mercoledì 30 agosto 2017

Manga | Letture di Agosto

E' arrivato il momento - ormai da me attesissimo - di parlarvi dei manga letti nell'arco del mese! Durante questo Agosto ne ho letti di meno perché mi sono concentrata di più sui libri, e poi non sono ancora passata a fare il pieno in fumetteria. Infatti sono indietro, sia come acquisti che come letture, con le serie che seguo, ma poco male perché tanto quando poi mi ci metto divoro anche un volume al giorno! Bando alle ciance, che il post sarà comunque bello lungo, e vai con la carrellata!


Il mese scorso vi ho ampiamente parlato di Bugie d'Aprile, di cui ho proseguito la lettura col quarto volume, che devo dire di aver trovato particolarmente emozionante.
Il protagonista, Kosei Arima, dopo esser tornato sul palco per la prima volta facendo da accompagnatore a Kaori, viene iscritto da quest'ultima al prestigioso concorso Maiho, indetto all'interno della scuola dove Kosei ha studiato sin da piccolo, e lui - nonostante le sue paure e titubanze - non può far altro che mettersi sotto e prepararsi al meglio. Quando il giorno del concorso mette piede nella scuola, tra i tanti partecipanti al concorso ci sono due ragazzi che, più di tutti gli altri, lo stanno aspettando. Kosei, infatti, è famosissimo non soltanto tra gli insegnanti, che lo ricordano come un bambino prodigio, una macchina da concorsi, ma anche tra i suoi coetanei musicisti. Per due di loro, l'incontro con Kosei è stato decisivo per la loro vita e la loro carriera, nonostante lui non ne abbia la più pallida idea e neanche sappia chi siano, perché da bambino percorreva i corridoi della scuola a testa china, schivando i tanti, troppi commenti che si facevano alle sue spalle riguardo l'eccessiva severità di sua madre. 
Emi e Takeshi, entrambi pianisti, sono i migliori allievi della scuola, e quando erano bambini monopolizzavano il podio assieme a Kosei: lui sempre al primo posto, loro due che si spartivano il secondo ed il terzo; per entrambi, e per motivi simili ma diversi, il momento in cui Kosei si era ritirato era stato un duro colpo, poiché veniva a mancare l'elemento con cui confrontarsi, il migliore tra i migliori che era di stimolo per andare avanti, per esercitarsi e studiare tanto. L'autore ci regala bellissimi flashback di quando questi due ragazzi erano bambini, e sia Takeshi che Emi erano rimasti folgorati da Kosei che suonava, decidendo a loro volta di diventare pianisti. Per Takeshi poi Kosei era rimasto l'obiettivo da raggiungere, nessun titolo e nessun premio per lui valevano tanto quanto competere con Kosei e, magari, batterlo e proprio nella speranza che Kosei tornasse Takeshi aveva rifiutato l'offerta di partecipare ad un'importante concorso in Germania (e dal momento che suonare in Europa sembri essere l'obiettivo principale tra questi artisti, il rifiuto di Takeshi è davvero una grande rinuncia). Dal canto suo Emi - un personaggio affascinante che mi è piaciuto moltissimo - nel momento in cui Kosei non si era più fatto vedere, aveva preso un andamento altalenante nelle sue performance: poteva sfiorare la perfezione, così come essere un disastro la volta successiva. La sua maestra la definisce lunatica e troppo in preda alle proprie emozioni, visto che una minima cosa che la infastidisce può rovinare la sua esecuzione. A tal proposito, è stato interessante poter vedere anche i due maestri dei ragazzi, che sono in competizione tra loro non meno degli allievi stessi (anzi, probabilmente di più, dato che il loro prestigio dipende dalla bravura dei loro studenti). 
Nel corso del volume vediamo anche molti flashback dell'infanzia di Kosei, del suo difficile rapporto con la madre e della severità (anche un po' di cattiveria, se vogliamo dirla tutta) con cui lei lo educava all'autodisciplina ed alla perfezione nello studio della musica. Davvero bello questo quarto numero, di cui più di tutto mi restano impressi Emi e Takeshi ed il modo in cui hanno sempre silenziosamente ammirato Kosei, con tenacia e fiducia che un giorno sarebbe tornato al suo posto al pianoforte.


Che sono diventata una lettrice di manga da praticamente un minuto e mezzo, lo sottolineo ogni volta che mi accingo a scrivere un post a tema; stavolta però era il caso di ribadirlo per far presente che, messo piede in questo mondo, l'elenco di titoli che vorrei recuperare è veramente imbarazzante. Non bastano le opere in corso o più recenti, ad attirare una novellina come me, ma dal passato bussano anche centinaia e centinaia di storie dall'aria così invitante che sembra veramente un peccato mortale non averle ancora conosciute. Purtroppo appena mi appassiono a qualcosa dentro mi scatta una fame di conoscenza che, se da una parte è molto bella e stimolante, dall'altra mi rende una persona ai limiti della pazzia. Per fortuna, incontro ai bisogni delle persone come me - o di chi, semplicemente, in passato non ha potuto acquistare fumetti - di tanto in tanto arrivano le sacrosante ristampe, come nel caso di Le situazioni di lui & lei, classico shojo dell'ormai lontano 1996, prima opera lunga di Masami Tsuda (la storia si articola infatti in ventuno volumi), precedentemente portata in Italia dalla Dynit; la nuova edizione è a cura della Planet shojo, con uscite mensili al prezzo di 4,90 euro. Titolo famosissimo tra gli amanti del genere e non solo, anche grazie all'omonimo anime che ne fu tratto nel 1998. Non avendo mai visto neanche quest'ultimo, approcciandomi al fumetto posso godere del tutto del piacere della scoperta.
La protagonista è Yukino Miyazawa, una ragazza alquanto particolare che investe tutte le proprie energie per apparire perfetta nel mondo esterno, specialmente tra le mura ed i corridoi della scuola. Bella, elegante, posata, studiosa, intelligente: le qualità di Yukino sembrano infinite e chiunque la incontri o la conosca non può far a meno di ammirarla e stupirsi di quanto sia eccezionale; peccato che, appena varcata la soglia di casa, Yukino subisca una brusca trasformazione: gli occhiali prendono il posto delle lenti a contatto, i capelli vengono incastrati tra fasce ed elastici, tutta la sua figura femminile scompare dentro il tutone della nonna; ma il cambiamento non è soltanto estetico, anzi. Persino i suoi familiari - la mamma, il papà e le due sorelline - sono spaventati dalla doppia faccia di Yukino, che pare abbia iniziato ad impegnarsi così a fondo per apparire perfetta agli occhi della società sin da quando frequentava l'asilo. Yukino ammette senza pudore di essere la persona più vanitosa dell'universo, la sua linfa vitale sono i complimenti e gli elogi delle persone che la circondano e pur di riceverli è disposta a sudare le fatidiche sette camicie. Studia come un'ossessa per essere la prima della classe, si dà ad allenamenti fisici clandestini per andar bene anche in educazione fisica ed avere una bella forma fisica, si lascia tanto andare in casa per quanto riguarda il suo aspetto ed il suo atteggiamento proprio per avere poi le energie necessarie ad essere bellissima ed educatissima appena esce nel vasto mondo.
Il suo strano equilibrio, che aveva funzionato perfettamente fino ad allora, viene intaccato al primo anno delle superiori, quando Yukino incontra Soichiro Arima, un ragazzo che sembra la sua esatta copia maschile: è bello, intelligente, studente modello, bravo in tutto ciò che fa, venerato da tutti i coetanei e stimato dagli insegnanti. Yukino inizia allora ad impegnarsi non tanto per portare avanti la sua farsa, quanto per battere Arima che - nelle sue fantasie - è in competizione con lei. 
In questo primo volume son contenuti tre capitoli, e già solo in questi succedono moltissime cose ed il rapporto tra i due protagonisti subisce piuttosto rapidamente più di un'evoluzione. Tale rapidità negli eventi non mi ha dato fastidio, come a primo impatto stavo temendo, perché il modo di narrare di Masami Tsuda è molto frizzante ed ironico, senza comunque tralasciare dei momenti più profondi e riflessivi. Il tema dell'essere se stessi è infatti quello centrale, un tema che ritengo sia davvero scottante in età adolescenziale, quando in un modo o nell'altro ci si vuole sentire integrati, parte di qualcosa, e pur di riuscirci si è disposti talvolta a soffocare il proprio vero io - che comunque, da adolescenti, si sta ancora cercando di capire quale sia, 'sto "vero io". La cosa più interessante poi è che i due protagonisti portano delle maschere in pubblico per ragioni completamente diverse: se Yukino finge per pura vanità ed è consapevole di essere ben altra persona rispetto a quella che fa vedere, Arima scopre di essere altro da ciò che lui stesso aveva sempre creduto soltanto nel momento in cui inizia ad interagire con Yukino e le sue motivazioni per cercare di essere il ragazzo perfetto sono di maggior spessore rispetto a quelle di Yukino. Comunque sia, il loro incontro è fondamentale per entrambi, perché rispecchiandosi l'uno nell'altra comprendono i propri errori e l'inutilità di perseguire un ideale a scapito della propria reale personalità. Dato l'andamento di questo primo volume, sono a questo punto molto curiosa di scoprire lo sviluppo non soltanto della storia, ma soprattutto della crescita dei protagonisti, che sono sicura avverrà volume dopo volume. 


