giovedì 15 marzo 2018

Luce d'estate ed è subito notte, Jon Kalman Stefansson

Le parole sono il mio pane quotidiano. Quale che sia l’argomento, sono abituata ed allenata ad argomentare, a trovare qualcosa da dire al riguardo, a rifletterci su per esprimere un parere personale. Sono una di quelle irritanti persone che hanno un’opinione su tutto. Non ho mai l’intenzione di imporre le mie idee agli altri, questo proprio mai, ma se sono a mio agio con l’interlocutore sono in grado di dire la mia su (quasi) qualunque cosa. Quello che sto cercando di dire è che difficilmente rimango senza parole. A volte dico “Sono senza parole” in tono indignato perché è la risposta che meglio si adegua al racconto di una persona sconvolta da qualche evento incorso nella sua vita personale, ma non è vero che sono senza parole, forse non voglio deludere le aspettative della persona che, al suo racconto, si aspetta in cambio adeguata amarezza, e dire che quanto ascoltato ci ha lasciati senza parole fa sempre un certo effetto, specie se lo diciamo scuotendo la testa, magari con le labbra rivolte all’ingiù per dare un tocco di delusione alla nostra espressione facciale. Però non è vero che sono senza parole. Piuttosto forse non m’interessa poi molto approfondire l’argomento, o la triste realtà è che quanto quella persona ha detto non ha destato in me alcun sentimento degno di nota né un vero senso di empatia, e allora dico sono senza parole, soddisfacendo le aspettative del narratore e traendomi d’impaccio, perché di solito all’affermazione di essere senza parole segue a) un proseguimento del racconto, senza richiedere grande partecipazione da parte nostra se non qualche cenno di assenso di tanto in tanto; b) la conclusione dell’argomento, ormai tronfio e soddisfatto da quello sterminio lessicale.

L’unica cosa veramente capace di togliermi la facoltà di dire la mia è il puro senso di meraviglia. Non riesco nemmeno a fare esempi per descrivere cosa sia il puro senso di meraviglia, ma sono certa che capirete perfettamente ciò di cui sto parlando. Quel tipo di meraviglia che provò l’uomo quando accese il fuoco, o ancor di più quando per la prima volta alzò la testa al cielo notturno, osservò le stelle invece di preoccuparsi delle sue necessità primarie, e si fece delle domande. Quella roba lì. Il pugno allo stomaco, un impasto di tristezza e felicità, l’entusiasmo verso l’infinito e lo sgomento per la consapevolezza di essere al contrario così imperfetti e finiti. Cose grandi finemente sminuzzate, messe in un sacchetto antigelo, scuotere bene e piazzare sullo stomaco. Mentre scrivo continuo a pensare alle stelle, perché si parla spesso di stelle in Luce d’estate ed è subito notte di Jon Kalman Stefansson, un libro che mi ha fulminata leggendo la trama, poi letto il primo capitolo ho detto “mah, boh”, e poi mi ha tolto le parole, tutte, dalla prima all’ultima: non me ne è rimasta neanche una, e sono rimasta così piccola, finita, imperfetta e senza parole.

Luce d’estate ed è subito notte è un racconto corale ambientato in un paesino sperduto nella selvaggia Islanda, un microcosmo di quattrocento anime concentrate nel minuscolo villaggio e sparse per le isolate campagne circostanti. E’ un posto talmente insignificante che qualcuno che passa in macchina o un telefono che squilla è un evento, che fa correre tutti alle finestre, soprattutto d’inverno, l’inverno lungo avvolto nel buio e nella neve costante. Alcuni sanno trovare la felicità nella routine e nella vita sempre uguale a se stessa, altri non ce la fanno proprio e se ne vanno lontani, eppure alla fine tornano tutti, perché c’è sempre qualcosa che ti lega al posto da cui vieni, anche se ti sta stretto più di un paio di scarpe di due numeri più piccoli, anche quando non c’è proprio niente da fare e d'inverno fa buio presto.

In questo libro c’è un imprenditore di successo che manda all’aria la propria vita perfetta per comprare costosissime prime edizioni in latino di libri di natura scientifica, scritti da gente morta milioni di anni fa come Galileo o Cartesio. Aveva una casa grande, macchine enormi, due bravi figli e la moglie più bella del mondo; adesso vive da solo, isolato, in una casa di lamiera col tetto dipinto a mo’ di cielo stellato. Conosce i misteri dell’universo, parla fluentemente latino ed in latino riceve misteriose lettere da tutto il mondo. E’ accaduto tutto nel giro di due mesi, ormai va avanti da dieci anni. Lo chiamano l’Astronomo, una volta al mese tiene una lezione in paese per chiunque voglia partecipare. In quelle occasioni ci si chiede se il pazzo sia lui, che ha abbandonato tutto per questioni superiori come la filosofia e l’Universo, o tutti gli altri che per certe cose non hanno tempo, bisogna mandare avanti la vita quotidiana. Nessuno sa esattamente di cosa campi l’Astronomo.

