venerdì 8 febbraio 2019

Manga | La mia prima volta - My Lesbian Experience with Loneliness, Kabi Nagata

Parlare di un'opera che ci è piaciuta veramente, ma veramente tanto può essere semplice come bere un bicchiere d'acqua, o una questione incredibilmente problematica; nel primo caso, l'entusiasmo e la voglia di esprimere tale entusiasmo ci guidano, e noi ci lasciamo trainare, liberi e felici, come bambini che vedono una spiaggia per la prima volta. Nel secondo caso, radunare le idee - no, aspetta, siamo onesti: trovare il coraggio di parlare dell'opera in questione richiede un lavorio interiore che dura giorni e giorni, durante i quali si pensa a quante cose avremmo da dire, se trovassimo il coraggio, perdendoci in un labirinto di paranoie capace di farci cambiare idea ogni due per tre: dai sì, ci provo. No vabbè ma alla fine che importa, basta che lo so io. Però cavolo varrebbe proprio la pena scriverne... eh, ma che fai, scrivi pubblicamente proprio tutta la verità? No, dai, meglio lasciar perdere; se no si potrebbe tentare parlandone in maniera oggettiva, senza entrare nel personale... sì, ma così poi non ha senso, non avrò modo di spiegare nel dettaglio perché ho amato così tanto questa storia. Oh senti, basta, lo faccio. Ecco, tipo così, per giorni che diventano settimane. Anche se, onestamente, non credo di essermi mai arrovellata tanto il cervello come in questo caso.

La mia prima volta - My Lesbian Experience with Loneliness di Kabi Nagata è un volume unico, edito in Italia da J-pop (in un'edizione bicromatica davvero bella), che mi ha... no, fermi, non ce l'ho un aggettivo. Questo fumetto mi incuriosiva tantissimo da ormai un po' di anni, quando lo vedevo girare sul web nell'edizione inglese; immaginate un po' la mia gioia - condivisa da moltissimi altri, per fortuna - quando l'ho visto arrivare nelle nostre fumetterie. Nonostante questo, non sapevo di cosa parlasse, perché una cosa che amo è addentrarmi in un'opera sapendone poco o nulla, per godermi tutto il piacere della scoperta e della sorpresa. E, amici, che sorpresa stavolta! La storia non è affatto incentrata sul sesso o sull'orientamento sessuale della protagonista come potrebbe suggerire il titolo: il sesso c'entra perché la sessualità, che si faccia sesso o meno, fa parte di ogni singolo essere umano e consapevolmente o meno ne siamo tutti condizionati nella nostra vita quotidiana. E siccome questo è un fumetto che parla molto di disturbi psicologici, della fatica di trovare un proprio equilibrio, di voler mollare tutto ma non riuscire allo stesso tempo a smettere di combattere per capire chi si è veramente e che cosa si vuole per la propria esistenza... ecco, in tutto questo anche la sessualità è una componente importante. 

Questa è una storia autobiografica, la protagonista perciò è la stessa mangaka, Kabi Nagata, che con un coraggio che non smetterò mai di invidiare, con una sincerità disarmante racconta i suoi anni più oscuri e desolati, che vanno dalla fine del liceo ai ventisette anni, momento in cui inizia finalmente a scrivere questo manga che sarà la chiave di svolta per prendere in mano la sua vita. Uscita dal liceo, infatti, dove era una studentessa come molte altre - brava a scuola, con le sue passioni e tante amiche - non è più riuscita a trovare un luogo cui appartenere, come lo definisce l'autrice. Si iscrive all'università come fanno tutti gli altri, ma dopo appena sei mesi lascia perdere perché si accorge che non è il posto che fa per lei; così, com'è giusto che sia, trova un lavoro part-time che inizialmente la soddisfa, illudendosi di essere parte di qualcosa avendo un luogo dove recarsi tutti i giorni ed interagendo con i colleghi, ma quando lei non riesce ad essere puntuale, efficiente e produttiva va incontro alle ovvie conseguenze, ossia richiami ed infine il licenziamento. I motivi per cui lei non riesce a tenersi il lavoro non sono stupidaggini: il disagio che lei prova e che non elabora a parole trova altre strade per venir fuori da quella testa compressa, assumendo la forma di gravi patologie psicologiche. Nello specifico, la protagonista cade nel vortice dei disturbi alimentari, passando dall'anoressia alle abbuffate compulsive, e mettendoci nel mezzo l'autolesionismo giusto per non farsi mancare niente. E quando, da sola e con immenso impegno, metterà una pezza su questi disastri esistenziali, il dolore non estirpato troverà ancora un altro modo per farsi vedere: la tricotillomania, che non è uno scioglilingua né una supercazzola né tanto meno un incantesimo; è un altro disturbo nervoso, di tipo ossessivo-compulsivo, che porta chi ne soffre a sentire il bisogno di strapparsi i capelli. Da questo, la protagonista/autrice ricaverà una bella chiazza calva sulla testa che sarà un ulteriore fonte di imbarazzo e vergogna.