Versione casalinga di Yukino
Venendo al disegno, il tratto dell'autrice nel complesso mi piace molto. Per quel che ho visto in questo volume, trovo che se la cavi meglio con i personaggi femminili (quanto è carina anche la mamma di Yukino? *-*), mentre quelli maschili li trovo un po' banalotti o comunque meno interessanti. Yukino in particolare è veramente ben caratterizzata, mi facevano morire le sue espressioni quando nessuno la notava così come tutte le scene in cui si mette in mostra la questione della sua doppia personalità: la Yukino casalinga è esilarante, soprattutto se confrontata con quella raffinatissima che fa credere di essere a scuola. Mi piace molto poi l'atmosfera di casa Miyazawa, le sue sorelline - come la stessa Yukino le definisce - sono insolenti e carine ed anche i suoi genitori, peraltro molto giovani, sono semplicemente adorabili. L'atmosfera nella casa di Arima invece è molto diversa, non che manchi l'amore ma sicuramente è circondato da meno vivacità e meno calore e sebbene lui abbia già raccontato gli eventi (presumo) principali della sua infanzia, chissà che non ci sia ancora altro da scoprire. Gli sfondi, come vuole lo shojo, sono poco importanti e dettagliati ed anzi spesso riempiti dai soliti fiori e ghirigori vari. 
Complessivamente, il modo di disegnare e di narrare di Masami Tsuda mi suscita moltissima simpatia e spero che Le situazioni di lui & lei proceda su questo stesso tono.

Alla fine dei tre capitoli troviamo un racconto autoconclusivo (di cui purtroppo non trovo alcuna immagine da mostrarvi) anche piuttosto lungo, intitolato La tigre e il camaleonte - Una promessa di una settimana che mi è piaciuto davvero moltissimo. La storia parla di una liceale, Koharu, che ha subito un piccolo grande trauma: tempo addietro il ragazzo che le piaceva le aveva detto senza mezzi termini che era brutta e non era stato neanche l'ultimo a fare commenti poco carini sul suo aspetto; Koharu allora, che è anche molto timida, insicura ed introversa, aveva preso a nascondersi dietro i suoi occhiali ed i suoi capelli, cercando di mostrare il meno possibile il suo volto al prossimo. Il nuovo anno scolastico le porta come compagno di banco Sakajo, un tipo grande e grosso che a detta degli altri è un teppista. Koharu, figuriamoci, è intimorita al massimo da uno come lui e non ha il coraggio di guardarlo né di parlargli. Un pomeriggio però, mentre torna dalla biblioteca, correndo per sbrigarsi perché si trovava in un corridoio buio un po' losco, Koharu va a sbattere proprio contro Sakajo: nello scontro gli occhiali di Koharu cadono a terra e Sakajo, che si preoccupa subito di raccoglierli, finisce invece col calpestarli nel buio e mandarli in frantumi. Desolato, la accompagna a vedere se potevano essere aggiustati, ma purtroppo le viene detto che ci vorrà una settimana prima che siano pronti. Koharu ha il morale a terra perché senza occhiali non vede nulla ed anche perché sono un po' il suo scudo protettivo, e Sakajo si sente responsabile dell'accaduto e vuole a tutti i costi rimediare. Infine gli viene un'idea: per quella settimana lui sarebbe stato gli occhi di lei! Così, suo malgrado, Koharu si ritrova a passare molto tempo con Sakajo, che la viene a prendere ogni mattina, la scorta per i corridoi della scuola, prende gli appunti per lei e la riporta a casa: insomma si prende cura di lei come un vero gentiluomo ma Koharu, troppo infognata nelle sue paranoie, all'inizio non se ne rende conto e continua ad avere timore di lui e di ciò che possa pensare di lei. Quando infine riesce ad aprirsi ed a parlargli veramente, Koharu si rende conto di aver fatto lei per prima l'errore che odiava tanto quando gli altri lo commettevano con lei, ovvero aveva giudicato le apparenze. Perché Sakajo, essendo cresciuto con sua nonna, è veramente un galantuomo d'altri tempi, educato e rispettoso e leale, che non esita a difendere Koharu anche davanti agli altri.
La tigre e il camaleonte è una storia che ho letto con grandissimo piacere e coinvolgimento, una storia dolcissima dal finale aperto, che getta però il seme per immaginare che tra Koharu e Sakajo possa nascere anche qualcosa di più della bellissima amicizia che tra loro si è già instaurata. Se anche non vi interessano Le situazioni di lui & lei, vi consiglio vivamente di recuperare in qualche modo La tigre e il camaleonte.


Mi trovi un po' strano, eh?
A forza di sentirmelo ripetere, ci sono arrivato!
Forse è perché ho sempre vissuto da solo con mia nonna. Ma io sono felice.
Vivendo con una maestra di vita, si impara molto.
Diceva che le persone prive di spessore cercano sempre di ficcare il naso 
nei fatti degli altri. E che le persone che si fanno influenzare
dalle opinioni altrui non fanno che lamentarsi.
Piuttosto che dare ascolto a cosa dicono gli altri,
si dovrebbe trovare da soli le risposte,
hanno molto più valore.


E per questo mese, dal fronte manga era tutto! In realtà ho cominciato anche il primo volume di Dungeon Food ma di questo - e già non vedo l'ora! - ne parleremo il prossimo mese...

domenica 27 agosto 2017

Confessioni di una lettrice: ho letto Federico Moccia

Io ero una rompicoglioni, polemica e critica già da ragazzina. Anzi, molto più allora che adesso ed il motivo mi era chiarissimo già dagli undici anni in poi: la maggior parte dei coetanei che avevo attorno mi sembravano degli idioti e non volevo venire identifica con loro soltanto perché avevo la sfortuna di avere la stessa età. Ho sempre pensato di esser nata già adulta - come si dice anche di Rory in Gilmore Girls - perché, soprattutto finché andavo a scuola, trovavo ben poco in comune con la gente che mi circondava (a quanto mi è stato riferito, le maestre mi definivano "matura per la mia età" all'asilo, il che la dice lunga). E se verso il terzo anno delle superiori ero riuscita più o meno ad accettare tale circostanza vivendo più o meno serenamente la mia vita, prima di allora qualsiasi stupidaggine poteva assumere le drammatiche dimensioni di un conflitto - tra me e me, tra me e gli altri, verso il mondo tutto per far capire che ero diversa. Non che mi sentissi superiore - anzi, la maggior parte delle volte mi sentivo l'ultima ruota del carro - ma, per farvi un esempio, quando un adulto dava per scontato che mi piacesse Tre metri sopra il cielo perché in quel periodo piaceva a tutti quelli della mia età, ecco, in circostanze come quelle odiavo la mia generazione e davo inizio a certi comizi - di cui probabilmente, data la concitazione con cui mi esprimevo, il mio interlocutore poteva comprendere ben poco - per spiegare perché non avrebbe proprio dovuto azzardarsi a fare affermazioni così false e tendenziose. 


C'era un'altra cosa, poi, che da ragazzina mi dava molto, molto fastidio, ed era chi giudicava - non soltanto me ma anche ciò che più mi piaceva (il che, a certe età, è praticamente la stessa cosa) - senza conoscere ciò di cui stava parlando. Proprio per questo, io per prima non mi sarei azzardata a sparare a zero su qualcosa che non avessi prima fatto lo sforzo di approfondire e proprio per questo, benché fossi sicura che i "libri" di Federico Moccia fossero terribili anche prima di avvicinarmici, con un coraggio non indifferente decisi di leggerli: per prepararmi alla lotta. 
La lotta in difesa della lingua italiana, della necessità di un senso logico all'interno di una struttura narrativa e, nondimeno, del buongusto. Fatta questa doverosa premessa, partiamo dal principio.
Frequentavo le scuole medie e tutte le mie coetanee - ma anche molti coetanei maschi, diciamocelo - impazzivano per Tre metri sopra il cielo, all'epoca meglio conosciuto come 3MSC (i detrattori erano soliti aggiungerci un bel: Costa Crociere). Il modo più efficace per un gentiluomo che volesse conquistare la sua bella era scriverle da qualche parte "Io e te 3MSC" (i più audaci optavano per il muro sotto casa di lei), mentre le fanciulle, dal canto loro, sognavano che a corteggiarle fosse uno bello & dannato come Step, il protagonista del "romanzo" in questione (ora io non vorrei stare a sottolinearlo ma, dai, step in inglese significa passo o scalino, che razza di soprannome è). Era proprio inevitabile trovarsi talvolta coinvolti in un'accesa discussione attorno alla intensissima (?) e tormentatissima (?) storia d'amore di Step & Babi, la protagonista femminile (come potete notare, i nomi sono uno meglio dell'altro).