Poi ci sono le donne. L’impiegata della posta che legge tutto ciò che passa per le sue mani, c'è una donna autoritaria ma bellissima che va regolarmente a nuotare, con qualsiasi clima e temperatura – dice che rinvigorisce lo spirito e la mente – e gli uomini la guardano col cannocchiale; c’è sua sorella più giovane, altrettanto bella ed ancor più schiva, è l’unica che sa veramente cosa faccia l’Astronomo ma per molto tempo non sappiamo esattamente cosa faccia lei, fin quando non torna un giovane ragazzo dai tratti slavi e con una casacca che lo fa sembrare un prete – è uno di quelli che non ce la facevano a restare in un posto dove non succede niente, perciò se n’era andato e non si era più fatto vedere per sei anni, ma poi era tornato perché c’è sempre qualcosa - o qualcuno - che ti lega al posto da cui vieni.

C’è un ragazzino bianco e fragile, figlio di un uomo grande e grosso che sembra un vulcano. Ma forse il vulcano, che è un poliziotto ma fa anche il falegname, è in realtà più fragile del ragazzino pallido, che nella vita passa la scopa sul pavimento della Latteria e osserva meravigliato le innumerevoli specie di volatili che attraversano i cieli islandesi.

Ci sono un uomo e un ragazzo – il ragazzo è il figlio dell’Astronomo – che lavorano insieme al Magazzino. Sono una bella coppia, ricordano un po’ quei tasselli inseparabili come le coppie dei comici della tv o del cinema. L’uno senza l’altro non funzionerebbero proprio, ma questi qui forse non sono amici per la pelle né tanto meno fanno sbellicare dalle risate il lettore. Sono anzi piuttosto malinconici, l’uno fugge nel sollievo dei sogni e delle fantasticherie che trova nel dormiveglia, l’altro combatte i suoi fantasmi rimpinzandosi di cibo. A proposito di fantasmi, è proprio con questi che i due avranno a che fare, perché siamo in un piccolo villaggio di quattrocento anime, dove ci si annoia e ci si racconta leggende, e qualche superstizione è inevitabile.

C’è un uomo che vive da solo nella sua fattoria e quasi non ha contatti con nessuno se non per qualche rara partita a scacchi. Una volta aveva avuto una moglie, ora ha soltanto il suo cane. Passa il tempo lavorando, guarda la tv, beve il caffè, legge dei libri. Sta bene e poi comunque c’è il suo cane. Solo qualche volta lo coglie il vago sospetto di sentirsi solo, ma la buona volta che viene qualcuno a trovarlo – anche se si tratta di una ragazza altissima dal buonumore contagioso – si innervosisce e pensa a quanto sta bene in compagnia del suo cane. Fino al giorno in cui davanti alla sua porta è rimasta una valigia, e lui è andato a Londra dove non puoi neanche allungare una mano senza rischiare di toccare qualcuno, ed ha pensato a quant’è bella la sua terra, dove puoi spalancare le braccia quanto vuoi senza toccare niente e nessuno. A Londra c’è stato meno del previsto, tempo di scrivere delle cartoline confuse in cui ringrazia i venti della Groenlandia, che se non fosse per quelli lei non esisterebbe, ed a quel punto nemmeno le mummie di quattromila anni fa avrebbero avuto alcun senso.

C’è un camionista che si chiama Jakob e che dentro di sé non ha ombre. Ha una moglie paffuta coi capelli scoloriti, alla quale lui dice - pensandolo nel profondo del cuore – sei bella e lei arrossisce ogni volta, anche se sono sposati da tanto tempo. Ogni anno fanno un viaggio a bordo del camion, sempre nello stesso periodo, ed in quell’occasione sono talmente felici che ci si sente felici soltanto a guardarli. Probabilmente in quel giorno anche Dio si prende un giorno di ferie, per sedersi in mezzo a loro ed inebriarsi della loro gioia. Che sollievo che esistano ancora persone così, senza segreti e senza ombre.

Forse il motivo per cui Luce d’estate ed è subito notte è riuscito a lasciarmi senza parole è che nelle vene mi scorre anche sangue dell’estremo nord e ritrovo in questo libro un senso lontano di casa e di nostalgia, che fin dal titolo mi avvolge del calore dei ricordi: l’anno spaccato in due, mesi in cui c’è solo luce e mesi in cui c’è solo buio; ma sapeste che bello, che luci in ogni caso, sia d’estate che d’inverno. O forse l’esser rimasta senza parole ha a che fare solamente con la scrittura di Stefansson, un tipo di prosa che mi parla oltre ogni presupposto logico e concreto, una prosa poetica che mi solleva da terra e mi porta in un viaggio lungo cento vite. Quel tipo di prosa che non ti permette d’interrogarti su quanto stai leggendo: è un atto di fede. Accetta di seguire il narratore, di credere a ciò che dice per quanto assurdo possa sembrare, oppure lascia stare. Con questo non voglio dire che Stefansson abbia raccontato in questo libro qualcosa di surreale, al contrario è bellissimo perché – fantasmi a parte – racconta come ogni uomo ed ogni donna, a prescindere dal loro aspetto, dalla loro posizione e condizione sociale, dai milioni di tratti che contraddistinguono le personalità di ognuno, sono poi nudi, fragili e soli di fronte alla vita, alla morte, all’amore ed al dolore.

