martedì 31 gennaio 2017

Williamland #4: Romeo e Giulietta

Incredibile, è già l'ultimo giorno del primo mese dell'anno: sembra ieri che si stilavano liste di obiettivi e buoni propositi, ed ecco che già ne ho lasciati scivolare via una buona parte... Ma non quelli riguardanti l'impegno per il blog! Infatti eccomi qui pronta a deliziarvi con un articolo per la rubrica dedicata a William Shakespeare, con la quale mi propongo di parlarvi di una sua opera alla fine di ogni mese. Sto procedendo nell'ordine cronologico di composizione o pubblicazione messo insieme, per quanto possibile, dagli studiosi ed alternando di volta in volta tra tragedie, commedie e drammi storici. Stavolta tocca ad una tragedia, probabilmente la più famosa in assoluto; la più riprodotta al cinema ed al teatro, la più citata e rielaborata in tutte le salse. Sto parlando di Romeo e Giulietta, che è anche l'opera shakespeariana cui sono personalmente più legata.

Il balcone di Giulietta

Romeo e Giulietta, il cui titolo originale è The Most Excellent and Lamentable Tragedy of Romeo and Juliet, fu composta tra il 1594 ed il 1596, traendo spunti ed ispirazione da opere di epoca classica: Shakespeare guarda alla letteratura greca antica, in particolare ai Racconti efesii intorno ad Abracome e Anzia di Senofonte Efesio ed a Le Metamorfosi di Ovidio, già citate anche in opere precedenti (vedi Tito Andronico).
Nella vicenda di Abracome e Anzia, già marito e moglie, la coppia di innamorati è separata dalla sorte avversa e lei, trovandosi in una situazione complicata, beve una pozione che crede essere veleno, ma che produce invece solo un letargico stato di morte apparente, proprio come quello che utilizza Giulietta.
Da Le Metamorfosi invece, Shakespeare riprende il motivo di Piramo e Tisbe: Ovidio narra la leggenda di due giovani innamorati ostacolati dalle famiglie, che continuano a parlarsi attraverso una crepa nel muro che separava le loro case. Stanchi della situazione, Piramo e Tisbe programmano la loro fuga, dandosi appuntamento sotto un gelso; Tisbe arriva per prima e disgraziatamente viene attaccata da una feroce leonessa, dalla quale riesce però a mettersi in salvo, ma nell'impresa perde il suo velo, macchiato peraltro dal sangue della belva; quando sopraggiunge Piramo e vede il velo insanguinato della sua amata pensa subito al peggio e, disperato, si toglie la vita trafiggendosi con la spada. Quando Tisbe torna sul posto, trova Piramo in fin di vita. Dopo essersi guardati per un'ultima volta, anche lei si toglie la vita, restando accanto a lui sotto la pianta di gelso. Gli dèi, commossi, trasformarono i frutti di gelso - intriso del sangue dei due amanti - in un colore rosso vermiglio.

I Montecchi ed i Capuleti, poi, le due famiglie nemiche della tragedia, venivano già nominati dal nostro Dante Alighieri all'interno della sua Commedia nel Canto VI del Purgatorio: una famiglia Montecchi era davvero originaria di Verona, mentre i Capuleti - in realtà Cappelletti - venivano da Brescia, ma si trovavano a Verona all'epoca di Dante. Non si ha notizia di scontri tra queste due famiglie, benché si sappia che i Montecchi condussero una lunga e sanguinosa lotta con i guelfi. Dante non fa riferimento ai due sfortunati amanti, parla solo delle famiglie definendole "già tristi". Dopo di lui molti autori italiani dell'epoca ripresero la storia dei Montecchi e dei Capuleti, inserendo di volta in volta nuovi elementi, fino ad arrivare alla versione di Matteo Bandello del 1554, il quale introduce il tema dell'iniziale sofferenza di Romeo, inserisce la figura di Benvolio e rende definitiva l'ambientazione veronese dell'opera.

Il testo fu poi tradotto in francese nel 1559 ed in inglese sia in versi da William Painter nel 1567 che in prosa da Arthur Brooke nel 1562; a quest'ultimo è da attribuire l'invenzione della balia per come la leggiamo anche nel testo shakespeariano: spontanea, generosa e dall'umorismo popolare. Tuttavia sia la rielaborazione francese che quella inglese hanno un tono piatto e sin troppo moraleggiante: i personaggi non hanno quella vitalità e quell'animo che seppe dargli successivamente il drammaturgo inglese.

Come ben saprete attingere dalla tradizione classica non significa certo copiare, e la rielaborazione di Shakespeare presenta numerose innovazioni: innanzi tutto, nelle versione precedenti i due amanti venivano condannati per aver seguito i loro istinti piuttosto che curarsi della volontà delle loro famiglie, mentre Shakespeare li assurge ad archetipi dell'amore tragico ed al contempo riesce a dipingere la crisi sociale e culturale dell'epoca, in cui figure importanti come il Principe o la Chiesa non riescono più ad imporsi ed a stabilire l'ordine. Poi arricchisce tanto lo stile quanto la trama, dando molta più importanza alle figure minori, come Benvolio - cugino di Romeo - che diventa testimone della tragedia; sfrutta maggiormente la figura della balia per regalare al testo più momenti comici e leggeri; ed infine Mercuzio, la figura che rappresenta l'amore dionisiaco, colui che vede la donna solo sul piano superficialmente materiale e che fa da contraltare a Romeo, il quale ha ben altra concezione della sua Giulietta, molto più alta e più profonda, trascendente la finita materialità della carne. Mercuzio resta uno dei personaggi con maggior potenzialità drammatiche di tutto il teatro shakespeariano: i suoi monologhi, quando recitati bene, fanno inevitabilmente provare la pelle d'oca allo spettatore.

