poter stupire il lettore contemporaneo. Fatto sta, che tutti i risvolti di trama importanti mi erano chiari fin dal primo accenno e mi hanno quindi lasciata abbastanza tiepida o indifferente. L'unico evento che effettivamente non mi aspettavo (spoiler: la morte di Noel Vanstone) è avvenuto a) troppo, troppo repentinamente e b) è lampante che all'autore questo evento servisse per mandare avanti la trama ed è quindi niente più che una scelta di comodo.

Infine - e questo è un pensiero molto soggettivo - a me è dispiaciuto perdere di vista personaggi presenti solo nella parte iniziale - quella ancora ambientata a Combe Raven - di cui si avranno per il resto del romanzo solo sporadiche notizie. Mi riferisco ad esempio a Mr Francis Clare, uno dei pochi vicini di casa che nonostante la propria misantropia non era riuscito a resistere all'affabilità di Mr Vanstone, il padre di Norah e Magdalen, col quale era nata discussione dopo discussione una bellissima e bizzarra amicizia. Mr Francis Clare è un filosofo cinico ed aveva tutte le carte in regola per essere uno dei miei personaggi preferiti, se non fosse appunto che ha pochissimo spazio. La sua sparizione dalle pagine è ovviamente giustificata dalle circostanze, poiché le protagoniste allontanandosi da Come Raven perdono i contatti con tutto ciò che resta lì, compreso Mr Francis Clare. Molto meno sensato, secondo me, è la pochissima attenzione data al personaggio di Norah. Magdalen si fa certo protagonista di avventure ben più avvincenti, e capisco che Collins abbia voluto puntare su di lei la luce del palcoscenico; tuttavia, io ero molto interessata a Norah nella prima parte del romanzo, e credo che sarebbe stato più interessante alternare i capitoli facendoci vedere anche come se la stava passando lei nel frattempo. Anche perché, seppur la sua quotidianità poteva essere più normale e meno ricca di eventi, Norah ha subito gli stessi identici traumi e le stesse ingiustizie subite da Magdalen e tra le due fa una scelta non meno difficile: in fin dei conti si tratta di una ragazza che dopo una vita nella bambagia accetta di tirarsi su le maniche e inizia a fare i conti con un mestiere non semplice, avendo a che fare con bambine viziate o famiglie pronte a criticare ogni suo gesto. Insomma, secondo me dedicare un po' di spazio in più a Norah avrebbe alleggerito anche quella sensazione di eccessiva lunghezza di cui parlavo prima, data forse dal fatto che alla lunga le scaramucce tra il capitano Wragge e Mrs Lecount stancano.

Quindi, in definitiva, Senza nome è un brutto romanzo? No, certo che no, sempre perché Wilkie Collins è autore abilissimo, tanto nell'uso delle parole quanto nella costruzione delle trame e nella caratterizzazione dei personaggi. Certo è che non consiglierei mai a qualcuno che vuole avvicinarsi alla sua bibliografia per la prima volta di cominciare da questo titolo: La donna in bianco è cento volte superiore in tutto, comprese le tematiche di fondo. In Senza nome, infatti, si nasconde una denuncia sociale, quella della condizione dei figli illegittimi che - come accade a Norah e Magdalen Vanstone - non avevano alcun diritto secondo la legge vigente all'epoca in Inghilterra. Come ben sappiamo, Collins era un avvocato che non esercitò mai la professione, ma fece largo uso delle competenze giuridiche acquisite all'interno dei propri romanzi. In questo senso Senza nome non fa eccezione, ma purtroppo non è riuscito a farmi capire fino in fondo la gravità del problema che intendeva denunciare, perché mi sembra di aver ricevuto al riguardo troppe poche informazioni, o di essermi distratta troppo con la vicenda delle protagoniste col risultato che anche la questione dei diritti degli illegittimi mi pare un espediente narrativo, più che un grave danno realmente vissuto all'epoca - e sicuramente non solo - da molti individui.

Il mio apprezzamento per la penna di Collins non è diminuito dopo questa esperienza poco entusiasmante. Del resto è stato un autore talmente prolifico che qualche basso nella sua produzione non fa che renderlo umano. A buon rendere, caro Wilkie!






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