Forse solo l’Astronomo fa eccezione, e forse è anche per la figura dell’Astronomo che sono rimasta senza parole. Perché sono abbastanza folle e credo a tal punto nel potere e nel valore della cultura umanistica occidentale che capisco perché l’Astronomo abbia abbandonato tutto per dei vecchi libri in latino, e c’è la scena di un momento intimo tra l’Astronomo e suo figlio in cui esce a galla una verità per me straziante, che mi ha fatta sentire proprio come l’Astronomo: felice e triste, con la testa pesante di tutto quello che può contenere la testa di un uomo.

I nomi dei personaggi sono difficili per noi da pronunciare, molti son scritti con lettere che non abbiamo proprio idea a quali suoni corrispondano. Ma non importa, un nome è un dettaglio poco importante, a distanza di tempo non ricorderò alcun nome, ma non dimenticherò nessuno dei loro sogni e delle loro ferite. Sono una lettrice che sottolinea spesso i propri libri, se incontro una frase che mi colpisce o un paragrafo al quale vorrò tornare. Non mi capita quasi mai, invece, di appuntare note e pensieri. Stavolta è successo, ho sentito il bisogno di scrivere di getto certi pensieri e certe impressioni sul libro stesso – pazienza se questa confessione farà inorridire chi non riesce a sottolineare un libro neanche a matita. C’è una pagina i cui margini sono fitti fitti della mia calligrafia, impressa sulla carta da una penna bic nera. La mia copia di questo libro è veramente mia, ha acquisito un valore speciale per me, è diventata una specie di scatola con dentro la tristezza e la felicità ed una manciata di stelle. Stelle e putrefazione. Che bella combinazione, eh? Così ha detto l’Astronomo, una volta, e non poteva trovarmi più d’accordo.

Dire che vi consiglio questo libro non mi è mai sembrato più superfluo, ma leggetelo solo se siete disposti a lasciarvi prendere per mano senza farvi troppe domande, se accettate di stare per un po’ al ritmo lento di un paesino minuscolo e al contempo immenso come questo qui, di cui non so neanche il nome ma non importa, perché quel che conta è tutto il resto. E’ una storia che inizia dicendo che in questo villaggio non c’è neanche una Chiesa né un cimitero, ma è una di quelle storie che potrebbero benissimo iniziare con

C'era una volta...

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 Info: l'edizione che ho letto io era il primo numero della collana I Boreali, una selezione del catalogo editoriale Iperborea che stanno regolarmente uscendo in edicola, al prezzo di 8, 50 euro, in allegato al Corriere della SeraQui lo store online, il catalogo completo ed il calendario delle uscite. Vi consiglio vivamente di approfittarne per fare una scorpacciata della grande letteratura del nord!

sabato 10 marzo 2018

Beate e suo figlio, Arthur Schnitzler

Arthur Schnitzler, 1862-1931

Sono tornata ad uno dei miei autori preferiti, lo scrittore-medico viennese Arthur Schnitzler del quale vi ho già parlato diverse volte, per la precisione recensendo la sua opera più conosciuta, ovvero Doppio sogno – da cui è tratto anche il film capolavoro di Stanley Kubrick, Eyes wide shut – ed il breve ma intensissimo racconto Geronimo il cieco e suo fratello. Vi invito a dare un’occhiata ai post che scrissi allora – ve li ho linkati appositamente – perché in quelle occasioni mi presi il tempo di raccontarvi qualcosa anche dell’autore e del particolare rapporto che lo legò a Sigmund Freud: i due erano contemporanei, vivevano e lavoravano nella capitale austriaca, eppure si stimarono reciprocamente a cortese distanza senza mai incontrarsi. E’ difficile introdurre un’opera di Schnitzler senza accennare a questi fatti, senza spiegare ai lettori che forse non lo conoscono come le sue storie siano immerse, intrise, affogate nel fango degli aspetti più torbidi della psicologia umana. Schnitzler ci mette con le spalle al muro, ci spoglia delle nostre maschere e ci costringe a guardare proprio in quegli angoli bui in cui evitiamo accuratamente di addentrarci. 