Non vi ho detto nulla della trama, perché a grandi linee la conoscono tutti, mentre ciò che forse ancora non sapete... be', vi lascio il piacere di scoprirlo leggendolo da voi. La storia è talmente famosa che fin troppo spesso mi è capitato di sentirla banalizzare oltre ogni mio livello di sopportazione, come quando si dice che in fondo è la storia di una cotta tra due quattordicenni, che nemmeno si conoscono e arrivano a suicidarsi! Chi ha la faccia tosta di dire cose del genere non penso abbia letto il testo, e se l'ha fatto posso dire - senza presunzione alcuna - che non ci ha capito un'acca. Innanzi tutto, i quattordici anni del Cinquecento sono i trenta di oggi. All'epoca, a quell'età era normale pensare già al matrimonio, dunque nulla di strano. In secondo luogo, non è la loro storia in quanto tale ad esser veramente importante. Sapete, Romeo e Giulietta è l'unica opera che ho riletto davvero tante volte fino ad ora e l'ho fatto perché sin dalla prima volta mi ha comunicato qualcosa di grande, che però non riuscivo completamente a definire, a spiegarmi. Sì, d'accordo, era emozionante oltre ogni dire. Mi piacevano tantissimo i personaggi, okay. Ma in fondo, perché mai Romeo e Giulietta era diventata la madre di tutte le storie d'amore? 
Ho dovuto leggerla ancora tante volte, e soprattutto ho dovuto vivere un po' di più per capirlo, ma alla fine ho capito.

Quella di Romeo e Giulietta in realtà è una storia sul tempo. Il vero problema di Romeo e di Giulietta era quello, il tempo. Se a Romeo fosse arrivato in tempo il messaggio che l'avrebbe informato riguardo la messinscena che Giulietta aveva progettato; se Giulietta si fosse svegliata in tempo. Ma non è andata così e così non doveva andare: perché il Bardo voleva raccontare esattamente questo, e cioè come noi umani non riusciamo ad essere mai in tempo. Non soltanto nell'andare o nel tornare, ma soprattutto nel capire. Nel capire le persone, nell'incontrare l'altro, nel comprendere o nell'ascoltare pensieri e sentimenti, nostri o di chi ci sta davanti. Nel fare o dire una determinata cosa. Quand'è particolarmente importante, l'uomo e la donna - specie se vogliono amarsi - sono sempre in anticipo o in ritardo. E se questo è il dramma della vita, è al tempo stesso il movimento della vita: se non ci fossero i contrattempi e gli imprevisti non ci sarebbe nulla da raccontare, e dunque non ci sarebbero storie. 
Quel che sembra anche suggerirci Shakespeare con la tragedia del suo Romeo e della sua Giulietta è anche che l'unico momento in cui riusciamo ad essere perfettamente in tempo - non un secondo indietro, non uno avanti - è quando amiamo, e al contempo siamo amati. Si tratta di attimi, come il momento dopo aver fatto l'amore e ti trovi nello stesso luogo e nello stesso istante con un'altra persona, per un perfetto secondo di eternità. Solo in quel momento non esiste dolore, né sofferenza, né rimpianto.

Ed è questo, secondo me, che ha fatto di Romeo e Giulietta la storia madre di tutte le storie d'amore, la sua parabola sulla totale imperfezione del tempismo umano, che finisce col rendere complicate anche le cose più semplici.
A questo tema universale, che da allora ad oggi non è cambiato di una virgola, si aggiunge una scrittura da definire senza esitazione assolutamente perfetta; dei personaggi vivi, intensi, le cui emozioni vibrano dentro il lettore - divenuto umile spettatore, cittadino di Verona - sconquassandogli il petto. 

A me è successo ogni singola volta che l'ho letto. E a voi?



mercoledì 25 gennaio 2017

I Pilastri, Iliade #12: Libro Dodicesimo

Ed è di nuovo mercoledì, il che da queste parti significa lettura dell'Iliade. Avrei tanto voluto inframmezzare con un articolo diverso, prima di ritrovarci di nuovo con I Pilastri, ma purtroppo i vari impegni mi hanno tenuta lontana da questa mia piccola isola felice; almeno però ci tenevo a rispettare l'appuntamento del mercoledì, perciò eccomi qui, e spero che quanto segue vi terrà incollati alle righe così come questo Libro Dodicesimo ha tenuto incollata me. Buona lettura!

La battaglia al muro

Essi, infatti, pietre dal muro ben costruito
scagliavano, difendendo se stessi e le tende
e le navi veloci. Come cadono i fiocchi di neve
che un vento gagliardo, scuotendo la nuvola,
fitti riversa sopra la terra nutrice di molti;
così si riversavano i dardi sia dalle mani dei Teucri,
sia degli Achei, secco suonavano gli elmi,
colpiti da pietre molari, e i concavi scudi.


Non so se è esatta ma l'immagine che mi sono fatta io degli spazi in cui i due eserciti, quello Troiano e quello Acheo, combattono all'incirca è questa: da una parte c'è la città di Troia, protetta dalle sue alte mura, dai piedi delle quali si dispiega il vasto spazio aperto, scenario delle più dure battaglie, che si estende fino a tuffarsi nel mare. Sulle rive sono ancorate le navi degli Achei, la sabbia è nascosta da tutte le loro tende, attorno alle quali Agamennone ed i suoi uomini avevano costruito un muro che desse loro un minimo di protezione dal nemico. Ed è su queste mura che, nel Libro Dodicesimo, il nemico si scaglia.