Ma di cosa parla, in fondo, Tre metri sopra il cielo? Beh, c'è Babi che è una liceale carina ed educata, che viene da una famiglia molto perbene dell'alta borghesia romana, però un giorno incontra Step che è un ragazzo davvero bellissimo però è un poveraccio, indossa sempre la giacca di pelle e ha la moto, quindi è molto cattivo. I due iniziano ad interagire con battibecchi che non hanno proprio motivo di esistere, ed anche se probabilmente sin dall'inizio avrebbero solo voluto limonare, per un po' portano avanti la farsa del no, lei è una ragazza troppo al di là delle mie possibilità e del no, quello è un ragazzaccio povero, non posso; ovviamente poi invece cominciano ad uscire insieme, si innamorano eccetera e Step tira fuori il lato dolce & sensibile che ogni bello & dannato che si rispetti nasconde sotto la giacca di pelle mentre lei - che prima di conoscerlo ovviamente non aveva mai marinato la scuola, detta una sola bugia in vita sua o avuto un qualunque pensiero impuro - inizia a mentire e rispondere male ai genitori, scappare di casa e stare in giro fino a notte fonda. 
Oltre alla coppia principale, ce n'è anche una secondaria, composta ovviamente dal migliore amico di lui e dalla migliore amica di lei che - se avete storto il naso su Step & Babi non so come reagirete ora - si chiamano Pollo & Pallina. Ora, io ho capito che sono soltanto soprannomi, ma soprannomi del genere non li darei neanche alle mie galline se ne avessi, figuriamoci ai protagonisti di un libro (a meno che non si tratti di un simpatico libro per l'infanzia il cui protagonista è, che ne so, veramente un Pollo molto affezionato alla sua Pallina). Praticamente non c'è altro, perché la trama è questa, e se è vero che è di una banalità sconcertante è anche vero che tocca vette di originalità per gli elementi trash, come le gare clandestine in moto che i nostri protagonisti fanno in luoghi proibiti della Roma notturna, gare che prevedono di percorrere una certa distanza sulla moto impennata, con il super maschio alla guida e relativa ragazza seduta dietro, girata al contrario, legata al guidatore da una cinta rigorosamente della Camomilla (infatti, le ragazze che partecipavano venivano chiamate "le Camomille") e Babi raggiunge il perfezionamento della sua mutazione da brava ragazza a ragazza ribelle nel momento in cui decide di essere la Camomilla di Step. Insomma cose troppo trasgri che trascendono forse le nostre capacità di comprensione. Tra l'altro, Pollo muore facendo questa cosa intelligentissima, perciò c'è anche il lato profondo, di denuncia sociale verso la pericolosità di certi passatempi (no, non gli è riuscito bene neanche questo in realtà).


Nonostante io ci abbia provato più volte, non sono mai riuscita effettivamente a spiegare quanto sia brutto questo libro, per questo mi sono sempre limitata a parlare di quanto sia diseducativo, a partire dalla rappresentazione di attività - come quella sopra descritta delle corse in moto - estreme e pericolose come indispensabili per essere ammirati e rispettati; le protagoniste femminili sono veramente stupide ed antipatiche, ricordo ancora quanto mi davano fastidio i passaggi in cui Babi & Pallina (soprattutto quest'ultima) quasi bullizzavano le compagne di classe studiose per farsi dare i compiti da copiare, perché loro giustamente erano state troppo impegnate a fare le Camomille o altre faccende sì degne di nota per potersene occupare. La cosa che mi pareva grave era che situazioni simili non venivano descritte da Moccia come rappresentazione della realtà, con un tono che dicesse: queste cose purtroppo succedono e tu adolescente le riconoscerai sicuramente e leggendole qui in questo libro comprenderai ancora meglio che è un modo di ragionare sbagliato! No, il modo in cui le raccontava Moccia ad una ragazzina/o non ancora dotato di un profondo senso critico, trasmetteva proprio: se hai gli occhiali, ti comporti bene e studi sei una sfigata che merita di essere insultata, quelle fighe son solo quelle troppo trasgry come Babi & Pallina. Okay, Federico, va bene.
Un'altra cosa bruttissima è che l'"autore" non fa altro che elencare marche in voga tra gli adolescenti di quegli anni, la Camomilla era soltanto un assaggio, perché dall'inizio alla fine non fa che identificare i personaggi tramite le marche delle cose che indossano, che fumano, che vedono, che vogliono, che comprano. Una cosa veramente tristissima.
Veniamo poi a come è scritto, questo "libro". Tre metri sopra il cielo ha anche il merito di aver sfatato un mio mito dell'infanzia, ovvero credevo fermamente che chiunque scrivesse un libro, per lo meno sapeva scrivere. Poteva essere brutta la storia, antipatici i personaggi, ma se uno scrive un libro per forza sa scrivere! - questo pensavo, nella mia ingenuità, poi ho letto Tre metri sopra il cielo ed ho capito che no, non era vero, nel mondo reale non dovevi per forza saper scrivere per pubblicare un libro. Federico Moccia, almeno quando scrisse Tre metri sopra il cielo (ma temo che dopo sia andato persino peggiorando) non possedeva nozioni di grammatica neanche elementari. La sequenza soggetto - verbo - complemento gli era estranea e difficilmente riusciva a comporre una frase che contenesse una subordinata: tre o quattro parole, punto; tre-quattro parole, punto. E non disturbiamo, per carità, forme verbali quali il congiuntivo o il condizionale. A livello di scrittura, insomma, al confronto Fabio Volo meriterebbe veramente il Nobel per la letteratura. Mi chiedo perché - me lo chiedo da allora, da più di dieci anni... - gli sia permesso pubblicare libri, ma so che è una domanda la cui risposta può essere soltanto più triste persino dei suoi "libri".

Non potrei lasciarvi in altro modo se non con il trailer del film che, all'epoca in cui uscì, sentii come fatto apposta per dare soddisfazione a chi la pensava come me, un piccolo grande riscatto ai troppi soprusi visti ed uditi ogni giorno, un film che in una volta sola li parodiava tutti, i cui protagonisti erano Stramarcio (talmente bello & dannato che pioveva persino sul suo ritratto - muoio!), Bambi e Tacchino. Le pericolosissime corse in moto rimpiazzate da altrettanto pericolose corse coi carrelli sono geniali.




martedì 22 agosto 2017

Nemiche Amiche (1998)

Si sa, anche la programmazione televisiva decente d'estate va in vacanza, ed è in questi mesi che - telecomando alla mano - noi pantofolai professionisti scopriamo certi canali di cui neanche sospettavamo l'esistenza. Come Food network, che chissà da quanto tempo occupa il canale 33 del mio televisore senza che io lo sapessi. Un canale che di giorno si occupa esclusivamente di cibo, seguendo le mirabolanti avventure di più o meno grandi chef, food blogger agghindate più di un albero di Natale, mamme casalinghe alla Benedetta Parodi che però invece di dare consigli da un modesto studio televisivo, lo fanno dalla cucina dei loro americanicissimi ranch. Insomma, un canale piuttosto trash sul cibo, che però di sera si trasforma e svela il suo volto molto più serio, raffinato, divertente trasmettendo spesso dei bellissimi film. Ecco, qualche sera fa Food network mi ha regalato un viaggio nella mia infanzia, dando in prima serata un film del lontano 1998, Nemiche Amiche.


Dal momento che sono cresciuta negli anni '90, per me gli attori più bravi del mondo erano Robbie Williams e Julia Roberts. Quest'ultima in particolare era la reginetta incontrastata della commedia romantica, il genere cinematografico assolutamente prediletto da mia madre e che io, da bambina, ero quasi sempre ben disposta a guardare (adesso dipende). Se c'era la Roberts poi non dicevo mai di no e per anni ho continuato a guardare i film dove recitava lei, anche quando ormai ne conoscevo le trame a memoria. In particolare titoli come Il matrimonio del mio migliore amico o Notting Hill, non mi stancavano mai. E poi c'era questo qui, questo film in cui lei era co-protagonista con un'altra attrice da me amatissima (Susan Sarandom) che era sicuramente meno leggero e spensierato delle solite commedie d'amore, e forse proprio per questo mi piaceva e mi toccava molto più degli altri.

Jackie (S. Sarandom) e Isabel (J. Roberts)
Nemiche Amiche racconta una dolce-amara e complessa vicenda familiare. Jackie (Susan Sarandom) e Luke hanno divorziato e tentano di mantenere un rapporto decente, nonostante i loro rancori e dissapori, per il bene dei loro due figli, Anna di dodici anni e Ben di sette, i quali hanno già risentito della separazione dei genitori. Per tutti le cose si fanno ulteriormente difficili quando Luke inizia a convivere con la sua nuova fidanzata, Isabel (Julia Roberts), una donna molto bella, molto più giovane di lui e con una brillante carriera come fotografa di moda. A questo punto la quotidianità di tutti loro è fortemente intrecciata, poiché i bambini si trovano spesso soli con Isabel quando vanno a stare dal padre, poiché quest'ultimo è sempre fuori per lavoro. Tale convivenza non è facile per nessuno: non per Isabel, che non ha mai avuto una responsabilità tale come quella di badare a due ragazzini; né per Anna, che sfoga proprio su di Isabel tutta la sua rabbia repressa per la disgregazione della propria famiglia; non per Jackie, alla quale l'idea di lasciare i propri bambini - il suo unico e più grande tesoro - alla nuova compagna del marito non piace assolutamente. Per di più le due donne non potrebbero essere più diverse di così ed a primo impatto non provano alcuna simpatia l'una per l'altra.