Ogni essere umano impara a capire, nella vita, che dentro ci portiamo una certa quantità di ombre. Quanto siano oscure e pericolose, e quanto vengano percepite dall’esterno, questo dipende dal nostro vissuto, dal nostro carattere, dal modo in cui impariamo o meno a gestirle. Ma tutti abbiamo zone oscure che faremmo volentieri a meno di frequentare – invece Schnitzler prendeva un foglio, la sua penna e metteva nero su bianco parole che avrebbero costretto i suoi lettori a fare i conti con la pericolosità di certi pensieri, con le conseguenze di certe azioni, col baratro che è pronto a spalancarsi se per un attimo smettiamo di stare attenti. E come se tutto questo non bastasse, la penna di Schnitzler va spesso a colpire quanto per le persone c’è di più caro: i rapporti personali, i legami affettivi, quelli che dovrebbero essere il punto fermo delle nostre precarie esistenze, il caposaldo nella confusione dei giorni peggiori, l’unico barlume di purezza in un mondo spesso troppo sporco. Invece no, Schnitzler cancella una dopo l’altra tutte le bugie e le illusioni che sappiamo crearci riguardo le persone a noi care ed il rapporto che faticosamente e con cura cerchiamo di costruire con esse; anzi, è proprio lì che si annidano i segreti più loschi, che stanno in agguato le sofferenze maggiori!, sembra sussurrarci l’autore tra una riga e l’altra. Il rapporto di coppia in Doppio sogno, il rapporto tra fratelli  in Geronimo il cieco e suo fratello, ora persino quello intoccabile tra una madre e suo figlio.



Ve lo dico subito, Beate e suo figlio è il libro di Arthur Schnitzler che finora mi ha coinvolta meno e mi è piaciuto meno, ma ciò vuol dire ben poco visto che il livello di apprezzamento delle opere precedenti è altissimo. Anche questa volta il libro è breve – 124 pagine, anche se piuttosto fitte – ambientate in una località di villeggiatura dove la quotidianità scorre placida, il tempo sembra quasi fermo e gli impegni son quelli di poca reale importanza, come cene, partite a tennis o a carte, sortite notturne in barca sulle acque immobili di un lago. Il luogo sembra incantevole e piccolo, quasi autosufficiente e sospeso nel nulla, se non fosse per quei minimi richiami che lo ricollocano nel nostro mondo, come la ferrovia e la stazione o la posta. I villeggianti appartengono tutti alla borghesia medio-alta, qualcuno ha titoli aristocratici, si conoscono tutti perché sono gli stessi da anni. La nostra protagonista si chiama Beate, è una donna di mezza età, vedova di un famoso ed amatissimo attore di teatro e madre di Hugo, un ragazzo di diciassette anni bello, sano e studioso. Beate è sicuramente una donna affascinante, più di un uomo nella cerchia di persone che frequenta non fa mistero di essere attratto da lei, ma lei, Beate, sembra essere irriducibilmente fedele alla memoria del marito, unico uomo ad aver posseduto il suo amore ed il suo corpo e del quale continua a sentire un’incolmabile nostalgia.

Nelle storie di Schnitzler, per quanto ho letto sinora, la vita dei protagonisti scorre nella sua normalità, fino a quando non sopraggiunge un elemento disturbante che getta il seme del dubbio, sconvolgendo quella normalità, ribaltandola e rigirandola fino ai limiti del possibile. Gli esiti variano di volta in volta: la crisi, per quanto profonda, può rivelarsi utile e portare alla crescita ed al miglioramento; oppure, al contrario, può essere fatale e condurre soltanto a desolazione e dolore.

Ecco, in questo caso l’elemento disturbante è una donna, la contessa Fortunata. Donna matura e voluttuosa, sposata ma sempre sola. C’è qualcosa nella persona di Fortunata che porta Beate a covare dei sospetti nei suoi confronti, e contestualmente un visibile cambiamento nel suo adorato Hugo, all’improvviso così chiuso e solitario, così attento a rifuggire le attenzioni materne. La sensibilità femminile di Beate le suggerisce di stare attenta, i segnali le dicono che Fortunata ha messo gli occhi su suo figlio e pian piano si convince che il suo Hugo, ancora così giovane e innocente, rischia di diventare – se non lo è già diventato – l’amante della contessa.
Beate affronta Fortunata faccia a faccia e se il confronto non le reca forse tutto il sollievo in cui poteva sperare, a fornirglielo ci penserà l’arrivo di un caro amico di Hugo, Fritzl. Grazie alla sua compagnia ed alla sua allegria Beate vedrà Hugo tornare quello di sempre, affettuoso e sorridente, impegnato in escursioni ed altre sane attività col suo compagno. Tutto risolto, quindi? No, perché Beate cederà al disperato desiderio mostrato da Fritzl nei suoi confronti. Fritzl, amico e coetaneo di suo figlio – e lei, Beate, non molto più giovane della contessa Fortunata.
In questo gioco subdolo e malizioso, dove ogni attore custodisce i suoi segreti, c’è spazio per svelare anche quelli del passato e nelle notti solitarie Beate può confessare a se stessa che forse in realtà quel defunto marito, il grande Ferdinand Heinold, lei non l’ha mai amato: ha amato profondamente ed appassionatamente tutti gli altri uomini che lui era stato, Cyrano, Amleto e Re Lear e tutti gli altri – ma non lui, non davvero, no. E certe conversazioni sussurrate portano alle sue orecchie un altro dubbio: la possibilità che lei per lui non fosse stata l’unica, come sempre aveva creduto. Che forse il suo eroe, il suo immortale marito, l’avesse tradita.
Un baratro si apre sull’altro nella mite esistenza di Beate e purtroppo difficilmente potranno richiudersi. Salvare suo figlio e salvare se stessa, questa diventa la missione in quello che invece doveva essere solamente un piacevole periodo di vacanza.
Queste sono le spaccature dell’animo umano che ha voluto mettere in luce Schnitzler in Beate e suo figlio, come si ricuciono e se si ricuciono è qualcosa che ovviamente vi lascio il gusto di scoprire affrontando personalmente la lettura. Tuttavia, se non avete mai letto prima questo autore vi sconsiglierei di cominciare da questo racconto: pur avendovi ritrovato l’inconfondibile impronta, a mio parere lo scavo psicologico in Beate e suo figlio è meno forte e meno sconvolgente rispetto agli altri due libri che ho letto; forse la storia mi ha coinvolta di meno o forse non sono entrata sufficientemente in empatia col personaggio di Beate. Non sono rimasta profondamente turbata come invece mi era accaduto con Doppio sogno e con Geronimo il cielo e suo fratello. Se invece siete già dei lettori di Arthur Schnitzler, allora Beate e suo figlio è sicuramente un tassello da aggiungere alla vostra esperienza di lettura.