Ilio, la città di Troia

Lasciatevi dire che i versi del Libro Dodicesimo sono sublimi, così evocativi, emozionanti, appassionanti. Se ben ricordate dal libro precedente, si era nel mezzo di una battaglia che sarebbe durata tre giorni; i più grandi eroi Achei erano ormai fuori gioco, colpiti dalla furia dell'esercito Troiano ed in particolare dal loro signore, Ettore, il favorito di Zeus, cui il dio stesso aveva donato forza e vigore, e gli aveva promesso la vittoria e la gloria.
Il muro costruito dagli Achei era stato costruito soltanto con la forza delle loro braccia, senza la protezione di alcuna divinità, ed aveva perciò ben poche speranze di durare troppo a lungo. Per nove giorni, Zeus fa piovere incessantemente, mentre Apollo e Poseidone scagliarono la furia di tutti i fiumi che dai monti scendono verso il mare, affinché il muro iniziasse al più presto a cedere. Intanto, intorno al muro la battaglia imperversava e, mentre gli Achei restavano presso le loro navi atterriti dalla sferza di Zeus, Ettore esortava i compagni ed i cavalli a saltare senza indugio il fossato: i cavalli però si arrestavano sul ciglio, impauriti, ed anche i fanti dubitavano della possibile riuscita. Si avvicina allora Polidàmante, il quale fa notare ad Ettore che se anche fossero riusciti a saltare con successo il fossato, nel caso in cui gli Achei avessero subito contrattaccato loro rischiavano di restarci imbrigliati, e quella sarebbe stata la fine; suggerisce piuttosto di lasciare lì i cavalli con gli scudieri, mentre tutti loro, armati e protetti dalle corazze, sarebbero andati a buttar giù il muro. Ettore accoglie il consiglio, e così si decide di fare; uno solo tra i Troiani non ascolta le direttive, Asio, che si avvicina al muro con tanto di scudiero e cavallo. Omero si lancia qui in un'espressione insolita, esprime un suo giudizio, dando ad Asio dello stolto, per questa sua imprudenza; al tempo stesso ne predice il destino, che ovviamente sarà di morte. Simili anticipazioni possono stupire il lettore moderno, ma lo stile epico non si nutre di elementi quali sorpresa, imprevisto, colpo di scena: l'epica parla di fatti già accaduti, che si dà per scontato siano già noti al lettore o, ai tempi, all'ascoltatore. 
Le porte delle mura non erano chiuse, il passaggio veniva tenuto aperto nel caso in cui un compagno ferito o troppo stanco dovesse correre a riposarsi presso le navi. Asio vi guida dentro i suoi cavalli, ma seppure aperte le porte non erano certo incustodite:

Stolti! sulle porte trovarono due forti eroi,
figli superbi dei Lapiti guerrieri,
il figlio di Pirìtoo, Polipete gagliardo,
e Leonteo pari ad Ares flagello degli uomini.
Stavano questi due di qua e di là dalla porta,
come querce dall'alta cima sui monti,
che tutto il giorno al vento e alla pioggia resistono,
ferme sulle radici solide e vaste;
così quelli, fidando nella forza e nel braccio,
attesero il grande Asio avanzante e non fuggirono.

Inizia una battaglia feroce, con i due eroi alle porte che difendono strenuamente l'ingresso e gli altri soldati Achei che dall'alto, dall'interno delle mura, lanciano pietre a non finire. Asio, sconvolto dalla mancata resa dei nemici, invoca Zeus disperato ma il dio non bada alle sue parole, perché la sua mente è concentrata soltanto su Ettore, al quale era deciso a donare la gloria che gli aveva promesso.
Omero si esprime qui nuovamente in prima persona: "raccontare ogni cosa, come un dio, m'è difficile". Gli Achei erano sfiniti, ma non potevano smettere di combattere, e gli dèi che stavano dalla loro parte erano straziati nel vedere questo scenario pietoso. E all'improvviso accade questo:

Venne ad essi un uccello, mentre volevan passare,
un'aquila alto volo che si lasciava a sinistra l'esercito,
tra gli artigli portando un serpe sanguigno, enorme,
ancora vivo e guizzante; e non scordava la lotta,
anzi colpì l'uccello che lo teneva, nel petto, vicino al collo
piegandosi indietro; essa allora lo scagliò a terra lontano da sé.
Straziata dal dolore, lo scagliò tra la folla
e fuggì a volo tra i soffi del vento, strillando.
Rabbrividirono i Teucri che videro torcersi il serpe,
segno di Zeus egìoco, in mezzo a loro per terra (...)

Polidàmante si fa avanti di nuovo, dicendo ad Ettore che quanto hanno appena visto non può presagire nulla di favorevole; ma Ettore stavolta non ascolta il compagno, rispondendogli che non gli interessano gli uccelli che volano a destra o a sinistra né cosa si tengono in bocca: lui tiene bene a mente e nel cuore soltanto le parole che Zeus stesso gli aveva trasmesso, ed attende fiducioso che quel momento di gloria arrivi. Infatti, poco dopo, il signore degli dèi manda una folata di vento che istupidì la mente degli Achei avvantaggiando Ettore ed i suoi uomini. Poi, suscita particolare forza in Sarpedone, che si scaglia contro le mura come leone contro buoi corna lunate. Assieme al compagno Glauco, si dirigono minacciosi verso una delle torri Achee, quella sorvegliata da Menesteo, il quale, ansioso, si guarda attorno in cerca di compagni che vengano a proteggere lui e gli uomini suoi, ma erano tutti troppo lontani ed il rumore tanto forte (il rombo al cielo arrivava) che nessuno mai l'avrebbe sentito. Così manda l'araldo Toote a chiamare con urgenza il valoroso Aiace, il quale accorre subito assieme al fratello Teucro. Quando giungono alla torre di Menesteo, Sarpedone e Glauco - sovrani dei Lici - stavano già salendo sui parapetti e dunque Aiace e Teucro, senza indugio, si gettano in un feroce corpo a corpo mentre l'urlo saliva.

Molti eran feriti nel corpo dal bronzo spietato (...)
e da per tutto le torri e i ripari di sangue d'eroi
eran bagnati, dalle due parti, degli Achivi e dei Teucri.

Ed il tanto atteso momento di gloria promesso ad Ettore da Zeus infine arriva. Il figlio di Priamo balza per primo al di là del muro acheo e con quanto fiato ha in gola urla ai compagni di sfondare il muro e gettare il fuoco sulle navi achee. Poi afferra un sasso, un sasso che i due uomini più forti del mondo non sarebbero riusciti a sollevare, ma che Ettore roteava a suo agio perché per lui Zeus l'aveva reso leggero, e con questo: 


Venne a piazzarsi molto vicino e lì colpì in mezzo con forza,
divaricando le gambe, che non venisse debole il colpo;
e i due arpioni spezzò e piombò dentro la pietra
pesantemente, forte muggiron le porte, le sbarre
non tennero, saltarono via i battenti
sotto il colpo del masso; Ettore glorioso si buttò dentro,
simile nell'aspetto a rapida notte; luceva il bronzo
orrendo, che vestiva il suo corpo, e nelle mani
aveva due lance; nessuno l'avrebbe fermato tenendogli testa,
quando saltò di là dalla porta; ardevano gli occhi,
di fuoco, e verso la folla voltandosi, chiamava i Troiani
a superare il muro; essi all'invito obbedirono,
subito alcuni scalarono il muro; altri si riversarono
per le solide porte; i Danai fuggirono
verso le navi concave; e fu tumulto indomabile.