Se ora state immaginando un dramma, pieno di lacrime e tragedie, non potreste sbagliarvi di più. L'autrice ha saputo raccontare la propria sofferenza con una calma, una sobrietà ed una razionalità che non hanno eguali: pane al pane, vino al vino. Non ha cercato di abbellirsi in alcun modo, né ha calcato la mano su quei tanti tratti in cui molti altri sarebbero scivolati nell'esasperazione dei toni o, ancor peggio, nell'autocommiserazione. Kabi Nagata non fa niente di tutto questo, non fa altro che raccontare il suo vissuto ed analizzarlo con una lucidità che fa capire quanta realtà ci sia dentro queste pagine, perché chi non ha visitato davvero certi luoghi non li può descrivere in questo modo. 

I disturbi psicologici non sono neanche il fulcro dell'opera, pensate un po'. Si parla di talmente tante cose qui dentro che è difficile spiegarvele tutte. La Nagata analizza il suo rapporto coi genitori, e lo spiega da una parte con la consapevolezza di una che l'ha compreso e risolto, ma al tempo stesso con tutte le difficoltà della se stessa che ancora ci stava incagliata dentro. Parla di solitudine, perché lei non aveva uno straccio di amico né tanto meno - figuriamoci - aveva mai avuto una relazione sentimentale. Parla del bisogno di ricevere un abbraccio vero da un altro essere umano. Parla di come il sesso possa talvolta costituire un taboo e di quanto sia importante rompere questo taboo ed imparare a riconoscersi anche come una persona sessuata e con dei bisogni sessuali fino a quel momento repressi. Parla, in poche parole, del lungo, lento, faticoso percorso che la protagonista/autrice ha dovuto compiere non per trovare la sua strada, ma soltanto per arrivare al passo ancora prima di questo: capire da che parte iniziare per cercarla, quella strada


 Questo manga, che ho divorato in un giorno solo ed al quale a distanza di settimane non ho ancora smesso di pensare, credo sia diventato il mio preferito di sempre. Mi piace il tratto semplice e schietto dell'autrice, e la bicromia bianco/varie sfumature di rosa funziona alla grande. Ho già espresso la mia totale ammirazione per il coraggio e la sincerità, proprio senza veli, con cui ha raccontato questi aspetti così difficili di se stessa, perché ci sono dentro anche elementi di cui non vi ho parlato e che sono certa molte altre persone si sarebbero vergognate di raccontare anche all'amico più fidato. Invece lei le ha prese e buttate in questo manga, forse perché in fondo aveva capito di non essere l'unica ad aver avuto certi pensieri, o provato certi sentimenti, ed ha pensato di restituire quel favore che altri le avevano già fatto: raccontarsi, nella speranza che quell'atto pruriginoso sarebbe potuto essere utile per coloro che avrebbero letto.

E lo è stato, cara Kabi Nagata, lo è stato eccome. Lei aveva appunto ventisette anni, quando ha radunato forze ed esperienze per mettere al mondo questo manga, l'età che ho io ora che ne scrivo. Siamo la generazione dei più o meno quasi all'incirca trentenni, e da questa generazione stanno fioccando opere che raccontano questo profondo disagio esistenziale, questa lotta estenuante per trovare un proprio posto, o qualcosa che ci faccia sentire definiti. Siamo liquidi, e vorremmo diventare solidi come le altre persone che sembrano funzionare, che si ammaccano ed ogni tanto si rompono, ma per lo meno hanno una forma e non si disperdono così disordinatamente, a macchia d'olio, sprecando ogni goccia di potenziale e facendo sempre più fatica a ricomporsi.