sabato 3 marzo 2018

Cosa ho letto dall'inizio dell'anno fino ad ora


Ebbene sì, miei cari lettori, quella che state per beccarvi è una carrellata di tutte le letture che ho affrontato dall'inizio del 2018 sino ad oggi (ecco il prezzo da pagare per i miei lunghi silenzi: altrettanto lunghe carrellate di commenti ed opinioni su libri più o meno belli!). Per rassicurarvi, posso dirvi che non ho intenzione di fare un post chilometrico, sarò rapida e concisa anche perché - per il momento - non ho ancora letto poi così tanti libri ed alcuni di essi son letture davvero brevi, di quelle che un lettore veloce consuma in una sola seduta. Senza ulteriori indugi, cominciamo!


Titolo: Il giardino di Elizabeth
Autore: Elizabeth von Arnim
Traduzione: Sabina Terziani
Editore: Fazi
Pagine: 180
Prezzo: 16,50 euro
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Il mio anno di lettrice è cominciato alla grande, con la scoperta di questa autrice, Elizabeth von Arnim, che mi incuriosiva molto ormai da qualche anno. La sua opera è in gran parte pubblicata da Bollati Boringhieri, tuttavia mi sono convinta ad acquistare un suo libro solamente con le ristampe della Fazi Editore. Il giardino di Elizabeth è in effetti il primo libro pubblicato dall'autrice, quello con cui Elizabeth è diventata una scrittrice, o per meglio dire una scrittrice pubblicata perché - com'è evidente - lei una scrittrice lo era già. In queste pagine è infatti racchiuso un suo diario, un diario che la von Arnim ha tenuto mentre si occupava di ridare vita al giardino di una proprietà semi-dimenticata del marito, colui che nel suo diario lei chiama l'Uomo della collera, soprannome da cui è facile intuire quale simpatia lei nutrisse verso il consorte. Elizabeth trova in questa vecchia e sontuosa villa isolata un suo personale eremo in cui costruire una felicità frugale, campestre ed incomprensibile ai più. Qui lei si dedica al giardinaggio con la passione e la curiosità dell'autodidatta, legge indisturbata una quantità di libri, si bea della compagnia delle sue tre bambine - la bimba di Aprile, la bimba di Maggio e la bimba di Giugno - e talvolta di qualche ospite, più o meno desiderata. 
Non ci sono accadimenti avvincenti in queste pagine, nessuna storia che s'imprime nella mente del lettore; eppure penso che nessuna donna potrebbe restare indifferente all'ironia, squisitamente femminile, di cui la scrittura della von Arnim è pregna. Io, poi, ho capito di aver trovato in lei un'anima affine - come lei stessa direbbe - esattamente a pagina 35:


La frenesia di stare sempre in compagnia e la paura di rimanere soli sia pure per poche ore, non la capisco proprio. Io riesco a intrattenermi benissimo con me stessa per settimane di fila senza quasi accorgermi di essere sola se non per il senso di pace che mi pervade. (...) Per essere felice, chi viene a trovarmi deve possedere una ricchezza interiore; se è una creatura vacua, dalla testa e dal cuore vuoti, troverà tutto alquanto noioso.