Per oggi non aggiungo nulla perché, non so voi, ma io ho i brividi.


mercoledì 18 gennaio 2017

I Pilastri, Iliade #11: Libro Undicesimo

Le gesta di Agamennone

E' passato un po' di tempo, dall'ultima volta che vi ho accompagnati nella lettura dell'Iliade, e ad essere onesta era passato del tempo anche dall'ultima volta che in prima persona mi ero dedicata alla lettura dei versi omerici. Una pausa che non ha avuto niente a che fare con la noia o con qualche difficoltà nel proseguire: affatto, tant'è che mentre in quest'ultimo periodo andavo a ripassare quanto avevo già letto, mi rendevo conto di ricordarmi tutto, a testimonianza di quanto le vicende degli achei e dei troiani mi fossero rimaste impresse. Col post di oggi, dunque, riprendo esattamente da dov'ero rimasta. Per seguirmi, vi invito a visitare la sezione del blog intitolata I Pilastri, dove troverete raccolti tutti i link ai post dedicati all'Iliade, che d'ora in poi usciranno ogni mercoledì. Spero che qualcuno ci si dedichi, anche perché il libro di cui vi racconto qualcosa oggi è davvero bello.

Fronti uguali aveva la mischia; essi al pari di lupi
correvano; la Lotta ricca di gemiti godeva a guardarli,
ché in mezzo ai combattenti c'era essa sola dei numi.
Gli altri dèi non eran fra essi: quieti
sedevano nei loro palazzi, dove a ciascuno
è costruita la bella dimora, tra le gole d'Olimpo.
Ma tutti facevano colpa al figlio di Crono nuvola buia
perché la gloria voleva dare ai Troiani.
Il padre però non si curava di loro: in disparte
sedeva, lontano dagli altri, luminoso di gloria,
guardando la città dei Troiani, le navi dei Danai,
il balenare del bronzo e gli uccisori e gli uccisi.


Ad aprire il libro undicesimo è l'Aurora, che sopraggiunge a svegliare mortali ed immortali; tra questi, c'è ovviamente anche Zeus, che prima ancora di godersi il suo caffè - o qualunque cosa preferissero gli dèi di prima mattina - ha la bella idea di scagliare la Lotta tra le navi degli Achei:

Qui ritta la dea gettò un grido forte, pauroso,
acuto; e ispirò gran furia agli Achei, a ciascuno
nel cuore, per lottare e combattere senza riposo:
e la guerre divenne per loro più dolce del ritornare 
sopra le concave navi alla terra paterna.

Ha inizio una giornata di battaglia che si concluderà soltanto nel Libro XVIII e colpisce per il gran numero di eventi ed episodi che, sovrapponendosi, fanno sembrare che questa giornata non finisca più. Nel marasma della lotta, per le prime pagine il lettore segue Agamennone, particolarmente in forma, che si dedica ad abbattere un nemico dopo l'altro. Osservando la sua furia, Zeus - che come sappiamo patteggia per i troiani - manda la sua messaggera Iri a riferire un ordine ad Ettore, il più grande tra gli eroi troiani:

Ettore figlio di Priamo, simile a Zeus per saggezza,
mi manda il padre Zeus per dirti queste cose:
fin che tu veda Agamennone pastore di genti
infuriare tra i primi, massacrar file d'uomini,
tienti sempre fuor della lotta, spingi gli altri
a lottar coi nemici nella mischia selvaggia.
Ma quando, colpito d'asta o ferito di freccia,
balzerà sui cavalli, allora a te darà forza
d'uccidere, fin che alle navi buoni scalmi tu giunga,
e il sole si tuffi, scenda la tenebra sacra.

Ettore ovviamente segue il consiglio, intanto che gli achei rafforzavano le loro file ed Agamennone continuava a combattere tra i primi; a questo punto Omero si rifà sentire in prima persona, facendo un'ennesima invocazione alle Muse, stavolta per chieder loro chi per primo e chi per ultimo affrontò il signore degli achei. Apprendiamo così del duello con Ifidamante, che cade sotto la lancia di Agamennone, così come suo fratello Còone, accorso per rivendicare almeno il corpo dell'amato fratello e che subisce invece la sua stessa sorte. Prima di cadere, però, Còone era riuscito a ferire Agamennone al braccio, sotto il gomito ed un dolore acuto - addirittura paragonato a quelli sofferti dalle donne durante il parto - gli invade il corpo e l'anima, al punto che egli è costretto a chiamare l'auriga e farsi riportare alle navi. Appena se ne accorge Ettore comprende che è arrivato il suo momento, ed eccitando ancor di più l'animo del proprio esercito, si butta nella lotta, come raffica impetuosa; iniziano a cadere numerose le teste degli achei, si sparge a macchia d'olio lo strazio, ed in molti battono in ritirata presso le navi. A restare saldi come sempre son soltanto i valorosi Diomede ed Odisseo, che di comune accordo restano a sfidare la furia di Ettore anche quando questi li ha puntati: Diomede getta la sua lancia mirando alla testa di Ettore, protetta dal casco di bronzo donatogli dal dio Apollo. La mira è giusta, ma la lancia non arriva a scalfire la pelle, protetta da quell'elmo resistente; in compenso, Ettore cade in ginocchio e - mentre Diomede è impegnato a recuperare la propria lancia - riprende fiato, balza sul carro e fugge, lasciando Diomede ad imprecargli contro, a giurargli che prima o poi l'avrebbe finito.
Nel frattempo anche un altro soldato aveva puntato Diomede: Alessandro, lo sposo di Elena, che nascosto dietro un cespuglio stava prendendo la mira e, scoccato il dardo, trafigge un piede di Diomede, il quale però lo deride:

Perché m'hai graffiato la pianta d'un piede ti vanti così.
Non me ne curo, come se donna o sciocco bimbo m'avesse colpito.
Debole è il dardo d'un uomo vigliacco, da nulla.
Ma se parte da me, anche se sfiora appena,
ben altrimenti l'asta è puntuta, fa subito un morto;
della sua donna già son graffiate le guance,
già son orfani i figli; egli, arrossando la terra col sangue,
imputridisce, più uccelli gli son vicini che donne.