Anna e Ben
Il film si prende il giusto tempo per descrivere le caratteristiche e lo sviluppo di tutti i rapporti in gioco, in particolar modo quello tra Isabel e Jackie e quelli tra i due bambini e le due donne. Jackie - come Isabel stessa la definisce - è la Madre Terra in persona: quel tipo di madre affettuosa, accogliente, che scalda come un focolare con la sua sola presenza, che sa tutto dei propri figli e con la quale loro non hanno alcuna esitazione a confidarsi, perché sanno di trovare sempre un porto sicuro; Isabel invece forse non ha alcuna esperienza, ma ha pazienza e buona volontà da vendere. Inizialmente è solo per amore del compagno che s'impegna tanto a conoscere ed andar d'accordo coi bambini, ma poco alla volta si affeziona davvero e tutto ciò che li riguarda inizia a starle veramente a cuore. L'evoluzione più bella e significativa è senz'altro quella tra Anna ed Isabel: inizialmente Anna odia Isabel quasi per partito preso, perché è l'estranea, l'intrusa nel suo nucleo familiare già sconvolto e sicuramente si rifiuta di darle un'occasione anche per lealtà nei confronti di sua madre. Ma un passo alla volta, Anna non potrà fare altro che aprire la porta - quella della sua camera continuamente sbattuta, e quella invisibile del suo affetto - e scoprirà in Isabel una persona divertente, interessante, una figura a metà strada tra una sorella maggiore ed una matrigna buona. Essendo ancora molto giovane Isabel conosce le cose che piacciono ad Anna e si rivela un vaso di Pandora per risolvere i problemi di look o con i ragazzi. Sia Anna che Ben, quando iniziano a nutrire della simpatia nei confronti di Isabel, hanno paura di dare un dispiacere alla madre (che tenerezza infinita, il piccolo Ben, che durante una passeggiata a cavallo dice a Jackie: "Mamma, se tu vuoi che io la odi, la odio!"), ma per fortuna lei ha l'intelligenza di tenere per sé il rancore e lasciare che i figli stabiliscano un legame con la donna che ormai il loro padre ha anche deciso di sposare.


Jackie, Ben e Anna
A mio avviso Nemiche Amiche sarebbe stato un film bello ed interessante già così, ma prende poi una piega ancora più profonda e, ahimè, drammatica quando Jackie scopre che una forma cancerogena che pensava di aver sconfitto è ora tornata e si è diffusa e non ha altra scelta se non sottoporsi alla chemioterapia. Jackie, molto forte ed orgogliosa, cerca di fare tutto da sola senza coinvolgere né l'ex marito né i figli né tanto meno Isabel, ma sarà proprio quest'ultima alla fine a scoprire cosa sta nascondendo. Jackie non avrà altra scelta che raccontare come stanno le cose, perché nel frattempo le cure non hanno sortito l'effetto sperato ed i medici hanno stimato che il tempo che le resta è quello che va all'incirca da quel momento fino a Natale. A questo punto, con tutto il dolore che può provare una madre sapendo che lascerà senza di lei due figli che di lei avevano ancora tanto bisogno - e con la dolorosa consapevolezza che non sarà presente durante le tappe più importanti delle loro vite - inizia ad essere rincuorata pensando che, almeno, avranno Isabel. Durante un commovente colloquio tra le due donne, che fino a quel momento quasi non erano riuscite a parlare senza alzare la voce, Isabel esprime piangendo quanta paura abbia all'idea di gestire tutte quelle cose da sola, di come la terrorizzi il pensiero di non poter mai reggere il confronto con lei, di sentirsi dire un giorno da Anna e da Ben che lei l'avrebbe fatto meglio. Jackie le risponde che invece la sua paura è che Anna e Ben smetteranno di pensarla, e conclude - con una sola lacrima che le riga una guancia - "Io ho il loro passato, tu puoi avere il loro futuro".

Le ultime scene sono proprio durante il giorno di Natale, con una Jackie già piuttosto debole che però ha comunque la forza di parlare con Anna e con Ben, uno alla volta, dando loro il suo regalo e affrontando il difficile discorso di quando la mamma non ci sarà più. Momenti che sfidano il più duro di cuore a non commuoversi. Il film si conclude con una foto di famiglia sul divano ed al secondo scatto è proprio Jackie che dice "adesso una con tutta la famiglia al completo!" invitando una sorpresa e felice Isabel a sedersi accanto a loro.

La commedia cinematografica è un genere ritenuto piuttosto leggero, spesso banale, privo di chissà quali contenuti o spessore; la maggior parte delle volte (specie negli anni più recenti) è vero e non sono niente di più che film piacevoli coi quali allietare una serata qualunque. Però, in mezzo al mare di storielle tutte uguali, ci sono secondo me delle vere e proprie perle, e Nemiche Amiche è una di queste. Indubbiamente in parte a farmi parlare così è l'affetto nostalgico che provo verso certi film, certi attori, addirittura verso certe atmosfere che, avendo scandito la mia infanzia, sono per forza di cose radicate in profondità; ma in parte lo penso anche se provo a distaccarmi: non è facile affrontare temi capaci di scatenare certe emozioni e riflessioni senza appesantire troppo lo spettatore. Ricordo che quand'ero bambina mi immedesimavo molto in Anna, soprattutto per l'attaccamento che aveva verso sua madre, e l'idea di trovarmi nella sua situazione (ovvero sapere che l'avrebbe persa per sempre, di lì a poco) mi agghiacciava letteralmente. Se avrei avuto la sua stessa diffidenza nei confronti di un'eventuale Isabel, non saprei dirlo, ma probabilmente sì, e come lei le avrei dato una chance se avesse dimostrato di meritarsela. Nemiche Amiche è un film dall'atmosfera calda, vera, accogliente, sincera condita da paesaggi stupendi come le foglie arancioni nell'autunno americano o un campo innevato che Jackie ed Anna percorrono una notte a cavallo, in uno scenario da fiaba. 

Rivederlo e ri-apprezzarlo ancor più di quand'ero bambina mi ha fatto venire voglia di parlarvene e di condividere con voi l'affetto verso questi bei film degli anni '90. Se vi va, fatemi sapere nei commenti se avete mai visto Nemiche Amiche, se vi piace o raccontatemi della vostra commedia preferita.

A presto! 

domenica 20 agosto 2017

L'arte di collezionare mosche, Fredrik Sjöberg

Nessuna persona sensata si interessa alle mosche

Fredrik Sjöberg è un entomologo svedese, in particolare studia le mosche, per esser precisi è un esperto di sirfidi; già, perché a noi persone comuni, ignari delle infinite sfumature del mondo degli insetti, le mosche paiono tutte uguali: notiamo al massimo una differenza di dimensioni, che ci limitiamo a sottolineare definendo "moscone" una mosca più grande del normale, fino a scendere al "moscerino" quando la creatura alata che ci disturba è particolarmente piccola. Invece, solamente in Svezia esistono 2284 tipi diversi di mosche. I sirfidi sono soltanto una di queste specie, a loro volta suddivise in centinaia di sotto-specie (se così si possono definire). Ecco, Fredrik Sjöberg ha deciso di dedicare la sua intera vita di studioso e collezionista a questa particolare varietà di mosche, i sirfidi, e lo fa sull'isola dove si è stabilito dal 1986, l'isola di Runmarö, nell'arcipelago di Stoccolma. Un luogo che viene definito un paradiso naturale e che l'autore descrive - con un'immagine che mi è rimasta subito molto impressa - "una lunga domenica di quindici chilometri quadrati". Il solo fatto di vivere su un'isola, peraltro un'isola così piccola, scatena in Sjöberg moltissime riflessioni. Perché proprio lì? 

L'isola di Runmarö
E' una domanda che ogni abitante di Runmarö si è sentito porre almeno una volta da che vi si è stabilito, quasi avesse fatto una scelta tanto estrema da dover necessariamente essere giustificata. Per Sjöberg il quesito si pone d'inverno, quando col sole che tramonta già nel primo pomeriggio ed il paesaggio tutto ricoperto di neve e di ghiaccio la vita sembra quasi fermarsi. La risposta, però, arriva puntualmente ogni primavera, e poi ancor di più d'estate: il verde che brilla, tutto che sboccia e fiorisce, la possibilità di starsene anche tutto il giorno immerso nella natura in paziente attesa di un nuovo insetto, sempre con la speranza di catturare qualcosa di raro.