Titolo: Allontanarsi (Saga dei Cazalet, quarto volume)
Autrice: Elizabeth Jane Howard
Traduzione: Manuela Francescon
Editore: Fazi
Pagine: 670
Prezzo: 20 euro
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Volendo andare sul sicuro e mantenere un livello di gradimento super alto, e soprattutto non riuscendo a vincere la nostalgia verso una delle famiglie ormai più amate in letteratura, sono tornata subito ad Elizabeth Jane Howard ed ai suoi Cazalet. Avendo dedicato un post ad ogni libro della saga, sapete bene ormai quanto io mi sia appassionata alle vicende di questa famiglia medio-borghese e, più in generale, allo stile di scrittura di questa fantastica autrice. In Allontanarsi nulla di tutto ciò vien meno, anzi, e come ogni altro libro della saga ha saputo distinguersi per sue caratteristiche particolari. Ad esempio ho trovato che in Allontanarsi il senso di staticità, quell'impressione di "ehi, non sta succedendo niente!" è ancora più accentuata, eppure di cose ne accadono in continuazione, e cose piuttosto importanti anche. Ho avuto l'impressione che in questo volume la Howard abbia spesso fatto il gioco di trasmettere le più sconvolgenti novità riguardo un personaggio da altre voci, di non farci quasi mai essere presenti mentre i fatti avvenivano: ci lascia in sospeso e solo in un secondo momento e solo tramite altri veniamo a sapere cos'è accaduto al nostro personaggio preferito. Capite cosa intendo? Può sembrare un metodo un po' macchinoso, invece le pagine scorrono come sempre fluide e leggere, difficile - impossibile - abbandonare un capitolo a metà, anche quando si rivela lunghissimo. Zoe resta il mio personaggio preferito su tutti, seguita a ruota da Polly e Clary. Tanto affetto in questo volume va anche a Cristopher - ho adorato le parti a lui dedicate - ed a Rachel, che finalmente ha saputo guardare oltre il suo naso, ascoltare ed ascoltarsi ed accettare la possibilità di essere felice. Grandissimo batticuore per il finale - non particolarmente inaspettato, per quanto mi riguarda, ma comunque apprezzatissimo.



Titolo: Amanti e regine - Il potere delle donne
Autrice: Benedetta Craveri
Editore: Adelphi
Pagine: 375
Prezzo: 14 euro
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A febbraio, complici gli sconti del 25% con cui la casa editrice Adelphi ha cercato di renderci tutti più poveri, mi sono regalata un saggio storico di cui avevo spesso sentito parlare, ovvero Amanti e regine di Benedetta Craveri. Negli ultimi tempi ho spesso avuto voglia di addentrarmi in una lettura a sfondo storico ed in questa ricerca avevo fatto qualche buco nell'acqua. Con il testo della Craveri, invece, ho finalmente trovato esattamente ciò che cercavo e, sebbene ci abbia messo del tempo per leggerlo, mi ha dato piena soddisfazione.
In questo saggio la Craveri ci porta alla corte di Francia, dal Cinquecento alla fine del Settecento, a seguire da vicino i passi e le evoluzioni delle donne che - arrivate come future regine o pian piano fattesi spazio come amanti - hanno gravitato attorno o vicino ai vari sovrani di Francia, spesso divenendo di fatto loro le vere regnanti nonostante il poco o nullo credito riservato alle donne. Da Caterina de' Medici a Diane de Poitiers, da Maria Teresa d'Austria e Madame de Pompadour, passando per Madame de Maintenon - che forse ha ispirato la favola di Cenerentola - fino ad arrivare all'ultima, splendida regina di Francia: Maria Antonietta. Sono tante le donne di cui la Craveri ci svela forze e debolezze, vizi, progetti, destini, ambizioni e sentimenti e ci lascia vedere attraverso i loro occhi anche i sovrani di Francia, sui quali splende ovviamente incontrastato Luigi XIV, il Re Sole - anche se devo ammettere di esser rimasta altrettanto affascinata dalle oscure ombre del suo successore, il bisnipote Luigi XVI. La ricostruzione storica dell'autrice è minuziosa e mai noiosa, ad ogni donna è dedicato un capitolo e la disposizione in ordine cronologico e narrativo fa di questa lettura quasi un romanzo. Si legge che è un vero piacere, e la cosa più bella è che nel mentre si impara - o si rinfresca la memoria, per chi avesse già una buona conoscenza della vita di corte francese - moltissime cose nuove. Stra-consigliato!