Odisseo gli si avvicina, toglie la freccia conficcata nel piede di Diomede il quale, nonostante le parole di scherno, viene pervaso dal dolore ed è costretto a tornarsene alle navi; a questo punto Omero resta solo, col cuore sconvolto, diviso sul da farsi: ritirarsi o restare a combattere contro tutti? Orgoglioso e valoroso come si è sempre dimostrato, resta in mezzo al campo continuando a lottare. Il troiano Soco lo colpisce, ma la dea Atena impedisce all'asta di raggiungere le viscere del suo protetto; vedendo il sangue di Omero, i troiani lo accerchiano ed a quel punto l'eroe è costretto a gridare per chiamare i compagni: lo sentono Menelao ed Aiace, che subito accorrono in suo soccorso. Mentre Menelao si occupa di portar via Odisseo, Aiace inizia a massacrare uomini e cavalli e quando Ettore se ne accorge continua a combattere, ma evitando accuratamente lo scontro con Aiace. Zeus, allora, scaglia contro Aiace lo spavento: Aiace si ferma stupefatto, getta lo scudo, trema, si guarda attorno e voltandosi indietro fatica a mettere un piede dietro l'altro.
In tutto ciò, Achille era fermo sulla sua nave e da lì osservava chi andava e veniva dalla lotta feroce. Mostra finalmente un segno d'interesse quando vede Nestore portare un ferito alle tende, e chiede all'amico Patroclo di andare a verificare di chi si tratti. Patroclo obbedisce subito, ma più del ferito in questione di questo passaggio interessa il dialogo tra Patroclo e Nestore: l'anziano capo parla dell'egoismo di Achille, che mentre i più grandi dei loro eroi cadono o son feriti, sta lì fermo senza muovere un dito; rammenta a Patroclo le parole dei loro padri prima che loro partissero in guerra, gli parla delle lacrime amare che Achille avrebbe pianto nel momento in cui avrebbe visto bruciare tutto l'accampamento acheo coi suoi compagni dentro. Chiede a Patroclo di dire tutto questo ad Achille, di provare a smuovere così il suo animo. Loro due insieme, ancora freschi, riuscirebbero senza fatica a respingere degli uomini ormai stanchi, che combattono da ore. Patroclo, profondamente toccato dalle parole dell'anziano, corre fuori per tornare dall'amico, ma viene fermato da un altro compagno che torna ferito e che gli chiede di prestargli le cure che è in grado di fare, visto che persino uno dei loro medici è ferito, mentre l'altro è impegnato nella piana. Patroclo, nonostante la fretta, non può certo negare il suo aiuto e con il sangue che cessa ed una ferita che ristagna si conclude il libro undicesimo dell'Iliade.

Patroclo, Jacques Louis David, 1780
I fatti più interessanti di questo libro sono essenzialmente tre: innanzi tutto, i più grandi eroi achei sono messi fuori gioco. Son stai feriti Agamennone, Diomede e persino Odisseo, in mezzo a tanti altri. In secondo luogo c'è finalmente un segnale d'interesse da parte di Achille. Quella sua curiosità nei confronti di chi fosse il ferito riportato alle tende da Nestore è il primo barlume di avvicinamento da parte del semidio ai suoi compagni. Infine, il richiamo a Patroclo è già un preludio al suo destino. Tanta carne al fuoco, dunque.
Oltre a tutto questo, come di consueto la parola del poeta è di una forza a dir poco unica. Le comparazioni sono tantissime, che a dirla tutta vi avrei riportato ad una ad una. Per rendere l'idea di come si svolgessero le danze della battaglia, Omero prende a piene mani immagini dal mondo della natura, o per meglio dire della caccia: parla di mucche puntate da un leone, di un cervo ferito che fugge dagli sciacalli, di un cinghiale accerchiato da cani e da giovani ragazzi. L'effetto è immediato e davanti agli occhi ci si dipinge la scena: Omero solo in mezzo ai nemici, un soldato ferito che a fatica si trae in salvo. Le atmosfere sono ancora una volta fatte di polvere, di bronzo, di clangori. Per la prima volta però ho sentito anche l'affanno, la paura, un corpo che cade sulle proprie ginocchia. Un libro forte e molto evocativo, l'undicesimo, che si merita un segnalino colorato per tornarci qualche altra volta.


sabato 14 gennaio 2017

Sabato al museo #4: The Misses Vickers, John Singer Sargent

Lettori e lettrici di questo blog,
col post di oggi vado a resuscitare una rubrica che, ahimè, ha visto nascere solamente tre articoli. Sto parlando di Sabato al museo, un’iniziativa con la quale avevo intenzione, ogni secondo sabato del mese, di parlarvi di un’opera d’arte o di un’artista. Nel 2016 purtroppo non sono stata abbastanza brava da rispettare tutti gli impegni che mi ero presa – di mia spontanea volontà, tra l’altro – ma con l’anno nuovo uno dei miei obiettivi era proprio una maggior dedizione a questo mio spazietto, a cominciare proprio dal riprendere in mano tutte le rubriche che ho lasciato abbandonate a se stesse.
Per Sabato al museo ho in realtà pensato anche ad una lieve, interessante modifica. Tra i tre post che ho pubblicato, quello che ha riscosso maggior interesse e che anche a me è piaciuto di più scrivere è stato quello dedicato a James Tissot, una delle cui opere è stata utilizzata come copertina dell’edizione Oscar Mondadori di Anna Karenina. Scoprire la storia dietro la donna che ci accoglie sulle soglie del capolavoro tolstoiano è stato bello, divertente anche, e così mi è venuta quest’idea: le opere o gli artisti che sceglierò d’indagare, saranno quelli delle copertine di libri letti di recente e che trovo più belle, o che mi colpiscono di più. Il filo tra arte e letteratura sarà in questo modo ancor più stretto, e scegliere l’argomento sarà per me ben più semplice.
Dopo questa premessa, posso augurarvi buona lettura.

Qualche tempo fa vi parlavo di Agnes Grey, romanzo della minore delle sorelle Bronte, Anne. L’edizione che ho letto è ancora una volta un Oscar Mondadori, sulla cui copertina c’è il ritratto di una giovane donna. Fatte le dovute ricerche, ho potuto scoprire che si tratta in realtà soltanto di una piccola porzione di un dipinto, intitolato The Misses Vickers, dell’artista americano – nato e vissuto per lo più in Europa – John Singer Sargent.