L'arte di collezionare mosche non è certo il primo libro che Sjöberg abbia scritto, è però il primo che è stato tradotto in Italia ed il primo che, anche nel resto del mondo, ha riscosso un successo di pubblico che né l'autore né l'editore si aspettavano. Pare che la formula vincente sia l'impossibilità di classificare quest'opera: non è una biografia, non è un saggio, non è un romanzo, non è un'autobiografia ma è tutto questo insieme e no, il risultato non è affatto un guazzabuglio confuso e confusionario, tutt'altro.
Sin dalle prime righe Sjöberg si conquista la simpatia del lettore, raccontando di quando - prima di entrare ufficialmente nella società delle mosche - faceva il trovarobe a teatro, cioè cercava e si occupava degli oggetti necessari alla scenografia, spesso bizzarri, difficilmente reperibili oppure non semplicissimi da gestire (come un agnello vivo, col tempo divenuto pecora, che lui ogni sera si portava al guinzaglio per tutta Stoccolma). Sjöberg stava in realtà tentando di fuggire dal suo destino di entomologo ed anche di trovare una ragazza perché - diciamocelo - quante ragazze si interessano alle mosche?
Da questo momento in poi il lettore è pronto a seguire le dissertazioni di Sjöberg, quale che sia l'argomento, e di argomenti lui ne affronta davvero tanti. Ci racconta ricordi della sua vita di studioso e di isolano, condivide con noi riflessioni su questioni senza tempo che gli stanno a cuore - come il tema della lentezza, spesso ci parla di romanzi o di autori che gli hanno lasciato qualcosa d'importante; ci parla anche dei suoi oggetti di studio, ovviamente, gli insetti in generale ed i sirfidi in particolare, ma l'amore di Sjöberg abbraccia la natura tutta e non esita a trasmetterci la sua emozione per certi paesaggi, certe luci, certe piante. Molta parte del libro, però, è anche dedicata a René Malaise, un esploratore dei primi del Novecento, che nonostante pochi lo sappiano era svedese, inventore di una trappola per insetti tutt'oggi insuperata. Sjöberg si appassiona alle avventure di questo entomologo (almeno nella prima fase della sua carriera), che assieme ad altri pazzi ha raggiunto luoghi estremi della Terra per amor della ricerca, un uomo che ha toccato le vette di fama, successo, celebrità e poi è stato dimenticato da tutti. Per sua stessa ammissione, Sjöberg ha un debole per i Grandi Dimenticati e devo dire che in questo sono pienamente in sintonia con lui. Provo sempre un pizzico di adrenalina quando, in un modo o nell'altro, vengo a contatto con le storie di grandissime personalità, che chissà come e perché con l'avanzare del tempo sono invece state lasciate in disparte. 
Assieme alla storia di Malaise, Sjöberg ci permette di scoprire moltissimi altri nomi di studiosi, giornalisti e scrittori, come quello di Ester Blenda Nordström, una donna vulcanica, piena di fascino e di carisma, sfuggente, affascinante come poche ed incredibilmente all'avanguardia, che già negli anni Venti si dedicava all'inchiesta, vivendo sotto copertura nelle situazioni più scomode che riusciva a trovare per poi poterne scrivere. Sjöberg fa inevitabilmente nascere il desiderio di recuperare i titoli che cita di quest'autrice, che tra le tante avventure della sua vita conta anche qualche escursione assieme a Malaise.

Avevo già scoperto di amare la letteratura che tratta di animali e natura con L'anello di re Salomone di Lorenz, ed anche se L'arte di collezionare mosche è qualcosa di completamente diverso - probabilmente unico nel suo genere - è stata una conferma di questa passione accentuatasi, potrei dire, negli ultimi cinque anni. Ciò che più mi ha conquistata di Fredrik Sjöberg, devo dire, è stata la sua grandissima e brillante autoironia. Ho un debole per chi è capace di evitare di prendersi sempre troppo sul serio, per chi ha l'intelligenza di ridere di se stesso piuttosto che lasciare che siano gli altri a farlo, con conseguenze quasi sempre spiacevoli. Sjöberg, pur facendo capire con quanta passione e con quanta dedizione egli viva la sua professione ed il suo posto all'interno del mondo dell'entomologia, (si) prende in giro su tutte quelle che sono le caratteristiche della società degli insettologi e, in uno spettro più ampio, dei collezionisti.
I momenti esilaranti di questo libro sono davvero tanti, come quando Sjöberg racconta di come le persone che lo incontrano ben equipaggiato per la caccia si sentano sempre in diritto se non addirittura in dovere di chiedergli cosa mai stia facendo e di come lui, quando non ha voglia di spendere tutto il suo tempo in quelle che possono diventare brevi conferenze sui sirfidi, risponde semplicemente di essere un collezionista di farfalle, perché le farfalle, essendo belle e colorate, stanno bene a tutti e nessuno sente il bisogno di porre ulteriori domande; certo, questo quando non ha la sfortuna di imbattersi in un'ecologista incallito, al quale allora apparirà come un brutale assassino. La vita di un entomologo non è affatto tranquilla come potrebbe sembrare. Oppure ho riso moltissimo quando Sjöberg racconta che negli ultimi anni c'è stato un "boom dei sirfidi", il che significa che in tutta la Svezia ci sono più di cinque persone che se ne occupano.

L'arte di collezionare mosche ha superato le mie aspettative (che a dire la verità erano piuttosto vaghe, perché non sapevo bene cosa avrei trovato dentro questo libro), rivelandosi una lettura allegra, frizzante e piacevolmente leggera, che infatti ho portato a termine in soli tre giorni. 215 pagine perfette da scorrere su una sdraia a bordo piscina, o sul divano negli oziosi pomeriggi estivi. Davvero consigliatissimo, soprattutto a chi è in certa di un libro diverso dal solito. Appena mi sarà possibile acquisterò sicuramente gli altri libri che Iperborea ha recentemente pubblicato di questo autore, dove Sjöberg ha raccontato le vite e le avventure di altri outsider dimenticati delle scienze naturali - termine che Sjöberg (ed anche io) preferisce di gran lunga al più freddo "biologia".


No, non è un'ape, è un grazioso sirfide! 

lunedì 14 agosto 2017

Canale Mussolini, Antonio Pennacchi

Prendete qualcosa da mangiare, una bella bibita fresca e - come si suol dire in questi casi - mettetevi comodi. Non so ancora che cosa scriverò, raramente strutturo un post in anticipo, mi lascio sempre trasportare dall'ispirazione del momento stesso in cui comincio; quel che stavolta so per certo è che quella che andrete leggendo adesso sarà una recensione particolarmente lunga. Ne sono certa perché il romanzo di cui vi parlerò merita un commento approfondito, perché racconta una storia e al contempo la Storia, perché arrivata all'ultima pagina ho potuto esclamare che mi era piaciuto da matti. Sento anche che sarà piuttosto difficile scriverne, la paura di sminuirne i contenuti un po' mi frena, ma ci metterò tutto l'impegno possibile sperando di rendere giustizia al grandissimo lavoro fatto da Antonio Pennacchi (Latina, classe 1950).

Io spero che voi abbiate avuto il tempo, il modo, l'occasione di stare con i vostri nonni e spero tantissimo per voi che loro vi abbiano raccontato spesso e tanto della loro infanzia, della vita che hanno fatto i loro genitori - i vostri bisnonni - e dell'epoca che hanno retto sulle proprie spalle. Ben due conflitti mondiali con relative premesse e conseguenze, tra l'una e l'altra una parvenza di ripresa, di ritorno all'ordine e poi di nuovo la rovina. La maggior parte dei nostri nonni dice cose come: "Eh, Mussolini avrà fatto un sacco di sbagli, però quello che ha fatto lui per l'Italia non l'ha più fatto nessuno!", ma come fai a parlarne bene, non era un dittatore?, rispondiamo noi increduli, perplessi, incapaci di comprendere; se avete avuto il tempo di ascoltare i vostri nonni, però, forse qualcosina di più potreste anche capirla.
I miei nonni paterni abitano sotto di me. Mio nonno non racconta molto, canta spesso. Vecchie canzoni che cantavano tra compagni, canzoni dalla melodia allegra ma con testi piuttosto tristi, che parlano della separazione dalla famiglia, dalla propria innamorata lasciata a casa - aspettami, aspettami dicevano spesso quelle vecchie canzoni -, di luoghi di nessuno e delle vite di soldati semplici, dimenticati da tutti, celebrati soltanto da un canto inventato da chissà chi, rimasto in testa a chi l'ha ascoltato. Mia nonna invece, è stata lei che mi ha raccontato tantissimo. Lei che viene dagli stessi luoghi in cui è nato Pennacchi e che è nata proprio da una storia come quella che lui ha raccontato in Canale Mussolini.
Senza scendere troppo nel sentimentale, per me non c'era nulla di freddo o di estraneo dentro questo romanzo. Era quasi come se conoscessi già quei luoghi, quelle persone, quei giri di vite.

Latina - che prima si chiamava Littoria e prima ancora non esisteva proprio - è una città del Lazio affacciata sul mare. Intorno ci sono una serie di paesi più piccoli, alcuni anch'essi affacciati sul mare, altri che iniziano ad arrampicarsi sulle montagne; dove adesso si trova Latina negli anni Venti non c'era niente o per meglio dire c'era un disastro: zona paludosa, che si mangiava ettari di terreno, una zona inavvicinabile, pericolosa, zona malarica con la zanzara anofele che mieteva ogni anno un sacco di vittime. La vedevi la gente che gli si iniziava a gonfiare la pancia ed ingiallire la pelle, oppure da un giorno all'altro gli veniva una febbre lancinante, cominciava a tremare e ventiquattr'ore dopo era finita, già arrivato nell'aldilà. L'unica arma era il chinino, un farmaco che tutti da quelle parti dovevano prendere obbligatoriamente ogni mattina; era preventivo e qualche volta riusciva a curare persino i primi sintomi. Rovinava i denti, però, ed oggi i nostri nonni dicono chissà che cosa c'era dentro.
Erano un problema serio, queste paludi, che qualcuno aveva pure cercato di risolvere sin dall'epoca romana. Quello che c'era andato più vicino era stato Papa Pio VI nel Settecento, che però la prima volta che è andato a controllare i lavori s'è beccato una puntura di zanzara e arrivederci e grazie, morto stecchito con la febbre pure lui. Persino Napoleone c'ha provato, almeno a chiacchiere. Bisognava aspettare lui, per vedere i fatti, l'Uomo mandato dalla provvidenza, Benito, il Duce, Mussolini.