Titolo: Una rosa per Emily
Autore: William Faulkner
Traduzione: David Mezzacapa, Luciana Pansini Verga
Editore: Adelphi
Pagine: 99
Prezzo: 10 euro
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Un altro Adelphi, ma stavolta lo possedevo già ed anzi lo avevo persino già letto, nel marzo del 2015 c'è annotato a matita sulla prima pagina. Vi capita mai di leggere qualcosa talmente in fretta, o in un momento talmente sbagliato, che quel povero libro è quasi come non l'aveste mai letto? Beh, a me sì purtroppo, raramente ma capita ed ho notato che capita con libri particolarmente brevi. E' probabile che io mi lasci talvolta ingannare dalla brevità, quasi che la brevità fosse un permesso ad andar di fretta, un esonero dal soffermarsi a comprendere e riflettere. Ma non è affatto così, un libro minuscolo può contenere universi - o per lo meno significati universali, e lo so bene, ed è per questo che se commetto un tale errore presto o tardi ci torno, a quel piccolo libro incompreso cui non ho dato abbastanza tempo per parlarmi. E' il caso di Una rosa per Emily, il mio primo e ad oggi unico approccio al rinomatissimo autore americano William Faulkner. Una rosa per Emily contiene tre brevi racconti, che in comune hanno l'ambientazione - un paesino della provincia americana - ed il narratore esterno, una voce che spesso si esprime in prima persona plurale - noi - proprio per sottolineare la coesione degli abitanti del paese nel raccontare le sventure di quelli che evidentemente sono outsider della comunità. Il primo racconto è Miss Zilphia Gant, che racconta l'amore morboso di una madre verso sua figlia, la quale verrà infettata dalla morbosità materna e che la riverserà a modo suo nella sua vita adulta; segue il racconto che dà il titolo alla raccolta, Una rosa per Emily, dove Emily è un'irriducibile vecchina della quale nessuno può varcare le soglie della sua casa e dei suoi segreti sino al giorno della sua morte; infine abbiamo Adolescenza, dove protagonista è una ragazzina difficile, cresciuta in una famiglia disfunzionale verso la quale prova insopprimibili moti di rabbia, che agli albori dell'adolescenza viene spedita dalla nonna paterna. Presso la sua fattoria, tra lavori pesanti ed il tempo libero trascorso come una selvaggia in mezzo alla natura, Juliet - questo il nome della piccola ribelle - sembra trovare un suo equilibrio, fin quando non farà amicizia con un coetaneo e con lui passerà intere stagioni di inconsapevole felicità, fino al giorno in cui, sopra di loro, comparirà il volto incartapecorito dell'anziana nonna.
Ho apprezzato molto questa raccolta, mi sono piaciuti tutti e tre i racconti allo stesso modo, nonostante siano tutti e tre estremamente inquietanti, densi di un senso di desolazione e di ineluttabilità che non lasciano speranze - il tutto, però, trasmesso da una scrittura alta, altissima che mi lascia solo immaginare che cosa potrei trovare nelle opere più lunghe di Faulkner. Ho quasi paura.


Titolo: Daisy Miller
Autore: Henry James
Traduzione: Barbara Antonucci
Editore: BUR
Pagine: 125
Prezzo: 6,80 euro
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Ultimo libro di cui vi parlo in questa carrellata è il celebre Daisy Miller dell'autore americano naturalizzato inglese Henry James. Anche in questo caso è il mio primo approccio all'autore ed è un libro che aspettava da anni il suo turno di esser letto. Le mie aspettative erano cresciute non poco dopo il capitolo che Azar Nafisi aveva dedicato a questo testo all'interno del suo meraviglioso Leggere Lolita a Teheran, ma devo dire subito che le mie aspettative son state deluse. Ciò non significa che Daisy Miller non mi sia piaciuto: è una lettura piacevole, frizzante, leggerissima che si affronta in breve tempo e con molta tranquillità. Il personaggio che ci narra la storia è il giovane Mr. Winterbourne, americano da anni residente a Ginevra, in visita in una località balneare svizzera per andare a trovare una zia; qui fa casualmente la conoscenza di Daisy Miller, del suo scalmanato fratellino Randolph e della fin troppo cheta e passiva madre dei due. Anche i Miller sono americani, impegnati in un viaggio europeo necessario per la formazione dei due giovani. Daisy fa subito colpo su Mr. Winterbourne, prima di tutto per la sua bellezza e poi per il suo modo particolare e bizzarro di comportarsi ed esprimersi. La storia continuerà poi tra le bellezze, i salotti ed i ruderi di Roma, che sarà anche teatro delle incertezze di Winterbourne: Daisy non si comporta in quel modo esclusivamente con lui, ma anche con un gentiluomo - o presunto tale - italiano dal quale sembra ormai inseparabile. Le voci su Daisy Miller corrono implacabili già da tempo, al punto che qualche gentildonna già le volta le spalle ed evita di rivolgerle la parola. Mr Winterbourne si aggrapperà a qualunque cosa pur di continuare a credere nell'innocenza della fanciulla, ma fino all'ultimo sembra difficile discernere la verità. Chi è davvero Daisy Miller, com'è la sua personalità? E' davvero una civettuola di bassa lega, oppure la malizia è tutta negli occhi di chi guarda?
Sono questi sostanzialmente gli interrogativi posti da Henry James nel suo breve romanzo, e credo che il motivo principale per il quale esco da questa esperienza un po' insoddisfatta sia che ho avuto l'impressione che non ci venisse data una vera risposta, o forse ci è stata data ma a me non è bastata. Non sono stata capace di guardare oltre ciò che la parabola di Daisy Miller ci racconta, col risultato che per me è stato un libro piacevole da leggere, ma che non mi ha lasciato nulla di particolarmente significativo da custodire a lungo termine. 