1884, Sheffield Galleries and Museum Trust, Inghilterra
Olio su tela
Da sinistra a destra: Florence Evelyn (18 anni), 

Mabel Frances (21 anni), Clara Mildred (19 anni)

The Misses Vickers fu esposto per la prima volta al Salone di Parigi nel maggio del 1885, ricevendo purtroppo una pessima accoglienza: venne snobbato sia dal pubblico che dalla critica, ed il miglior commento che ricevette fu quello di essere uno “pseudo-Velàsquez”. L’anno seguente apparve all’esposizione della Royal Academy di Londra, dove l’opera di Sargent non ricevette trattamento migliore. La Pall Mall Gazette lanciò un sondaggio ai visitatori della mostra, e The Misses Vickers fu votata come peggior opera dell’anno. La critica inglese, dal canto suo, si accanì sull’uso che Sargent faceva della prospettiva, in particolare riguardo l’inusuale posizione di Mildred ed il suo corpo voltato; allo stesso modo non piacquero le sedie posizionate ad angolo, la prossimità delle figure in primo piano rispetto agli oggetti diradati sullo sfondo. L’opera di Sargent era forse troppo distante dal gusto comune che – anche a giudicare dal sondaggio della Pall Mall Gazette – sembrava prediligere ancora uno stampo più classico. L’obiettivo di Sargent non era certo quello di raffigurare una scena neoclassica o preraffaellita, nelle quali l’occhio dello spettatore può posarsi un po’ ovunque sull’immagine, a dispetto della profondità.


The Misses Vickers è al contrario una rappresentazione moderna di tre ragazze moderne. Vediamo il braccio di Evelyn, poggiato attorno alla sorella maggiore mentre insieme sfogliano una rivista; vediamo il braccio di Mildred, poggiato sullo schienale della sedia in atteggiamento rilassato, e possiamo senz’altro immaginare di sederci in quello stesso modo: pur sapendo benissimo che le tre ragazze stanno posando, il ritratto trasmette un’atmosfera molto naturale. Sargent ha saputo infondere alla sua opera un senso di dolcezza insieme ad un tratto di realtà, come se stesse effettivamente raccontandoci qualcosa sulle protagoniste del suo dipinto, facendole spiccare dai melanconici toni scuri che dominano lo sfondo, tipici di altri – e più forti – suoi lavori.

John Singer Sargent era figlio di un dottore americano, e nacque a Firenze nel 1856. Studiò l’arte e la pittura in Italia ed in Francia, raggiungendo la fama al Salone di Parigi del 1884 grazie al ritratto di Madame Gautreau, esposto col titolo di Madame X. Il pubblico lo trovò scandalosamente erotico, al punto che le critiche e le polemiche spinsero Sargent a trasferirsi in Inghilterra, dove ben presto s’impose come il più grande ritrattista della sua generazione, una nomina che lo portò a ritrarre molti volti noti, tra cui Joseph Chamberlain (1896) e lo scrittore Henry James (1913). L’artista si recò diverse volte anche in America, dove si dedicò alla decorazione di edifici pubblici, come la Boston Public Library ed il Museum of Fine Arts.

I migliori ritratti di Sargent hanno la grande capacità di rivelare l’individualità e la personalità dei modelli, che non restano quindi figure fredde, dallo sguardo congelato in un’epoca lontana; i suoi più ferventi ammiratori sostengono che egli sia eguagliato in questo soltanto da Velàsquez, una delle più grandi influenze del pittore americano. 
Madame X, 1884

Il ritratto di Madame X, che tanto caos aveva suscitato nel 1884, è oggi considerato uno dei suoi lavori migliori, oltre ad esser stato il preferito dell’artista, che lo vendette al Metropolitan Museum of Arts.

Tra le sue opere va ricordata anche la serie di ritratti che fece allo scrittore Robert Louis Stevenson: il secondo, in particolare, del 1885, intitolato Portrait of Robert Louis Stevenson and his Wife è annoverato tra i suoi lavori più famosi; non da meno sono i ritratti che fece a due presidenti americani: Roosvelt e Wilson.

Durante gli anni d’oro della sua carriera Sargent creò circa novecento dipinti ad olio e più di duemila acquerelli, senza contare gli innumerevoli schizzi e disegni a carbone. Dal 1907 egli iniziò a limitare il proprio lavoro come ritrattista, continuando a buttar giù dei rapidi schizzi per i suoi patroni benestanti, necessari ad avere il loro sostegno finanziario; ma negli ultimi anni è facile notare come Sargent stesse finalmente dipingendo per se stesso: dipinse molti acquerelli dei paesaggi che visitava, testimonianza dei suoi viaggi, nei quali si coglie una fluidità tutta nuova, che trasmette gioia e spensieratezza; ritrasse spesso i suoi amici e familiari, ornati di vesti orientali in atteggiamenti naturali e rilassati, su sfondi chiari, leggeri, luminosi che gli consentivano di utilizzare una palette più vivida e ben maggior libertà di sperimentare di quanto non gli fosse stato possibile con le commissioni.
Sargent non si definì mai e non viene definito un impressionista, tuttavia più di una volta si servì nelle sue opere di tecniche tipiche dell’Impressionismo, padroneggiate con maestria e consapevolezza. La storia dell’arte inserisce John Singer Sargent nella corrente del rinascimento americano.