Nel romanzo di Pennacchi lo conosciamo che è soltanto un ragazzino che un po' alla volta s'interessa di politica ed inizia ad esprimere certe idee in piazza che fanno entusiasmare la gente, lassù in Altitalia (come si diceva una volta), e che i coetanei non vedono l'ora d'invitarlo a pranzo, quando passa dalle loro parti. Dalle parti dei Peruzzi c'è passato più di una volta, finché non è diventato più importante, ma anche allora - anche quand'era il capo incontrastato - dei Peruzzi non s'è dimenticato. E sono loro - non tanto Mussolini - i protagonisti del romanzo di Antonio Pennacchi.

I Peruzzi sono una famiglia veneta come all'epoca ce n'erano tante, una famiglia di stampo matriarcale che finché c'è ancora un metro di spazio vivono tutti sotto lo stesso tetto, pure i figli cresciuti con le mogli e tutti i figli man mano che arrivavano. Famiglie numerosissime, quindi, e di Peruzzi ce n'erano a non finire. Con nomi forti, altisonanti, esplicativi, che oggi nessuno si sogna più. Pericle, Temistocle, Bissolata, Santapace, Iseo, Paride, Adrasto. Nomi così.
Gente con le unghie sempre sporche di terra, i Peruzzi, che capisce le piante e sa parlare con le bestie. Sempre a spaccarsi la schiena tutti quanti da mattina a sera, nessuno escluso, pure i bambini non appena imparavano a fare qualche cosa. Ma questa era la vita di un tempo ed anzi loro, che erano mezzadri, se la passavano pure meglio di tanti altri più disgraziati. Finché non è arrivata la legge quota 90. La legge quota 90 era un progetto di rivalutazione della moneta nazionale, la lira, svalutata dalle conseguenze del primo conflitto mondiale; nelle intenzioni l'obiettivo era rendere vantaggioso lo scambio con la sterlina - all'epoca molto più forte della lira - e favorire quindi i commerci internazionali, nei fatti però - almeno quelli che riguardavano la gente vera come i Peruzzi e non le trattative fatte intorno alle tavole rotonde - fu una rovina. I Peruzzi, come tanti altri, si trovarono i conti per i quali lavoravano la terra che bussavano alla porta ed essendo stati rovinati pure loro dalla quota 90 adesso pretendevano il pagamento di tutti i debiti lasciati in sospeso e che si era sempre detto pian piano si saldano, non c'è problema. Adesso il problema c'era eccome, caccia i soldi, paga tutto e subito. Visto che di soldi non ne aveva nessuno, i conti si son presi tutte le bestie - creature di famiglia - e buttati fuori a pedate nel sedere, lavoro non ce n'è più, arrivederci e grazie.
Allora Pericle e Temistocle si son messi in sella a due biciclette e hanno pedalato fino a Roma, fino a Palazzo Venezia, dove erano certi di trovare il Rossoni, braccio destro di Mussolini, che aveva passato una notte incarcerato assieme al padre loro.

Appena arrivati a Palazzo Venezia la guardia li ha fatti rinchiudere, ma una volta sceso il Rossoni quello gli ha detto ma casso fai, sti qua son Peruzzi! e appena liberati via di abbracci e pacche sulle spalle. Più tardi è passato persino Mussolini in persona e dopo un attimo di titubanza anche lui s'è aperto in un sorriso esclamando ah, ma varda là i Peruzzi! Ecco che gente erano, i Peruzzi, accolti a braccia aperte pure a Palazzo Venezia. E di motivi ce n'erano, a partire dal nonno che era stato in cella col Rossoni, passando per certi fatti che hanno a che fare con un paio di preti e nondimeno più d'un Peruzzi aveva combattuto valorosamente con e per la patria ogni volta che ce n'era stato bisogno, s'erano fatti il '15-18 e quant'altro, medaglie al valore e tutto il resto.
Fatto sta che adesso stavano con le pezze al culo e dal Rossoni c'erano andati per dirgli di dire ai conti di ridargli tutte le bestie. Invece il Rossoni gli ha detto eh no, a quello lì non posso dirgli niente perché sulla carta ha ragione, ma che problema c'è Peruzzi, fate armi e bagagli e venitevene qui, c'è in corso un progetto Peruzzi che non hai idea.

Il progetto in questione era la bonifica delle paludi pontine, quelle paludi malariche che nessuno prima era riuscito a sistemare. Serviva tanta, tanta manodopera che si sporcasse la mani e Mussolini, non avendone abbastanza nel Lazio, aveva deciso di portarsela dal nord, dove tanto stavano tutti a puzzarsi dalla fame. Per convincerla, aveva fatto costruire dei poderi lungo tutto l'argine del futuro canale - per adesso ancora palude - e aveva detto: voi partecipate alla bonifica, vi lavorate la terra del podere vostro e tra dieci anni sarà tutto vostro, mai più mezzadri o sotto padrone, i padroni diventate voi. Dopo aver fatto un sopralluogo i Peruzzi si son decisi - tanto quanta altra scelta avevano? - Pericle e Temistocle hanno ri-pedalato fino a su, hanno impacchettato il poco che avevano, presi tutti i componenti della famiglia, salutati quelli che rimanevano lassù e via dentro a un treno destinazione Littoria - che, tra parentesi, l'ha costruita poi la gente di Mussolini.
Le condizioni per avere il podere erano queste: bisognava essere iscritti al partito fascista, bisognava essere una famiglia molto numerosa (servivano braccia), bisognava che almeno un componente fosse eroe di guerra (l'organizzazione dei lavori Opera combattenti si chiamava, non a caso) e bisognava essere mezzadri professionisti, esperti sia della terra che degli animali. I Peruzzi tutti ce li avevano questi requisiti, ma voi non immaginate le carte false che ha fatto la gente per scappare dalla miseria. Carte false che aggiungevano un sacco di componenti a famiglie troppo smilze, ciabattini che appena si trovavano la prima mucca maremmana davanti - che ha certe corna che a primo impatto hanno inquietato pure i Peruzzi che pure le bestie le conoscevano bene - le mani giusto in testa potevano mettersele.

E se pensate che i Peruzzi furono gli unici ad intraprendere il viaggio vi sbagliate di grosso, perché fu un esodo da tutto il nord Italia qui nel sud del Lazio, con la gente di qua che li chiamava cispadani e quelli di su che chiamavano marochìn la gente di qua. Si picchiavano nelle osterie all'inizio, poi pian piano per forza di cose capitava che si sposavano tra cispadani e marochìn e allora cominciò a venir su una nuova generazione "mista" e quando poi scoppiò la seconda guerra mondiale si unirono tutti quanti ad aiutarsi l'un l'altro, senza che esistesse più alcuna differenza.

Quella di Antonio Pennacchi, quindi, è la Storia della bonifica delle paludi dell'agro-pontino, di come quest'opera grandiosa abbia segnato la vita di milioni di italiani, mischiando popoli completamente diversi per linguaggio, abitudini e cultura che pure hanno imparato a convivere ed andare d'accordo. Più in generale, Pennacchi ha raccontato la parabola di Mussolini, da quand'era un ragazzino carismatico, a quando è diventato il Duce adorato da tutti per la parvenza d'ordine e di benessere che stava portando col suo governo, a quando ha fatto amicizia con Adolf Hitler e di buono non ha più fatto niente.
Pennacchi però ha saputo raccontare la parte storica in maniera insolitamente leggera, facendo parlare anche i grand'uomini della politica nello stesso linguaggio dei Peruzzi, quello popolare e del dialetto veneto, col risultato che nei momenti in cui la lettura poteva farsi pesante o noiosa per chi non s'appassiona alla politica, alle questioni burocratiche e tecniche, ci si fa invece inevitabilmente una risata, ad immaginare che persino Hitler - 'Dolfo - parlasse in veneto con gli amici suoi.

Come vi ho già spiegato, poi, la Storia è raccontata con la storia dei Peruzzi ed i Peruzzi sono dei personaggi stupendi - tutti, dal primo all'ultimo - folcloristici e veri come solo la gente di paese di un tempo può essere. Ignoranti delle cose dei libri, ma pratici delle cose materiali come noi - che pure abitiamo dentro questo mondo -, con tutte le nostre letterature e filosofie sapremo mai essere. Quelli mettevano un dito fuori e sapevano che tempo avrebbe fatto, guardavano una vacca e capivano se avrebbe partorito quel giorno o meno. Gente straordinaria, i Peruzzi, come tutti quelli del loro stampo.
L'Italia non è un Paese che, specie di questi tempi, faccia nascere un gran sentimento patriottico. A leggere questa storia però, che è la vita che hanno fatto i nostri nonni e bisnonni, nasce un sentimento di appartenenza, un riconoscere le proprie radici, il bisogno e la voglia di dire a queste persone grazie per avercela messa tutta, che poco ma sicuro un grazie non gliel'ha mai detto nessuno - anzi, già quello che facevi era sbagliato: se eri partigiano, se eri fascista, se avevi combattuto in guerra, se non ci avevi combattuto; ma il problema principale, per la gente normale, non erano gli ideali, era la fame e qualsiasi cosa era fatta soltanto per non soffrire quella e per non farla soffrire ai figli. Tutto qua. Tanta fatica e quasi nessuna soddisfazione, i Peruzzi maschi in giro per il mondo ad ogni guerra - qualcuno neanche è più tornato - e le donne a casa a spezzarsi la schiena peggio di prima.