Bene lettori e lettrici,
sono giunta finalmente al termine di questa veloce carrellata di mini-recensioni. Fatemi sapere nei commenti se avete letto qualcuno dei titoli di cui ho parlato e che cosa ne pensate voi, o se qualcuno di questi è nelle vostre wishlist.
Vi mando un abbraccio e vi auguro buone letture!


venerdì 2 marzo 2018

Aggiornamenti da un nuovo fronte

Ho fatto dei cambiamenti, come sicuramente noterà chiunque abbia frequentato il mio blog in passato. Ho fatto dei cambiamenti nell'esatto momento in cui, in passato, senza pensarci troppo su - senza tanta pietà - avrei chiuso il blog per poi ricominciare altrove, da zero e con abiti nuovi. Il semplice fatto che invece ho deciso di restare qui, e di cambiare un po' il volto del vecchio Tanto non importa, significa di per sé molto per me. Significa innanzi tutto che ci tengo a ciò che ho creato in questo piccolo spazio e che non vorrei proprio gettare tutto alle ortiche; significa, poi, che ho imparato a riadattarmi, a non dover avere per forza il foglio bianco per sentire di poter continuare. 

C'è stata un'altra lunga pausa, un altro lungo silenzio da parte mia che andrà a creare un vuoto - l'ennesimo - tra un mese e l'altro nell'archivio del blog. Come al solito è stata un pausa non del tutto voluta, ma forse necessaria - adesso me ne rendo conto - proprio per reinventarmi. Il risultato è innanzi tutto ciò che vedete, un semplice cambio di grafica ma soprattutto un nuovo nome per questo blog: In omnia paratus significa pronti a tutto ed è un affettuoso richiamo a Gilmore Girls. Le grandi fan come me ricorderanno sicuramente La brigata della vita e della morte, il gruppo di scapestrati amici di Logan e studenti di Yale, del quale Rory si convince a far parte superando una prova di coraggio: lanciarsi per svariati metri d'altezza (ovviamente con le dovute misure di sicurezza), in abiti eleganti e aggrappati ad un ombrello. 


In omnia paratus è il motto della Brigata, composta da giovani affamati di vita e di esperienze. Non so ben spiegare perché ho scelto proprio questo come titolo, ma lo adoro e lo sento decisamente mio. Gilmore Girls è senza dubbio la serie della mia vita, ci sono cresciuta (ho cominciato a seguirla a dodici anni circa) e come molte altre piccole appassionate lettrici il personaggio di Rory è stato un punto saldo in cui riconoscersi ed a cui ispirarsi. E' giusto che qui ci sia un piccolo tributo dedicato ad una storia che mi ha cosi tanto formata, ed è il titolo giusto anche per ciò che significa: non mi sento proprio pronta a tutto, ma voglio provare ad esserlo, voglio provare ad avvicinarmi a qualche obbiettivo un passo alla volta e soprattutto vorrei fare qualcosa di più con questa mia passione per la letteratura che mi ha spinta a creare questo spazio divenuto irrinunciabile nonostante i momenti d'incertezza e di scoraggiamento, quando sembra che tutti gli altri facciano meglio e riescano di più. E' difficile a volte evitare i paragoni ed è ancor più difficile, in questo momento storico in cui il video, l'immagine e la brevità della comunicazione prendono il sopravvento su tutto, credere fermamente che abbia ancora un senso dedicare tempo ed energie ad un blog, dove i caratteri eccedono qualsiasi limite, dove ci si perde in lungaggini che forse le persone non hanno più voglia - o tempo - di leggere con la dovuta calma e attenzione. Dubitare di questo però, pensare che una forma d'espressione come il blogging vecchio stampo abbia un posto nel presente e nel futuro, mi sembra un po' come dubitare della sopravvivenza dei libri alla tv, al formato audio e video. E ciò è nonostante tutto impensabile. Perciò sono di nuovo qui, e ho deciso piuttosto di dedicare maggiore impegno anche al mio profilo di Instagram - dove potete trovarmi come Inomniaparatus - e forse di aprire anche una pagina Facebook per il blog. E' una cosa a cui penso da molto in realtà, e sulla quale non sono ancora riuscita a decidermi per paura della mia incostanza. Magari fatemi sapere nei commenti cosa ne pensate! 

Nei prossimi giorni pubblicherò un post con una bella carrellata delle letture affrontate dall'inizio dell'anno ad ora, che non sono moltissime ma tutte davvero belle.
Spero che la nuova faccia del blog sia di vostro gradimento e che avrete voglia di continuare a seguirmi.

Un abbraccio!

Anna Karénina, Lev Tolstòj

Anna Karénina , Lev Tolstòj, Russia 1875-77 – ma anche qualsiasi altro luogo e tempo dacché esistono l’uomo e la donna. Il commento al rom...