My Lesbian Experience with Loneliness è uno dei fiori all'occhiello di quella che per me ormai è una nuova corrente letteraria/fumettistica, lo è per la sua completezza, per la sua profondità, per la sua enorme capacità di comunicare col lettore. L'ho amata perché io ho vissuto o vivo tutt'ora davvero un'ottima percentuale delle cose narrate dalla Nagata (ed ecco svelata la mia nota dolente), ma l'ho amata anche perché ho capito subito che è un'opera che potrebbe essere più facilmente compresa anche da una persona che non ha mai vissuto niente di tutto questo, e che fatica a capire cosa possa esserci che non va in una persona che in fin dei conti sembra solo pigra e svogliata e depressa senza motivo. Ha fatto uno schemino strepitoso sul meccanismo mentale che porta un autolesionista a farsi del male fisico, più di così non si poteva fare (-> tono sarcastico rivolto ai chiusi di mente, agli scettici, ai superficiali, a quelli che davanti a certi problemi sanno dire solo "è matto/a" oppure "dai, non farlo più!" di cui ahimè è ancora pieno il mondo).

Vi ho detto tutto, eppure vi ho detto troppo poco. Questo manga merita moltissimo, a maggior ragione se vi sentite in stallo, se c'è una parte di voi che vive in gabbia dimenandosi nel tentativo di liberarsi, se state cercando di spiccare il volo ma non riuscite a fare altro che ridicoli saltelli. Mi sono rivista talmente tanto nella protagonista, che come una bambina sciocca ho iniziato ad aggrapparmi a lei pregandola tra me e me di offrirmi una soluzione. Ad ogni pagina che voltavo, speravo con tutta me stessa che la conclusione della sua vicenda personale mi offrisse una chiave per risolvere anche la mia. Com'è ovvio in una storia autobiografica, il finale non è altro che l'inizio di una nuova storia, eppure qualcosa di importante l'ho visto comunque. E se l'ho visto io, potrebbero trovarlo anche molti altri lettori e lettrici che si sentono come me. Ma questo manga non va letto soltanto se si sente la possibilità di immedesimarsi, anzi, lo dovrebbero leggere anche le persone solide per capire un po' come ci si sente tutti i santi giorni ad essere persone liquide. 

Leggere La mia prima volta - lo ammetto - mi ha fatta sentire meno sola.
E di conseguenza, meno in colpa per l'infinità di cose di cui invece mi incolpo.
Colmare vuoti e alleggerire di qualche peso, anche se soltanto per un po', è una delle cose più belle che la lettura possa fare.
Grazie, Kabi.



domenica 3 febbraio 2019

La donna in bianco, Wilkie Collins

Walter Hartright cammina indisturbato, perso nei suoi pensieri. Sono tanti in quella tiepida notte londinese, proprio per questo ha scelto un tragitto più lungo del necessario per tornare al suo appartamento dopo la consueta visita al villino di sua madre e sua sorella. Ha scelto una strada più lunga, un isolato tratto dall'aspetto campestre, proprio per poter camminare e macinare assieme ai passi quei pensieri sull'immediato futuro che gli frullano confusi nella testa. Quella sera, a casa della madre era presente anche un amico di vecchia data, il professor Pesca, un italiano piccolo e pittoresco che nella capitale inglese insegna la sua lingua madre. Pesca, coi suoi modi sopra le righe, non stava nella pelle dalla felicità: aveva finalmente trovato un modo per ricambiare un antico favore ricevuto dal buon Walter, e per il quale non aveva mai smesso di sentirsi fortemente in debito. La risoluzione di tale debito morale, da parte di Pesca, consisteva in un'allettante offerta di lavoro. Walter Hartright, infatti, come il proprio defunto padre, è un insegnante di disegno, e Pesca gli ha trovato un ottimo ingaggio presso Limmeridge House, dove dovrà curare una certa collezione del proprietario di casa, ed insegnare l'arte dell'acquerello a due giovani signorine.