Le pagine di questo libro sono 455 ed io potrei scrivere approfonditamente di ogni singolo episodio. E' un romanzo denso, denso come solo un racconto sincero, di famiglia può essere. Il narratore è un Peruzzi egli stesso, che racconta ad un ascoltatore silente la storia di questa immensa e pittoresca famiglia. Grazie al romanzo di Antonio Pennacchi, vincitore sia del Premio Strega che del Premio Campiello, ho approfondito senza mai annoiarmi la storia del nostro Paese e con le vicende dei Peruzzi mi sono appassionata, affezionata, ho riso e mi sono commossa. I Peruzzi non è gente che parla d'amore e si abbraccia spesso, proprio per questo basta davvero poco per far salire qualche lacrima agli occhi del lettore, quando un figlio parte per l'ennesima volta e la madre non può sapere se lo vedrà tornare, quando di fronte a circostanze che a noi scatenerebbero il puro terrore loro raddrizzano le spalle e ci vanno incontro a testa alta, quando un vecchio amico torna e sulla porta urla Scàmpame Peruzzi, scàmpame! in memoria di certi vecchi tempi neanche troppo belli.

Quando mia nonna me l'ha prestato non ero affatto sicura che questo libro potesse piacermi, quando l'ho iniziato neanche. L'ho letto con calma, senza fretta, mettendoci una certa dose d'impegno; appena ho iniziato a conoscere meglio i Peruzzi però non avrei più potuto abbandonarli, soprattutto al Pericle, leone dei Peruzzi, che tra tanti riesce a spiccare sin da subito.
Ad oggi vi dico che dovreste proprio leggerlo, semplicemente perché siete nati o vivete in questo nostro stranissimo Paese. Conoscere certi pezzi della nostra storia, conservarne la memoria, è il minimo che si può fare per chi, senza nulla in cambio, ha dato tutto pur di farlo reggere ancora in piedi. Come scrive Antonio Pennacchi in prima pagina, anche se non esiste nessuna famiglia Peruzzi, non esiste nessuna famiglia vissuta a quei tempi alla quale non siano capitate almeno alcune delle cose che capitano ai Peruzzi. E che voi lo sappiate o meno, abbiamo tutti almeno un parente cispadano o un parente marochìn; un parente che è rimasto dalle parti di Latina o che dalle parti di Latina è arrivato nella Val Padana. Tutto, a causa del Canale Mussolini.



Grazie ad Antonio Pennacchi per aver scritto questo romanzo. Grazie a tutti i Peruzzi per averci almeno provato.





giovedì 10 agosto 2017

Quella volta che ho lottato per un libro come Carrie Bradshaw per un paio di Jimmy Choo's

Avete presente quelle scene patetiche che vediamo spesso nei film e telefilm americani - o anche proprio da servizi pseudo-giornalistici - che immortalano la pazzia durante i saldi nei grandi magazzini? Non parlo tanto delle orde di gente che si spinge per entrare nel negozio e neanche tanto delle corse a chi arriva primo calpestando impietosamente qualche disgraziato inciampato nei lacci delle sue stesse scarpe; penso più che altro a quelle immagini in cui due persone, più probabilmente due donne, si contendono un paio di scarpe o un qualche capo di abbigliamento. Lo abbiamo visto più di una volta con Carrie Bradshaw in Sex and The City, e sono sicura che cercando su youtube si troveranno veri e propri incontri di wrestling consumati davanti allo stand più succulento. Ecco, ad una persona - uomo o donna che sia - che non nutre un particolare interesse verso le scarpe o che non sa un'acca di moda questo fenomeno non potrà che sembrare inspiegabile. Perché fare ore di fila, sgomitare, litigare, rischiare la vita per un banale oggetto da indossare? Vaglielo a spiegare che si tratta di una giacca di Vivienne Westwood edizione limitata che ora costa l'iradiddio ma prima costava il doppio. Non avrà comunque alcun senso, per l'umano comune, che per quanto ne sa di moda la nonna con le croks fosforescenti spacca.

Ecco, non che io sia invece una patita delle firme, che ci capisca qualcosa delle settimane della moda o che vada in tilt durante i black friday e, più in generale, la moda non c'entra niente con questo post; l'ho utilizzata come argomento introduttivo perché quando penso alle follie che si fanno per qualcosa che ci piace da matti, nella testa mi appare l'immagine di Carrie Bradshaw che picchia qualcuno pur di accaparrarsi le sue adorate Jimmy Choo


Noi lettori, appassionati di libri, abbiamo quanto meno la fortuna di avere una passione relativamente semplice da seguire. Il nostro problema è che il mondo dell'editoria e delle storie pubblicate passate presenti e - non pensiamoci neanche - future è praticamente infinito e dobbiamo vivere con la consapevolezza che la nostra breve vita umana non sarà mai sufficiente per leggere tutto ciò che vorremmo; se riusciamo a venire a patti con questa triste realtà, però, i nostri problemi non sono poi molti: i libri, a meno che non ci mettiamo a cercare prime rarissime edizioni, hanno prezzi accessibili; capita che un titolo da noi desiderato finisca fuori catalogo, però con un po' d'impegno e fortuna quasi sempre si rimedia dal mercato dell'usato; non c'è alcun bisogno di fare a botte nelle librerie, neanche durante i saldi (al massimo, la gente devi picchiarla per portarcela, in libreria). Insomma, la nostra esistenza da bibliofili pare piuttosto tranquilla, vista dall'esterno. Eppure anche noi - più silenziosamente, pacatamente - facciamo le nostre follie a causa di ciò che più amiamo ed è proprio di queste che oggi ho in mente di raccontare. Le piccole o grandi follie che, fino ad oggi, ho fatto per o a causa di un libro. 

Avevo quindici anni ed un'Amica Lettrice (se per caso mi leggi, ciao E.!). Io e l'Amica Lettrice avevamo gusti simili su tantissime cose, opposti su altri. L'Amica Lettrice ad esempio ebbe un'acuta fase vampirismo che a me non sfiorò neanche minimamente; non so se sia stato sull'onda di questa fase o l'attrazione verso la storia d'amore - l'Amica Lettrice era anche molto sentimentale e romantica - fatto sta che iniziò a leggere Twilight di Stephenie Meyer, iniziò a parlarmene tutti i giorni ed io drasticamente dicevo no, ci sono i vampiri e altre cose strane che schifo non lo leggo. Il problema è che io e l'Amica Lettrice, non avendo altri amici lettori, passavamo davvero tantissimo tempo insieme a parlare e fantasticare su ciò che più ci entusiasmava e daje oggi daje domani - come si dice in italiano forbito - ho detto vabbè dai, lo leggo. Sì, perché l'Amica Lettrice era proprio impazzita per questa saga, quanto meno ero curiosa di capire cosa ci fosse dentro, e per Natale mi feci regalare in blocco i tre libri che erano usciti fino ad allora, ovvero Twilight, New Moon ed Eclipse. Ora, i regali li ho scartati il 24 dicembre e la sera stessa iniziai a leggere Twilight; vi posso giurare che il 30 dicembre stavo leggendo l'ultima pagina di Eclipse. La saga della Meyer è stata l'unica che avesse vampiri e licantropi che io abbia mai letto e lo so, lo so, che chiunque apprezzi il genere è schifato dall'idea del vampiro vegetariano, che splende alla luce del sole e altre cose - come dire - particolari che la Meyer si è inventata. Ad una come me, però, che di vampiri e licantropi non m'interessa proprio queste stranezze non diedero alcun fastidio né era la presenza di queste creature che mi seppe tenere incollata alla lettura. In realtà non saprò mai spiegare cos'è che mi appassionò tanto, anche perché probabilmente se riaprissi oggi quei libri troverei insulsa Bella Swan e improbabili i membri della famiglia Cullen (o forse no, chi lo sa). A differenza di molte altre persone però non rinnegherò mai quanto mi siano piaciuti i libri di Stephenie Meyer perché, gente, tenendo presente il target a cui si rivolge ed il genere di letteratura che propone scrive sicuramente meglio di molti altri. La rovina secondo me son stati i film, che sin dalla scelta degli attori mi fecero inorridire, tant'è che non volevo neanche andarli a vedere (fui costretta, ahimè), rendendo il tutto una macchietta, banalizzato dai soliti isterismi che si creano attorno a grandi fenomeni; perché i libri di per sé, almeno letti a quindici anni, avevano una presa enorme sul lettore.
La follia legata alla saga della Meyer, comunque, non è stata leggermi tutti e tre i libri in una settimana, eh no. La follia è stata quando il 2 agosto 2008 è uscito il quarto ed ultimo libro, ovvero Breaking Dawn. Attenzione però, il 2 agosto 2008 usciva in lingua inglese, non si sapeva ancora quando sarebbe arrivata la traduzione italiana. Io e l'Amica Lettrice aspettavamo quel momento da circa due anni. Potevamo, secondo voi, stare ferme con le mani in mano sapendo che esisteva già fisicamente nelle librerie, seppur non nella nostra lingua madre? Dal momento che con l'inglese ce la cavavamo bene - e che, per la curiosità e l'impazienza, l'avremmo tradotto pure dal russo se necessario - abbiamo confabulato e deciso: il 2 agosto andiamo alla Feltrinelli e se lo troviamo lo prendiamo in inglese.
Ora, io ci tengo a sottolineare vari punti. Primo, era il 2 agosto e non sarà stata un'estate torrida come questa ma era pur sempre agosto e faceva caldo, un sacco caldo. Secondo, avevamo quindici anni, nessuna macchina e la Feltrinelli si trovava nella Grande Città, il che significa che dovevamo prendere l'autobus la metro e camminare un sacchissimo ed era agosto e faceva caldo. Terzo, non avevamo neanche l'ombra della certezza di trovare questo benedetto libro, perché è vero che usciva in inglese ma non era detto che il 2 agosto sarebbe già stato esposto anche nelle librerie italiane, perciò poteva anche essere che ci stavamo per fare questo pellegrinaggio totalmente a vuoto (e ripeto: era agosto, faceva caldissimo), infatti durante tutto il tragitto io e l'Amica Lettrice ci guardavamo facendo spallucce dicendoci "tanto non lo troviamo", non per pessimismo, giusto per prevenire la delusione. Invece, dopo ore di viaggio e vari kg evaporati in sudore, arrivammo davanti alle porte della Feltrinelli nella Grande Città. Appena gettammo lo sguardo oltre le vetrate, vedemmo lo stand più bello che avessimo mai visto, tutto pieno di questi mattoncini neri con la scacchiera in copertina. La nostra reazione nell'ordine fu: restare immobili, sgranare gli occhi, prendere fiato, urlare, abbracciarci. La guardia era indecisa se intervenire o meno.