La biancheria, acquerello su carta, 1910

Rio dell'angelo, 1902






venerdì 6 gennaio 2017

Carol, Patricia Highsmith

Gennaio.
Era un genere di cose, ed era una cosa sola, come una solida porta. La sua temperatura gelida chiudeva la città in una capsula di grigiore. Gennaio era una serie di momenti, ed era un intero anno. Gennaio faceva piovere istanti, e li cristallizzava nella memoria: la donna che lei aveva visto scrutare ansiosamente i nomi, alla luce di un fiammifero, in un androne buio, l'uomo che scarabocchiava qualcosa e porgeva il pezzetto di carta all'amico prima che si separassero sul marciapiede, l'uomo che faceva tutto un isolato di corsa per prendere un autobus e ci riusciva. Ogni azione umana sembrava avere un che di magico. Gennaio era un mese bifronte, tintinnante come i campanelli di un giullare, scricchiolante come neve incrostata, puro come qualsiasi inizio, arcigno come un vecchio, misteriosamente familiare e tuttavia ignoto, come un vocabolo che si può quasi ma non del tutto definire.
Questa è la parte che apre la seconda parte di Carol, romanzo dell'americana - trapiantata prima in Francia e poi in Svizzera - Patricia Highsmith. Scrittrice estremamente prolifica, nata in Texas nel 1921, alla quale dobbiamo tra gli altri il celebre Il talento di Mr. Ripley. Ed è anche la citazione perfetta per aprire la prima recensione non soltanto di Gennaio, ma del 2017, che casualmente - dopo Brooklyn - ha per protagonista un altro libro da cui è stato tratto un film di recente successo, dal titolo omonimo, che ovviamente io non ho ancora visto.
Il motivo per cui mi sono ritrovata in mano il romanzo è piuttosto casuale. Ad acquistarlo parecchio tempo fa è stata mia sorella. Durante i giorni delle feste mi son fermata a dormire a casa dei miei genitori e, non essendomi portata nulla da leggere immaginando che non ne avrei avuto il tempo, in un momento di relax la voglia di immergermi in un libro si è fatta sentire tantissimo, così sono andata a cercare qualcosa tra le librerie altrui. Il bello di questa lettura è stato anche che è ambientata proprio tra il periodo delle feste natalizie ed i primi mesi dell'anno successivo, dunque è stato un accostamento perfetto ai momenti che stavo vivendo.

Nonostante sia intitolato a Carol, la vera protagonista e narratrice è Therese Belivet, diciannove anni, aspirante scenografa in una New York piena di luci e di opportunità, nella quale si può avere voglia di buttarsi a capofitto oppure dalla quale - sentendosi soffocare - si desidera fuggire. Therese deve ancora iniziare la strada di apprendistato per la scenografia, e nel frattempo è impiegata in un classico grande magazzino, precisamente nel reparto dedicato a bambole di tutte le forme e dimensioni e con le più svariate caratteristiche che, in vista del Natale, naturalmente pullula di clienti stressati ed esigenti. Un pomeriggio, tra i tanti volti anonimi Therese scorge una donna - biondissima, elegante, bella. Indossa una pelliccia, una sciarpa, ha in mano un paio di guanti che picchietta su un palmo. Ha l'aria distratta, nulla in comune con tutti gli altri. Per Therese è come avere una visione e tutto lo scambio di parole che segue con la donna scorre sospeso come in un sogno. La donna - Carol - acquista una bambola e lascia un indirizzo al quale spedirla, e sarà grazie a quell'indirizzo e a qualche dettaglio di fortuna che Therese potrà entrare in contatto con quella donna con cui, sin dal primo sguardo, aveva sentito vibrare la forza di un legame.

Quella tra Carol e Therese è una storia d'amore, una complicatissima quanto semplice storia d'amore. Semplice perché Therese e Carol si amano, e tanto dovrebbe bastare. Complicatissima perché siamo negli anni Cinquanta ed una diversità del genere la si paga a caro prezzo. Complicatissima perché Therese ha solo diciannove anni, non ha avuto alle spalle una vera famiglia e si è legata ad un fidanzato - Richard - di cui in realtà non le importa nulla, di cui ammira soltanto tutto ciò che a lei manca - una famiglia chiassosa e numerosa, una felicità facile ed ingenua, un incrollabile sicurezza nelle cose, compreso il fatto che loro due stanno insieme e ci stanno bene. Complicatissima perché Carol è nel bel mezzo di un divorzio ed ha una figlia.

Carol è un romanzo particolare, a cui forse bisogna abituarsi un capitolo alla volta e sul quale - me ne rendo conto adesso - bisogna riflettere a lettura conclusa per poterlo apprezzare in pieno. Sì perché in un primo momento gli avrei assegnato giusto una sufficienza: ottimi tutti gli elementi, ma a tratti avrei chiesto di più alla trama, a tratti la scrittura della Highsmith mi pareva lenta al punto di rischiare di annoiarmi; ora che ci penso, invece, vedo chiaramente i tantissimi pregi di questo libro.

Innanzi tutto, Therese. Therese non è una protagonista di quelle forti e cariche di sentimento, però è un personaggio perfettamente realistico. Si tratta di una ragazza giovane abituata a fare da sé, che scopre - grazie ad una donna già fatta - chi è veramente. Quella di Therese è un'educazione sessuale e sentimentale, e da questo punto di vista Carol appare anche come un romanzo di formazione e l'evoluzione di Therese è bellissima da seguire: la Therese Belivet che leggiamo alla fine è cento volte più forte, più affascinante, più interessante della ragazza spaurita, caparbia ma insicura incontrata all'inizio. Sempre per questo motivo, è magistrale il contrasto con Carol, la quale è una donna più grande già in pieno possesso della consapevolezza di se stessa e della realtà che le circonda. Allo stesso tempo Carol non è una donna che possiamo definire sicura di sé ed equilibrata: incline agli sbalzi d'umore, spesso difficile da decifrare. Per Therese, Carol rappresenta sfida e crescita; per Carol, Therese significa rischio ed onestà.

Le due donne intraprenderanno un lungo viaggio verso l'Ovest, durante il quale avranno tempo e modo di conoscersi a fondo, di regalarsi in egual misura dolore e felicità. Un nemico taglierà loro la strada, metterà in discussione il loro rapporto e le loro vite, segnerà il momento in cui cambiare, avere coraggio e decidere.

Come appunto, resta quel distacco nei confronti della scrittura della Highsmith, bravissima nelle descrizioni - la prima apparizione di Carol è da manuale - ma un po' fredda, spesso troppo lenta, in generale non pienamente di mio gusto. Tuttavia non c'è dubbio che voglio leggere altro di suo, a partire da Il talento di Mr Ripley di cui già conosco la storia.