La durata dell'impiego e la paga prevista sono talmente buone che la madre e la sorella di Walter, ascoltando il profluvio di parole di Pesca che mostra con orgoglio cosa è riuscito a fare, si lasciano andare ad applausi, esclamazioni di gioia e quasi alla commozione, con estrema soddisfazione del professore d'italiano; Walter, invece, pur rendendosi conto di quanto sia sciocco da parte sua, sente subito una punta di repulsione, come se il suo istinto gli dicesse di non accettare. Tuttavia, una proposta di lavoro come quella non capita tutti i giorni ad un giovane e modesto maestro di disegno e, visto anche l'entusiasmo dei suoi cari, non può proprio permettersi di rifiutare; così accetta, e deve già fare i preparativi per l'imminente partenza. Si concede però quella passeggiata solitaria, guidato dalla luce di una luna lontana, per interrogarsi sulle proprie sensazioni e cercare di scendere a patti con se stesso ed il proprio dovere.

Le sue meditazioni vengono improvvisamente interrotte da un tocco, breve e deciso, sulla sua spalla. Nonostante Walter non avesse udito dei passi dietro di sé, né avesse percepito in alcun altro modo la presenza di qualcun altro lungo la strada buia e deserta, voltandosi sorpreso e spaventato scopre una donna sola e visibilmente agitata. Se non fosse proprio che ella appare impaurita e spaesata, Walter si lascerebbe probabilmente prendere dall'inquietudine - per la stranezza della situazione, per esser stato colto così di sorpresa, per l'aspetto della sconosciuta che un po' scarmigliata ed interamente vestita di bianco sembra quasi un fantasma; ma, da gentiluomo quale egli è, torna subito in sé e cautamente cerca di capire che cosa sta succedendo. La donna, che non gli dirà mai il suo nome, non vuole altro che un'indicazione per raggiungere Londra e la carrozza più vicina, che la condurrà presso la casa di una cara amica che la attende. Leggermente rassicurato, Walter si offre di accompagnarla, e così compiono l'ultimo tratto di strada l'uno affianco all'altra, chiacchierando - quasi - del più e del meno. La donna talvolta fa domande strane, ad esempio ci tiene a sapere se Walter conosce molti baronetti, e diventa chiaro dall'apprensione con cui attende le risposte che sta fuggendo da qualcosa o da qualcuno. Tra quelle chiacchiere casuali, esce dalle labbra della donna anche Limmeridge House, proprio il luogo dove Walter dovrà recarsi il giorno dopo; la misteriosa donna in bianco ricorda giorni felici della sua infanzia presso quel luogo, e l'affetto che ancora oggi nutre per la defunta signora, che era la maestra della scuola e che l'aveva presa sotto la sua ala durante il breve periodo che aveva potuto trascorrervi. L'assurda coincidenza desta tutta la curiosità di Hartright, che tuttavia non riesce a scoprire nulla di più, ed aiutando la donna a salire sulla prima carrozza che trovano una volta arrivati in città è convinto che non la vedrà mai più.