Tornammo a casa sudate e puzzolenti e con le vesciche ai piedi, però con due sorrisi da un orecchio all'altro. Da quella sera stessa iniziammo entrambe a leggerlo, col veto assoluto di non parlarne neanche per sbaglio finché non l'avessimo finito entrambe, perché il rischio spoiler era altissimo ed uno spoiler avrebbe senz'altro posto fine alla nostra amicizia.
Potrete dirmi che non ne valeva proprio la pena, che ci sono tantissime saghe o libri di ben più alto livello rispetto a quella della Meyer; fa niente. Non è che ancora oggi io ci stia sotto chissà quanto. Ne ho semplicemente un bellissimo ricordo adolescenziale, è stata l'unica saga con elementi fantastici che mi abbia coinvolta ed appassionata e l'unica volta in cui sono corsa in libreria il giorno esatto in cui il libro usciva. Consideratelo pure un guilty pleasure, uno scheletro nell'armadio, fatto sta che non me ne pento

Torniamo un po' indietro nel tempo, perché qui frequentavo ancora le scuole medie, la prima per la precisione. Gli anni delle medie sono stati il periodo più oscuro - o quasi - della mia vita, ma guardandomi indietro è stato anche il periodo in cui ho passato in assoluto più tempo fuori casa ed in cui ho frequentato - numericamente parlando - più persone. Avevo tanti amici o presunti tali, ero molto più socievole di adesso e, cercando gli individui con cui davvero divertirmi e trovarmi bene, provavo a stringere amicizia con qualunque tipologia di persona. Ero una ragazzina che metteva tutta se stessa nella costruzione di un'amicizia, il che significa che non appena mi affezionavo un po' scrivevo lettere straripanti i miei sentimenti, che facevo regali, che ero sempre disposta ad aiutare e che prestavo il mio libro preferito. Il mio libro preferito, a quei tempi, era ancora indiscutibilmente Il diario di Anna Frank. Vi ho già accennato diverse volte su come questo libro mi abbia segnata, di come mi rispecchiassi in Anna e nelle sue riflessioni, di come la sua penna mi abbia ispirata a tenere un diario; è stata insomma fondamentale per me sotto diversi aspetti e spesso trovavo conforto nelle sue parole, come fosse un'amica saggia capace di consolarti o tirarti su. Per questo quando conobbi un'"amica" (durò davvero troppo poco per parlare di amicizia) che sembrava avere molto in comune con me, ansie e sogni compresi, decisi di prestarle Il diario di Anna Frank, con tutto che era una vecchia edizione di mia nonna cui ero affezionatissima. Ascoltatemi bene: i libri non si prestano, a meno che non siano familiari o amici talmente stretti che avete le loro chiavi di casa. Quel che accadde con questa specie di amica fu che il libro che le avevo dato con lo stesso pathos con cui mi sarei strappata il cuore dal petto (sì, noi lettori siamo giusto un pizzico melodrammatici) era evidente che lei non lo stesse affatto leggendo, perché al mio chiederle ogni volta che la vedevo: allora? Com'è? Ti sta piacendo?! *-* le sue risposte erano degli imbarazzati sì, dai, è carino... Cosa?! Il diario di Anna Frank è carino?! Le ho dato un po' di tempo, magari le serviva leggerne di più per capirlo... Il problema era che il tempo passava, ma le cose peggioravano: l'amica in questione subì uno di quei cambiamenti drastici incomprensibili ed inspiegabili, che da personcina timida introversa e sfigatella il giorno dopo hai la sigaretta in bocca, limoni con uno che ha la moto ed entri di diritto nel gruppo dei fighissimi. Dell'"amica" a questo punto non poteva fregarmi di meno ma, cavolo, ridammi il mio libro! Glielo chiesi una volta, glielo ricordai la seconda, la terza, di sicuro anche una quarta... ma il mio adoratissimo diario non tornava da me. Secondo voi, potevo accettare una perdita tanto dolorosa? No, ovvio che no. Un bel pomeriggio, dopo la fine della scuola e prima degli allenamenti di pallavolo, mi sono fatta accompagnare da un'Amica Più Fidata. Insieme siamo arrivate davanti alla porta dell'Amica Rapitrice di Libri, suonammo il citofono e poi il campanello; ad aprirci fu sua madre, alla quale chiesi semplicemente: c'è l'Amica Rapitrice di Libri? - Sì, è in camera sua, rispose lei. Io e l'Amica Più Fidata andammo a passo spedito verso la cameretta (per fortuna ero stata in quella casa, un paio di volte) e senza neanche un saluto all'Amica Rapitrice di Libri cominciai a guardarmi intorno in cerca del mio povero Diario di Anna Frank, che giaceva abbandonato su uno scaffale (per fortuna senza segni di maltrattamento). Lo presi, rivolsi un ultimo sguardo all'Amica Rapitrice di Libri - che si era limitata a guardarmi perplessa - ed io e l'Amica Più Fidata ce ne andammo, rivolgendo un cortese saluto alla mamma - che, poverina, non c'entrava nulla.
C'è un motivo, se quando si vuole intimorire qualcuno si dice so dove abiti.

Siccome non mi piaceva il fantasy, un'estate la passai a leggere Le cronache del mondo emerso di Licia Troisi e Le cronache di Narnia di C.S. Lewis, entrambi per intero, due mattoni che non vi dico il peso di tenerli in mano, specie sdraiata sul letto, che se mi avesse ceduto un braccio e mi fossero caduti in faccia mi avrebbero causato un trauma cranico che 'manco Derek Sheperd poteva salvarmi.
La Troisi me l'aveva consigliata la mia compagna di banco di allora che ci stava in fissa, Narnia mi son detta dai, è un classico, proviamoci. Ma direte voi, se non ti piaceva il fantasy che caspita ti metti a leggere due mattonazzi super fantasy? Eh, gente, appunto per quello. L'amore per la letteratura e per i libri era talmente grande che mi sentivo in colpa a non calcolarne proprio una fetta importante, che faceva appassionare come nient'altro molti altri lettori. Era come una terapia d'urto per provare a curare quella parte di me che non accettava elfi, streghe, lotte tra il bene e il male svolte in mondi che non sono questo. Non sono pentita di averci provato, mi dispiace dirvi però che ne sono uscita esattamente come prima: il fantasy non è per me. Ho solo un'ultima speranza, tutta riposta nel maestro Tolkien. Se neanche lui riuscirà nell'impresa, penso che mi limiterò a farmene una ragione.

Altri episodi che possono venirmi in mente son già meno bizzarri e più comuni a qualunque altro appassionato lettore, come quelle volte in cui un libro ti prende talmente tanto che ne leggi metà in un pomeriggio e poi vaghi da una stanza all'altra come un ubriaco, roba che la gente ti parla e tu, nel migliore dei casi, rispondi e agisci col pilota automatico, nel peggiore li guardi con gli occhi sbarrati spaventando a morte il malcapitato, che inizia a chiedersi se sia iniziata l'invasione dei corpi umani da parte di qualche specie aliena.

Ho scritto questo post dopo essermi divertita tanto a rivangare nelle letture d'infanzia col post precedente, soprattutto perché è stato bellissimo leggere i vostri commenti così partecipi e pieni di ricordi. Oggi ero ispirata, volevo proprio scrivere qualcosa, e mi è venuto in mente questo argomento. Non credo ci sia bisogno di sottolinearlo, ma non vedo letteralmente l'ora di scoprire le cose bizzarre, strane, folli che avete fatto voi a causa della vostra passione per i libri (o fumetti!), perciò non esitate a raccontarle nei commenti!


Anna Karénina, Lev Tolstòj

Anna Karénina , Lev Tolstòj, Russia 1875-77 – ma anche qualsiasi altro luogo e tempo dacché esistono l’uomo e la donna. Il commento al rom...