Patricia Highsmith
Mi ha colpita molto anche la postfazione che accompagna il romanzo, nel quale la scrittrice ci racconta l'ispirazione dalla quale Carol è nato, le vicende editoriali del manoscritto e la reazione del pubblico. La Highsmith era reduce dal successo di Sconosciuti in treno, che era stato etichettato come giallo affibbiando a lei la nomina di giallista; i suoi editori, Harper & Bros, premevano affinché ne scrivesse un altro dalle stesse atmosfere, così da consolidare il suo nome e la sua posizione. Patricia Highsmith invece aveva ormai portato a termine Carol, in origine intitolato The Price of Salt, e non aveva intenzione di lasciarlo a prender polvere in un cassetto. Lo propose ad Harper & Bros, che lo rifiutarono e così lei, sotto pseudonimo - per evitare di vedersi affibbiate altre etichette che non desiderava così come non aveva desiderato quella di "autrice di gialli" - si rivolse ad un'altra casa editrice, che accolse e pubblicò il suo manoscritto nel 1952. The Price of Salt ricevette ottime recensioni e quando venne stampata l'edizione economica vendette quasi un milione di copie. Ma la cosa più straordinaria sta proprio nel significato che Carol assume nel panorama letterario forse mondiale: come ci racconta la stessa Highsmith, la rappresentazione degli omosessuali a quei tempi aveva sempre tinte tragiche. Gli omosessuali nei romanzi finivano sempre per suicidarsi, o per vivere una vita triste e solitaria, condannati all'infelicità da quella loro natura; erano anni in cui, anche nella più moderna Manhattan, i bar per gay si trovavano in bui scantinati e chi li frequentava scendeva dalla metropolitana qualche fermata prima o dopo, per non destare sospetti. Carol rappresentava il primo caso in cui due donne che si amavano erano due donne perfettamente normali, la cui storia non andava a concludersi in un buco nero di disagio e desolazione. Patricia Highsmith venne infatti sommersa di lettere da lettori che per questo le erano grati, da chi si sentiva finalmente rappresentato a chi - non avendo nessuno con cui poter parlare della propria omosessualità - leggendo Carol si era sentito meno solo. L'importanza del romanzo, e non di meno la sua modernità - vi assicuro che sembra scritto oggi, altro che '52! - è oserei dire smisurata.

"Preferisco evitarle, le etichette. Sono gli editori americani ad amarle."
- Patricia Highsmith 

A questo punto penso di avervi dato tutti gli elementi per decidere se vale o meno la pena leggerlo. Intanto che io recupero il film (e Cate Blanchett, già una delle mie attrici preferite, per interpretare Carol è a dir poco perfetta, quindi promette bene), voi ditemi la vostra nei commenti.


mercoledì 4 gennaio 2017

La letteratura è evasione?

Ed eccoci, cari lettori e care lettrici, al primo post dell'anno, che ho deciso di dedicare ad una questione che probabilmente accompagna la letteratura - e forse più in generale le forme d'arte - dall'alba dei tempi, e cioé: la letteratura è davvero una forma di evasione?
Nel corso dell'anno che ci siamo appena lasciati alle spalle me lo sono chiesta più spesso di quanto avessi mai fatto in precedenza. Non credo che, spiegandovi il mio pensiero, verrà fuori un articolo particolarmente lungo perché ho in mente giusto due o tre considerazioni piuttosto lineari; ci tenevo lo stesso a discutere l'argomento con voi, soprattutto perché m'interessa vedere un po' cosa ne pensano al riguardo altri rispettabilissimi appassionati lettori.

E' innegabile che mentre ci immergiamo nelle pagine di un libro o ci lasciamo trasportare dalla visione di un film ci estraniamo momentaneamente dalla nostra realtà personale, direi che su questo non ci piove, è un puro dato di fatto. Quando sento qualcuno dire che leggere è una forma di evasione, però, non penso semplicemente a questo, ma mi sembra piuttosto che s'intenda che chi legge - ed a maggior ragione chi legge tanto! - sia una persona che non vuol far altro che fuggire. Fuggire dalla realtà, dalla propria vita quotidiana, dalle responsabilità, da un concreto confronto col mondo... Per questo è una constatazione che sin da piccola mi ha fatto storcere il naso, anche quando a pronunciarla erano amanti dei libri come me. Davvero leggi per distrarti?, mi chiedevo, perché per me è sempre stato - da che io ricordi - l'esatto contrario: io leggo per concentrarmi. Attraverso i libri non soltanto ho costruito le basi della mia personalità, ma ho acquisito il senso critico che mi permette di rapportarmi alle cose che ho davanti; ho compreso i miei gusti, ho imparato sempre di più a riflettere e a pormi domande, ho imparato l'empatia e a mettermi nei panni degli altri; non solo: ho conosciuto luoghi in cui forse non avrò mai la possibilità di andare fisicamente, ho vissuto storie ed emozioni che chi non si è mai lasciato andare dentro un romanzo non potrà mai neanche immaginare.

Nei libri, in sostanza, non ho - quasi - mai cercato la fuga. Al contrario desideravo e speravo sempre che mi mettessero in difficoltà, ponendomi sotto gli occhi qualcosa che fino ad allora non conoscevo oppure semplicemente perché attraverso le azioni dei personaggi io potessi chiedermi: e se ci fossi stata io in questa situazione, cosa accidenti avrei fatto?

Vi dicevo che nel 2016 mi sono posta più che mai la domanda perché ho potuto constatare con particolare chiarezza il mio approccio alla lettura. Come ormai avrete capito - e come sembra esser stato un po' per tutti - il 2016 non è stato per niente un anno appagante, anzi, è stato costellato di momenti a dir poco bui. Ecco, se è vero che si legge per evadere, sarebbe proprio nei momenti peggiori che ci si butta a capofitto tra le pagine dei libri, giusto? Invece posso assicurarvi che quei momenti peggiori coincidevano anche coi momenti in cui non riuscivo minimamente a portare avanti una lettura; quando al contrario iniziava ad andare un po' meglio, mi scattava subito una smania famelica di leggere di tutto. Perciò per me ormai è comprovato: non leggo per evadere, leggo per restare, per esserci, per essere e sentirmi viva, utile, piena, umana.

E voi, invece? Ditemi la vostra nei commenti, stavolta ci tengo più del solito perché credo sia un argomento che ci tocca tutti.

Vi abbraccio,
a presto!

Anna Karénina, Lev Tolstòj

Anna Karénina , Lev Tolstòj, Russia 1875-77 – ma anche qualsiasi altro luogo e tempo dacché esistono l’uomo e la donna. Il commento al rom...