Questo è soltanto l'inizio di una lunga ed avvincente storia, all'interno della quale si incontrano una moltitudine di personaggi tridimensionali ed indimenticabili. A partire dalle signorine cui Walter Hartright doveva impartire le sue lezioni di disegno, Laura Fairlie e Marian Halcombe, due giovani donne, sorelle solo per parte di madre, diversissime in tutto ma legate da un profondo amore.
Laura, delle due, è quella sinceramente interessata al disegno. Consapevole di non essere un grande artista, vuole tuttavia migliorare ed imparare quanto possibile per rendere più belli i suoi acquerelli, e trarre maggior soddisfazione da quel prediletto passatempo; Marian, invece, lo trova appunto un passatempo da signorine perbene e non ne trae alcun vero godimento. Accetta di partecipare soltanto per Laura, per farle compagnia e condividere con lei il proprio tempo ed i suoi interessi.
Delle due, Laura è quella cui la vita ha sicuramente donato di più: la bellezza, e la ricchezza. Lunghi capelli biondi, occhi celesti, una figura in ogni dettaglio femminile e delicata, Laura è la donna angelo cui gli ideali classici ci hanno abituato. E' infatti anche di gusti molto semplici, ha un cuore puro e generoso ed una bontà che traspare dal suo viso e s'intuisce da ogni gesto.
Marian, al contrario, non ha un aspetto attraente, ma compensa con un'acuta intelligenza ed una personalità a dir poco carismatica e - oh, mio Dio! - quanto ho appassionatamente adorato questo personaggio! Il suo temperamento indomito, la sua insofferenza per i limiti posti ad una donna nella sua epoca, contro cui però non si scaglia mai apertamente e con una foga forse inutile, sole piccole allusioni spesso ironiche; la sua grande capacità di osservazione e di comprendere sempre chi ha davanti o cosa la aspetta, il suo coraggio, la sua scaltrezza, e la sua capacità di combattere sino allo stremo delle forze per le persone che ama. Marian è, in una rosa di personaggi ugualmente ben caratterizzati, quella che per me brilla di più, verso la quale son sempre stata più attratta, forse per quella propensione che, da donna, mi fa amare le donne forti ed intelligenti come lei. Una menzione va però fatta anche al conte Fosco, un altro italiano che si distingue per la sua mole gigantesca, per la sua voce baritonale, per la sua infantile passione per i dolci, e per il suo atteggiamento materno verso i suoi adorati animaletti - topolini bianchi e canarini, per lo più. Ma il conte è molto di più di questo, e non c'è altro modo di descriverlo se non con le parole di Marian: si era inevitabilmente attratti da lui, ma allo stesso tempo - fin dal primo incontro - sente la certezza che non lo avrebbe mai voluto come nemico.

Sono molti altri i personaggi che il lettore incontra lungo le quasi ottocento pagine che compongono il romanzo. C'è un Sir Percival, un inutile ed irritante Mr Fairlie, un'infermiera, una governante, Madame Fosco e così via; spingersi a riferire troppo sul loro conto non è possibile, e non è possibile perché i personaggi sono in questo caso strettamente legati al ruolo che svolgono all'interno della storia. Una storia che ha a che fare con un matrimonio, con i soldi (e quando mai non c'entra il vile denaro!), con una serie di inganni e sotterfugi, con misteri appartenenti al passato il cui riverbero intacca il presente, con una vecchia matrona che abita ad Old Welmingham, e dove persino il prete s'inchina passando davanti casa sua...

La donna in bianco è veramente un bel romanzo. E' una macchina narrativa intricata e complessissima, sostenuta però da una scrittura scorrevole e di sconfinata raffinatezza. E' come un maestoso palazzo, in cui una volta entrati si continua a camminare, percorrendo lunghi corridoi, varcando porte che si aprono su scale che salgono e che scendono, in una continuità che sembra non avrà mai fine; eppure, in tutto quel salire e scendere e percorrere stanze e spazi a non finire, non si ha tempo per lamentarsi della tortuosità del percorso o per chiedersi se si arriverà mai da qualche parte: si è troppo costantemente impegnati ad ammirare i complementi d'arredo, la qualità dei tessuti e dei quadri, l'eleganza che distingue ogni singolo dettaglio di quel palazzo che è un rebus su vasta scala. Perciò non ci si annoia mai durante la lettura, anche perché nonostante man mano si scoprano molti pezzi, la figura non si completa del tutto fino all'ultimo ed una volta che ci si è dentro - chiusa alle spalle la porta del palazzo-rebus - non c'è modo né il più fioco barlume di desiderio di tornare indietro. Si desidera soltanto andare avanti e scoprire, sapere, conoscere.

Wilkie Collins è uno dei più prolifici scrittori dell'epoca vittoriana, nonostante arrivi a scoprire il proprio talento e la propria vocazione letteraria soltanto dopo un paio di false partenze professionali: dapprima prova a cimentarsi nel commercio del tè, scoprendo però di non aver alcun fiuto per gli affari; intraprende allora gli studi di Legge, diventa avvocato ma non praticherà mai il mestiere, e le sue conoscenze giuridiche verranno sfruttate solamente all'interno delle sue storie. Quando prende in mano la penna per la prima volta ha ventitré anni, e lo fa per scrivere una piccola biografia in memoria del padre da poco venuto a mancare. Collins scopre in questo modo ciò che veramente vuole fare della sua vita, ed il suo primo romanzo viene pubblicato tre anni dopo, nel 1850. Da quel momento in poi la sua produzione è inarrestabile, soprattutto dopo l'incontro, nel 1852, con Charles Dickens, che lo invita a scrivere sul suo settimanale: Households Words. Tra i due nasce un sodalizio professionale, ma anche di sincera amicizia, che non si interromperà mai. Ed è proprio da questo sodalizio che nasce La donna in bianco, il terzo romanzo di Collins: è lo stesso Dickens, infatti, che lo invita a pubblicare una sua storia a puntate sulla sua celebre rivista All the Year Round, e le vicende di Walter, Laura, Marian e gli altri tennero compagnia ai lettori dal 1859 al 1860 (compiango quei poveretti che dovevano di volta in volta attendere il numero successivo per andare avanti, mi sento male alla sola idea!). La donna in bianco fu la prima opera ad essere definita una sensation novel, un genere che ebbe poi larga fortuna durante l'epoca vittoriana. Oggi, Wilkie Collins è universalmente riconosciuto come uno dei padri del poliziesco, ma secondo me sarebbe molto riduttivo incasellare la sua opera all'interno di un preciso genere letterario. Dentro questo romanzo c'è tutto ciò che si può chiedere ad un buon libro, compresa la critica sociale: nella figura di Marian Halcombe c'è riassunto tutto ciò che Collins pensava della condizione femminile nella sua epoca.

Un'ultima cosa, che ho dimenticato di scrivere prima: il romanzo è raccontato di volta in volta dai personaggi che hanno vissuto o son stati direttamente coinvolti negli eventi. I fatti non sono arrivati in un'aula di tribunale, ma ognuno di loro racconta come se si trovasse a testimoniare davanti ad una giuria - che, di conseguenza, diventa il pubblico dei lettori. Ci si sente direttamente interpellati e coinvolti, come se proprio da noi dipendesse l'esito della storia o le possibili conseguenze. Grazie a questo escamotage narrativo, si ha come risultato anche la variazione di stile e di tono a seconda della voce narrante, che si esprime talvolta con un manoscritto appositamente redatto, attraverso un diario tenuto all'epoca dei fatti, con documenti o con colloqui narrati da altri. Insomma, c'è una varietà di strumenti e di voci veramente ricchissima e ben riuscita, tale da non poter annoiare mai, in nessuna delle tantissime righe che compongono La donna in bianco.

Se non l'avete ancora letto, vi consiglio caldamente di inserirlo tra le vostre letture di questo anno. Per me è stata una lettura avvincente, sinceramente goduta anche in mezzo alle estreme sofferenze di aver per la testa troppe domande a cui trovar risposta; è stato uno di quei libri a cui non riuscivo a smettere di pensare, di cui ad un certo punto ho dovuto macinare pagine a centinaia ignorando tutto il resto, e che quando l'ho finito mi ha fatto pensare "Oh, okay, ora posso tornare a vivermi la mia vita", con quella punta di sano dispiacere nel dover lasciar andare i personaggi cui ormai mi ero affezionata, soprattutto la mia adorata Marian.

Lo so, questo post è davvero molto lungo, perciò se siete arrivati sin qui vi meritate almeno un'ottima tazza di tè. Perdonatemi per non aver tenuto almeno un minimo i miei pensieri a freno, ma un romanzo così vasto - non solo di mole, ma soprattutto di contenuti - non può esser liquidato in fretta e furia e senza tanti complimenti. Fatemi sapere se lo avete letto (sarebbe una gioia perderci a discuterne animatamente nei commenti!) o se, nel caso siate riusciti ad arrivare alla fine di questo mio papiro, vi ho incuriosito abbastanza da prenderlo in mano.

Un abbraccio,

Julia


Anna Karénina, Lev Tolstòj

Anna Karénina , Lev Tolstòj, Russia 1875-77 – ma anche qualsiasi altro luogo e tempo dacché esistono l’uomo e la donna. Il commento al rom...